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Questioni sulla prelazione nell’impresa familiare

Ai sensi dell’articolo 230-bis comma 5 del codice civile “In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i partecipi di cui al primo comma (familiari quali il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo) hanno diritto di prelazione sull’azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell’art. 732”. In questo lavoro ci si soffermerà esclusivamente sulla portata di questa norma, che è stata ed è, in tema di impresa familiare, quella su cui si è più soffermata l’attenzione degli interpreti. La prelazione, come noto, è il diritto di uno o più soggetti ad essere preferiti rispetto ad altri in caso di trasferimento. Fonte della prelazione può essere la volontà delle parti (e si parla di prelazione convenzionale, avente efficacia obbligatoria, quindi solo fra le parti) oppure la legge (cosiddetta prelazione legale, avente in linea di massima efficacia reale, quindi anche nei confronti dei terzi). La prelazione spettante ai partecipanti all’ impresa familiare è legale in quanto prevista dall’art. 230-bis comma 5 c.c., ed ha ad oggetto l’azienda.

NATURA GIURIDICA. Si discute però se questa prelazione abbia natura reale o obbligatoria. Quindi se ci sia o no il retratto ( e cioè la possibilità per il familiare titolare del diritto di prelazione di riscattare l’azienda dall’acquirente e da ogni suo avente causa).

Secondo una 1^ tesi (Galgano,Bianca,Ghidini, Messinetti,Cecconi, Auciello-Badiali-Iodice-Mazzeo, La volontaria giurisdizione e il regime patrimoniale della famiglia, 2000, 599) la prelazione in questione ha natura reale e c’è il retratto perché:

1. è mutuata dalla prelazione del coerede ex art. 732 che prevede il retratto (Notariato 5/2005,490 commento a Cass. 631/2004); 2. è un caso di prelazione legale (=avente fonte nella legge) ed il principio che emerge da una serie di norme è che la prelazione legale è sempre reale, mentre la prelazione convenzionale ha carattere obbligatorio.

Secondo una 2^ tesi (Oppo, V.Panuccio,V.Colussi, M.Tanzi, A.Di Francia), il retratto si applica solo al trasferimento dell’azienda, anche perché nella divisione ereditaria i prelazionari partecipano all’atto divisionale, e compiuta la divisione i condividenti che hanno aderito non hanno più ragione per reclamare. Il problema però, è che l’applicazione dell’art. 732 per il termine finale del retratto (“finchè dura lo stato di comunione ereditaria”) non è compatibile con il trasferimento. E allora questa dottrina applica un altro termine, in via interpretativa: il momento della liquidazione in denaro della partecipazione nell’ impresa familiare (perché si ha liquidazione in caso di alienazione dell’azienda). È in questo momento infatti che il partecipante all’ impresa familiare deve scegliere se accettare la liquidazione, rinunziando al riscatto dell’azienda, o viceversa esercitare il diritto di retratto.

Secondo una 3^ tesi (Areniello in Riv.Not.2002,p.85; Corsi; Comenale Pinto) invece, non c’è il retratto perché:

1. manca un termine di legge per il suo esercizio (a differenza dell’art. 732), e l’interprete non è autorizzato a stabilire un termine qualunque, essendo ciò consentito al solo legislatore. Se così non fosse si andrebbe contro i principi di certezza delle situazioni giuridiche.

2. Nella prelazione ereditaria il retratto è collegato allo stato di comunione, che nella prelazione familiare manca, perché qui la prelazione è accordata per il momento dello scioglimento della comunione e cioè per la divisione ereditaria. Nel trasferimento di azienda invece lo stato di comunione manca totalmente e quindi non si applica anche per esso il retratto dell’art. 732.

3. Il trasferimento dell’azienda determina comunque la cessazione dell’impresa familiare e, quindi, il venir meno del diritto di prelazione.

4. Occorre salvaguardare il principio dell’affidamento dei terzi: il legislatore non ha previsto alcuna pubblicità per l’ impresa familiare, per cui il terzo acquirente di un’azienda non potrebbe avere alcuna informazione sull’eventuale spettanza di un diritto di prelazione, e sarebbe del tutto sprovvisto di tutela (nel retratto successorio invece il terzo sa che sta acquistando una quota ereditaria indivisa e pertanto che rischia il retratto; nell’ impresa familiare si acquista un’azienda senza poter sapere che questa eventualmente costituisce oggetto di un’ impresa familiare).

ESERCIZIO DELLA PRELAZIONE.

Il 230bis co.5 rinvia all’art.732 c.c., da applicarsi nei limiti in cui risulti compatibile con la disciplina dell’ impresa familiare. Per l’ipotesi di trasferimento dell’azienda, si ritiene che l’ imprenditore debba provvedere alla notifica della proposta di alienazione ai familiari partecipanti, i quali possono esercitare la prelazione entro 2 mesi dall’ultima delle notificazioni (Areniello in Riv.Not.2002,p.83).

Per la divisione ereditaria la questione della compatibilità con l’art.732 è più complessa. Bisogna risolvere innanzitutto il problema se la prelazione in caso di divisione ereditaria sia prelazione in senso tecnico o solo un criterio ordinante. Se la si configura come vera prelazione, allora bisognerà procedere alla notifica della proposta di divisione come per l’art. 732. Se invece è solo un criterio che compone il conflitto nella divisione fra coeredi, non vi sarà onere di notifica né esercizio della prelazione entro un certo termine, in quanto non si applicherà il 732. Al riguardo sono emerse tre tesi fra quelle più seguite in dottrina.

Per una 1^ tesi, prevalente, non è prelazione in senso proprio, ma solo un criterio ordinante per meglio comporre le quote dei coeredi (Gabrielli, Oppo in Commentario al diritto italiano di famiglia, sub art. 230-bis, 1992, 509). Analogamente agli articoli 720 e 722 c.c., che dettano un criterio di preferenza nella formazione delle porzioni ereditarie, l’art. 230bis per la divisione ereditaria avrebbe previsto una preferenza per i collaboratori-eredi dell’ imprenditore nell’assegnazione dell’azienda. Non sarebbe prelazione, la quale tradizionalmente, già nelle definizioni, è configurabile solo per fattispecie traslative, per le alienazioni, e che solo nell’art. 230bis viene configurata anche per la divisione ereditaria. I partecipanti all’IF, che siano anche coeredi, sono preferiti nell’assegnazione del bene azienda, qualora lo richiedano, rispetto agli altri coeredi, così come per l’art. 720 gli immobili non divisibili devono essere preferibilmente compresi per l’intero nella porzione del coerede con la quota maggiore.

Una 2^ tesi sostenuta dal solo Ghidini( in L’ impresa familiare, 1977, 66 ss.) ritiene che la prelazione nella divisione ereditaria si avrebbe nell’ipotesi di vendita da parte dei coeredi, a scopo di divisione, dell’azienda destinata ad impresa familiare, ad un terzo estraneo all’ impresa familiare. In tal caso i partecipanti all’ impresa familiare, siano o no coeredi, avrebbero prelazione su tutti gli altri soggetti, anche coeredi. La critica mossa a questa opinione è che così si convertirebbe questa prelazione in un caso di trasferimento, togliendo autonomo rilievo all’ipotesi di prelazione nella divisione ereditaria prevista dal 230bis.

Secondo una 3^ tesi (Areniello in Riv.Not.2002,p.76) sarebbe una vera ipotesi di prelazione in senso tecnico perché:

1. l’art.230bis parla di prelazione unitariamente sia per trasferimento di azienda che per la divisione ereditaria.

2. La prelazione è strumento volto a comporre il conflitto fra più potenziali acquirenti, come fa anche il 732 che viene richiamato dal 230bis. L’art. 720 invece esclude potenziali conflittualità fra soggetti estranei all’eredità.

3. Se fosse applicabile l’art.720, non ci sarebbe stato bisogno di prevedere il 230bis co.5 per la divisione ereditaria. Ritenere applicabile il 720 porta ad una abrogazione tacita del 230bis nella parte in cui collega la divisione ereditaria e la prelazione.

L’accoglimento di quest’ultima tesi comporta molti problemi nel caso in cui non ci sia coincidenza fra la figura degli eredi partecipanti alla divisione e quella dei partecipanti all’ impresa familiare – prelazionari.

Si pone quindi, in generale, il problema dei titolari del diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria, esaminato nel paragrafo seguente.

Titolari del diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria.

Secondo una 1^ tesi, sostenuta dalla prevalente dottrina, solo i partecipanti all’ impresa familiare che siano anche coeredi potrebbero esercitare la prelazione in caso di divisione ereditaria, perché:

1.il 230bis richiama il 732 sulla prelazione fra coeredi;

2. l’ art.757 c.c. dispone che con la divisione ogni coerede è reputato solo ed immediato successore dei beni del de cuius, e questa successione al defunto può verificarsi solo per chi sia coerede. Dato che si divide l’intero asse ereditario, tutti i beni in esso compreso (quindi anche l’azienda) devono essere attribuiti a coloro che saranno i successori del de cuius, cioè gli eredi.

3. Vi sarebbero inoltre molteplici problemi derivanti dal far partecipare alla divisione ereditaria ( del patrimonio lasciato dal de cuius) soggetti estranei alla comunione quali i partecipanti non coeredi.

Ad avviso di altra tesi (Areniello), basterebbe invece la qualità di partecipanti all’impresa familiare per poter esercitare la prelazione, anche se questi soggetti non siano anche coeredi, in quanto: A. altrimenti si sacrificherebbe la ratio protettiva del 230bis, che è quella di privilegiare tutti quelli che parteciparono all’IF, consentendogli di acquisire la titolarità dell’azienda. B. il legislatore col 230bis ha sacrificato le regole di trasmissione successorie in nome della tutela dell’interesse alla destinazione dell’azienda all’IF.

Ipotesi discusse di prelazione in caso di divisione ereditaria

Un primo problema è: come deve intendersi l’espressione “divisione ereditaria”?

Secondo un autore (De Rubertis): estensivamente, tale da ricomprendere l’ipotesi di divisione fra legatari.

Secondo Areniello (in Riv.Not.2002,p.82) invece, la prelazione in caso di divisione ereditaria non si applica quando l’imprenditore abbia disposto per testamento dell’azienda (a titolo di legato, di institutio ex re certa, di norme stabilite dal testatore per la divisione, in caso di divisione fatta dal testatore), perché in queste ipotesi si deve ritenere che prevalga la volontà testamentaria, in mancanza di espressa deroga di legge.

Altro problema è: il diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria spetta ai familiari-collaboratori se l’imprenditore defunto è coniugato in comunione legale dei beni? A tal proposito si consideri che, qualora il coniuge - imprenditore abbia iniziato l’attività d’impresa dopo il matrimonio, al momento dello scioglimento della comunione (e quindi anche al momento della morte dell’ imprenditore), ex art.178 c.c., i beni destinati all’esercizio dell’impresa (=l’azienda) si considerano oggetto della comunione stessa. Si avrà che i beni aziendali saranno, alla morte dell’ imprenditore, per metà dell’ imprenditore stesso e andranno nella sua successione, e per metà del coniuge non imprenditore. In questo caso la dottrina più attenta (Corsi, pag.82 Riv.Not.2002) afferma che con la metà dell’ imprenditore dovrà innanzitutto provvedersi a soddisfare i diritti di partecipazione, liquidando la quota ex art. 230bis comma 4, dei familiari-collaboratori, ricorrendo un’ipotesi di cessazione dell’IF. Poi, quanto residua cadrà in comunione ereditaria e nella successiva divisione ereditaria, i familiari potranno esercitare la prelazione.

Prelazione in caso di trasferimento di azienda. Per trasferimento di azienda si deve intendere innanzitutto il trasferimento inter vivos a titolo oneroso della proprietà dell’azienda posto in essere dall’ imprenditore. Si è evidenziato in dottrina che il richiamo all’art. 732 c.c. presuppone non solo che l’alienazione, cui la prelazione si riferisce, sia a titolo oneroso, ma anche che la prestazione corrispettiva sia fungibile e, quindi, suscettibile di essere procurata all’alienante, oltre dal terzo con cui egli abbia contrattato, anche dal¬l’avente diritto a prelazione, senza che la sostituzione incida sulla sostanza economica degli interessi dell’alienante. Secondo la dottrina dominante (Areniello, Corsi in Notariato 1/1998, 79), il trasferimento deve avere il carattere dell’onerosità e poter rispettare la parità di condizioni fra avente diritto alla prelazione e terzo . Non opera la prelazione, ove il trasferimento abbia ad oggetto singoli cespiti, salvo che l’importanza del bene sia tale da identificarlo praticamente con l’azienda (si fa l’esempio del fondo nel caso di impresa agricola); ammissibile è invece la prelazione su un «ramo» dell’azienda (così Oppo, Commentario, cit., 507 ), stante l’idoneità dello stesso allo svolgimento dell’attività d’impresa.

Se invece si aliena la quota di comproprietà dell’azienda, scatta la prelazione? Una prima tesi (Oppo, Commentario, cit., 506-507) propende per la soluzione negativa perché, dato il silenzio della legge al riguardo, sembra che il legislatore non abbia voluto creare interferenze fra comunisti e familiari partecipanti.

Una seconda tesi (Corsi in Notariato 1/1998, 79) sostiene invece la soluzione positiva perché in tutte le ipotesi di prelazione è possibile, attraverso l’acquisto della quota, iniziare a realizzare, anche se in parte, le finalità che la legge prevede per quel tipo di prelazione.

ALTRI ATTI SOGGETTI A PRELAZIONE

Nel caso del trasferimento di azienda mortis causa o a titolo gratuito mancherebbe la possibilità di determinare il corrispettivo, elemento indispensabile per poter individuare la preferenza da accordare ad un soggetto. Nell’ipotesi di DONAZIONE DI AZIENDA, la tesi prevalente esclude la prelazione perché 1. manca la parità di condizioni fra il donatario e un eventuale prelazionario: se voglio donare l’azienda a Tizio, il collaboratore Caio non può offrirmi un corrispettivo paritario, in quanto detto corrispettivo non c’è. 2. la prelazione è inconciliabile con la spontaneità e con l’intuitus personae propri della donazione: se voglio donare l’azienda a Tizio lo faccio senza esservi costretto e volendo beneficiare proprio Tizio e non altri. Se anche infatti si determinasse l’eventuale corrispettivo dovuto per l’azienda donata, il fatto di imporlo al disponente opererebbe una sorta di conversione legale della liberalità in un atto a titolo oneroso, con svilimento dei motivi che avevano indotto il donante a disporre e con un’espropriazione forzata del donatario.

Secondo un’altra tesi invece, ci sarebbe prelazione anche in questa ipotesi, perché il legislatore ha utilizzato il termine generico “trasferimento”, comprensivo di tutte le ipotesi di cessione tranne quelle mortis causa, considerate separatamente nell’ipotesi di divisione ereditaria. Inoltre l’ampia previsione dell’art. 230 bis, che include divisione ereditaria e trasferimento di azienda, mostrerebbe l’intento del legislatore di voler comprendere tutte le possibili ipotesi di successione dell’azienda.

Trasferimento mortis causa dell’azienda

L’opinione preferibile e prevalente ritiene che non vi sia prelazione per l’incompatibilità fra le fattispecie perché: A.non sarebbe possibile accordare una preferenza nell’acquisto mancando parità di condizioni e determinazione del prezzo. B. 230bis parla di trasferimento, espressione che si contrappone all’idea e al concetto di successione.

ATTI A TITOLO ONEROSO

Nell’ analizzare questa tipologia di atti occorre una premessa. Per riconoscere la sussistenza della prelazione sembra necessario che la sostituzione soggettiva che si realizza con la prelazione, non pregiudichi l’interesse dell’imprenditore che vuole dismettere l’azienda realizzando un corrispettivo.

PERMUTA. La dottrina prevalente e preferibile distingue la permuta attuata con bene infungibile, in cui mancando la parità di condizioni, non vi sarebbe possibilità di prelazione; e permuta con prestazione fungibile in cui sussisterebbe la prelazione. Ratio di questa tesi è di evitare facili elusioni della disciplina prelatizia da parte dell’ imprenditore-alienante. Se infatti volessi conseguire 100 euro dalla vendita della mia azienda ed evitare al contempo di far scattare la prelazione, potrei permutare l’azienda con tanto grano di valore equivalente a 100 euro e con tale bene conseguito (alienandolo) ottenere lo stesso i 100 euro, senza far scattare la prelazione. Nel caso in questione, dato che il grano può essere procurato indifferentemente dal terzo o dal prelazionario, senza pregiudicare né alterare l’interesse dell’ imprenditore-alienante, si ritiene che operi la prelazione.

Si aggiunge che anche se il prelazionario corrispondesse all’imprenditore-alienante la somma pari al valore della controprestazione data in permuta, ciò non violerebbe il principio della parità di condizioni, non potendosi escludere l’adempimento per equivalente. Ma, in relazione a tale aggiunta, mi sembra che così facendo si compia una datio in solutum che opera nella fase esecutiva dell’adempimento, ma che non centra il vero problema se sia possibile la prelazione in caso di permuta, e cioè per lo scambio di bene contro bene. DATIO IN SOLUTUM Ricordando quanto detto prima che la prestazione corrispettiva deve essere fungibile e, quindi, suscettibile di essere procurata all’alienante, oltre dal terzo con cui egli abbia contrattato, anche dal¬l’avente diritto a prelazione, senza che la sostituzione incida sulla sostanza economica degli interessi dell’alienante, bisognerebbe ritenere possibile l’esercizio della prelazione in caso di datio in solutum, quando, determinato l’ammontare del debito che si viene ad estinguere, risulta indifferente per l’alienante cedere il proprio bene al creditore, ovvero versargli la somma di denaro riscossa come corrispettivo dal prelazionario. Il punto, sul quale gli Autori che si sono occupati della problematica non si sono soffermati, è che se l’alienante versasse al creditore la somma riscossa quale corrispettivo dal prelazionario, non saremmo più in presenza di una datio in solutum in senso giuridico.

TRANSAZIONE. Per questo negozio si ritiene in genere che non ci sia prelazione, perché manca la parità di condizioni fra il terzo e i familiari. Il terzo è infatti parte della lite che si va a comporre con la transazione, e i familiari non potrebbero sostituirsi ad esso, diventando parti di un accordo transattivo a cui sono estranei. Non potrebbero cioè, sostituendosi al terzo, realizzare lo stesso interesse dell’ imprenditore-alienante l’azienda a comporre la lite insorta o insorgenda, in quanto non sono parti di quel rapporto litigioso da comporre e non possono fare concessioni riguardo a quel rapporto. Né possono sostituirsi solo per il trasferimento di azienda, in quanto, in questo caso non costituisce negozio autonomo, ma solo elemento di un negozio più complesso dal quale non può separarsi.

VENDITA FORZATA. La dottrina prevalente ammette qui l’operatività della prelazione perché, innanzitutto, per soddisfare l’interesse del prelazionario ad avere l’azienda non si può semplicemente accordargli il diritto di partecipare alla gara della vendita forzata. Il contenuto di ogni prelazione deve consistere sempre nella facoltà di acquistare il bene a parità di condizioni con altro possibile acquirente ed a preferenza di questi. Inoltre, la tesi che ritiene che la natura pubblicistica inderogabile dell’istituto non consenta di esercitare la prelazione, confonde il problema della possibilità di esercizio con quello della modalità: se si risolve il problema della possibilità, sarà poi compito dell’interprete ricercare soluzioni che permettano l’esercizio concreto del diritto. Infine, e sembra la ragione più rilevante, la legge 590/1965 in tema di prelazione agraria, all’art. 8 comma 2, vieta espressamente la prelazione negli atti di trasferimento coattivo. La mancata riproduzione di questo divieto nell’art.230bis c.c. significa che per questa fattispecie, la legge ha voluto che ci fosse prelazione.

La tesi negativa si basa invece: 1. sull’eccessiva tutela che si garantirebbe al familiare, già favorito dalla legge con l’estraneità ai debiti dell’impresa familiare (in quanto la stessa avrebbe natura individuale). 2. La legge 590/1965 in tema di prelazione agraria, all’art. 8 co.2, viene considerata esemplificativa nelle ipotesi contemplate e non tassativa. 3. L’art. 732 c.c. cui fa rinvio il 230bis c.c., parla di “voler alienare” dove il volere esclude la costrizione tipica della vendita forzata

DIVISIONE ORDINARIA. La tesi negativa sull’operatività della prelazione si basa sul fatto che il legislatore abbia previsto solo la prelazione in caso di divisione ereditaria, escludendo, a contrario, la divisione ordinaria. La tesi positiva replica che il legislatore ha previsto solo la divisione ereditaria per la logica speciale ad essa sottesa, ma non ha con ciò voluto escludere le ipotesi di divisione ordinaria, per le quali non si ravvisano seri motivi di esludibilità (Areniello in RIV.Not. 2001,757). Inoltre, lo stesso codice civile, all’art. 1116 prevede l’applicabilità alla divisione ordinaria della maggior parte delle norme sulla divisione ereditaria.

CONCESSIONE DELL’AZIENDA IN USUFRUTTO. Favorevole all’operatività della prelazione in questa ipotesi è la dottrina prevalente (Ghidini,Panuccio) perché: 1.con la prelazione non si viene a pregiudicare l’interesse dell’imprenditore-alienante. 2. La legge equipara le varie fattispecie di trasferimento (artt. 2558,2561,2562 c.c.). 3. La legge all’art. 230bis c.c. parla di trasferimento e non di sola alienazione. 4. La ratio legis è di favorire i partecipanti all’impresa familiare. Le stesse motivazioni sono portate a sostegno della tesi positiva sull’operatività della prelazione per l’AFFITTO D’AZIENDA.

La tesi negativa si basa invece sui seguenti argomenti. A. La formulazione del testo legislativo parla di trasferimento di azienda e non di concessione in usufrutto né tanto meno di affitto (fattispecie addirittura non traslativa). B. Quando il legislatore ha voluto la prelazione per l’ affitto di azienda lo ha detto (art.38 Legge 392/1978) e ciò indica che non ha implicitamente considerato compreso nel trasferimento la locazione o l’affitto. C. L’usufrutto ha aspetti personalistici rilevanti, non è indifferente per l’alienante concedere un usufrutto ad un terzo prescelto o ad un familiare, perché la durata dell’ usufrutto può essere commisurata alla sola vita dell’ usufruttuario, e non è la stessa cosa per l’alienante avere un acquirente giovane o anziano.

Occorre però precisare che la prelazione può essere esercitata solo quando chi trasferisce l’azienda ne sia anche proprietario. Nel caso in cui l’azienda sia in comproprietà, la prelazione dovrebbe operare limitatamente alla quota dell’imprenditore. Nel caso di affitto invece, la prelazione non opererà, dato che l’imprenditore non è anche contemporaneamente proprietario.

CONFERIMENTO D’AZIENDA IN SOCIETA’. Si ripropone qui il problema della fungibilità del corrispettivo e della parità di condizioni. La tesi favorevole all’operatività della prelazione si basa sui seguenti argomenti. 1. Il conferimento di azienda sarebbe comunque un trasferimento. 2. Non ci sarebbe ragione di escludere la prelazione quando il corrispettivo è fungibile. La tesi negativa si basa invece innanzitutto sull’interesse dell’imprenditore alienante a conseguire la partecipazione sociale, che non potrebbe mai essere soddisfatto dal prelazionario, trattandosi sempre di controprestazione infungibile. Inoltre col trasferimento si avrebbe una mera dismissione del bene, mentre col conferimento l’imprenditore vorrebbe continuare l’attività d’impresa sebbene in forma diversa, non rinunziando al bene azienda, ma reimpiegandolo. Ammettere la prelazione significherebbe, in ultimo, limitare la libertà di iniziativa economica.

Ai sensi dell’articolo 230-bis comma 5 del codice civile “In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i partecipi di cui al primo comma (familiari quali il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo) hanno diritto di prelazione sull’azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell’art. 732”. In questo lavoro ci si soffermerà esclusivamente sulla portata di questa norma, che è stata ed è, in tema di impresa familiare, quella su cui si è più soffermata l’attenzione degli interpreti. La prelazione, come noto, è il diritto di uno o più soggetti ad essere preferiti rispetto ad altri in caso di trasferimento. Fonte della prelazione può essere la volontà delle parti (e si parla di prelazione convenzionale, avente efficacia obbligatoria, quindi solo fra le parti) oppure la legge (cosiddetta prelazione legale, avente in linea di massima efficacia reale, quindi anche nei confronti dei terzi). La prelazione spettante ai partecipanti all’ impresa familiare è legale in quanto prevista dall’art. 230-bis comma 5 c.c., ed ha ad oggetto l’azienda.

NATURA GIURIDICA. Si discute però se questa prelazione abbia natura reale o obbligatoria. Quindi se ci sia o no il retratto ( e cioè la possibilità per il familiare titolare del diritto di prelazione di riscattare l’azienda dall’acquirente e da ogni suo avente causa).

Secondo una 1^ tesi (Galgano,Bianca,Ghidini, Messinetti,Cecconi, Auciello-Badiali-Iodice-Mazzeo, La volontaria giurisdizione e il regime patrimoniale della famiglia, 2000, 599) la prelazione in questione ha natura reale e c’è il retratto perché:

1. è mutuata dalla prelazione del coerede ex art. 732 che prevede il retratto (Notariato 5/2005,490 commento a Cass. 631/2004); 2. è un caso di prelazione legale (=avente fonte nella legge) ed il principio che emerge da una serie di norme è che la prelazione legale è sempre reale, mentre la prelazione convenzionale ha carattere obbligatorio.

Secondo una 2^ tesi (Oppo, V.Panuccio,V.Colussi, M.Tanzi, A.Di Francia), il retratto si applica solo al trasferimento dell’azienda, anche perché nella divisione ereditaria i prelazionari partecipano all’atto divisionale, e compiuta la divisione i condividenti che hanno aderito non hanno più ragione per reclamare. Il problema però, è che l’applicazione dell’art. 732 per il termine finale del retratto (“finchè dura lo stato di comunione ereditaria”) non è compatibile con il trasferimento. E allora questa dottrina applica un altro termine, in via interpretativa: il momento della liquidazione in denaro della partecipazione nell’ impresa familiare (perché si ha liquidazione in caso di alienazione dell’azienda). È in questo momento infatti che il partecipante all’ impresa familiare deve scegliere se accettare la liquidazione, rinunziando al riscatto dell’azienda, o viceversa esercitare il diritto di retratto.

Secondo una 3^ tesi (Areniello in Riv.Not.2002,p.85; Corsi; Comenale Pinto) invece, non c’è il retratto perché:

1. manca un termine di legge per il suo esercizio (a differenza dell’art. 732), e l’interprete non è autorizzato a stabilire un termine qualunque, essendo ciò consentito al solo legislatore. Se così non fosse si andrebbe contro i principi di certezza delle situazioni giuridiche.

2. Nella prelazione ereditaria il retratto è collegato allo stato di comunione, che nella prelazione familiare manca, perché qui la prelazione è accordata per il momento dello scioglimento della comunione e cioè per la divisione ereditaria. Nel trasferimento di azienda invece lo stato di comunione manca totalmente e quindi non si applica anche per esso il retratto dell’art. 732.

3. Il trasferimento dell’azienda determina comunque la cessazione dell’impresa familiare e, quindi, il venir meno del diritto di prelazione.

4. Occorre salvaguardare il principio dell’affidamento dei terzi: il legislatore non ha previsto alcuna pubblicità per l’ impresa familiare, per cui il terzo acquirente di un’azienda non potrebbe avere alcuna informazione sull’eventuale spettanza di un diritto di prelazione, e sarebbe del tutto sprovvisto di tutela (nel retratto successorio invece il terzo sa che sta acquistando una quota ereditaria indivisa e pertanto che rischia il retratto; nell’ impresa familiare si acquista un’azienda senza poter sapere che questa eventualmente costituisce oggetto di un’ impresa familiare).

ESERCIZIO DELLA PRELAZIONE.

Il 230bis co.5 rinvia all’art.732 c.c., da applicarsi nei limiti in cui risulti compatibile con la disciplina dell’ impresa familiare. Per l’ipotesi di trasferimento dell’azienda, si ritiene che l’ imprenditore debba provvedere alla notifica della proposta di alienazione ai familiari partecipanti, i quali possono esercitare la prelazione entro 2 mesi dall’ultima delle notificazioni (Areniello in Riv.Not.2002,p.83).

Per la divisione ereditaria la questione della compatibilità con l’art.732 è più complessa. Bisogna risolvere innanzitutto il problema se la prelazione in caso di divisione ereditaria sia prelazione in senso tecnico o solo un criterio ordinante. Se la si configura come vera prelazione, allora bisognerà procedere alla notifica della proposta di divisione come per l’art. 732. Se invece è solo un criterio che compone il conflitto nella divisione fra coeredi, non vi sarà onere di notifica né esercizio della prelazione entro un certo termine, in quanto non si applicherà il 732. Al riguardo sono emerse tre tesi fra quelle più seguite in dottrina.

Per una 1^ tesi, prevalente, non è prelazione in senso proprio, ma solo un criterio ordinante per meglio comporre le quote dei coeredi (Gabrielli, Oppo in Commentario al diritto italiano di famiglia, sub art. 230-bis, 1992, 509). Analogamente agli articoli 720 e 722 c.c., che dettano un criterio di preferenza nella formazione delle porzioni ereditarie, l’art. 230bis per la divisione ereditaria avrebbe previsto una preferenza per i collaboratori-eredi dell’ imprenditore nell’assegnazione dell’azienda. Non sarebbe prelazione, la quale tradizionalmente, già nelle definizioni, è configurabile solo per fattispecie traslative, per le alienazioni, e che solo nell’art. 230bis viene configurata anche per la divisione ereditaria. I partecipanti all’IF, che siano anche coeredi, sono preferiti nell’assegnazione del bene azienda, qualora lo richiedano, rispetto agli altri coeredi, così come per l’art. 720 gli immobili non divisibili devono essere preferibilmente compresi per l’intero nella porzione del coerede con la quota maggiore.

Una 2^ tesi sostenuta dal solo Ghidini( in L’ impresa familiare, 1977, 66 ss.) ritiene che la prelazione nella divisione ereditaria si avrebbe nell’ipotesi di vendita da parte dei coeredi, a scopo di divisione, dell’azienda destinata ad impresa familiare, ad un terzo estraneo all’ impresa familiare. In tal caso i partecipanti all’ impresa familiare, siano o no coeredi, avrebbero prelazione su tutti gli altri soggetti, anche coeredi. La critica mossa a questa opinione è che così si convertirebbe questa prelazione in un caso di trasferimento, togliendo autonomo rilievo all’ipotesi di prelazione nella divisione ereditaria prevista dal 230bis.

Secondo una 3^ tesi (Areniello in Riv.Not.2002,p.76) sarebbe una vera ipotesi di prelazione in senso tecnico perché:

1. l’art.230bis parla di prelazione unitariamente sia per trasferimento di azienda che per la divisione ereditaria.

2. La prelazione è strumento volto a comporre il conflitto fra più potenziali acquirenti, come fa anche il 732 che viene richiamato dal 230bis. L’art. 720 invece esclude potenziali conflittualità fra soggetti estranei all’eredità.

3. Se fosse applicabile l’art.720, non ci sarebbe stato bisogno di prevedere il 230bis co.5 per la divisione ereditaria. Ritenere applicabile il 720 porta ad una abrogazione tacita del 230bis nella parte in cui collega la divisione ereditaria e la prelazione.

L’accoglimento di quest’ultima tesi comporta molti problemi nel caso in cui non ci sia coincidenza fra la figura degli eredi partecipanti alla divisione e quella dei partecipanti all’ impresa familiare – prelazionari.

Si pone quindi, in generale, il problema dei titolari del diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria, esaminato nel paragrafo seguente.

Titolari del diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria.

Secondo una 1^ tesi, sostenuta dalla prevalente dottrina, solo i partecipanti all’ impresa familiare che siano anche coeredi potrebbero esercitare la prelazione in caso di divisione ereditaria, perché:

1.il 230bis richiama il 732 sulla prelazione fra coeredi;

2. l’ art.757 c.c. dispone che con la divisione ogni coerede è reputato solo ed immediato successore dei beni del de cuius, e questa successione al defunto può verificarsi solo per chi sia coerede. Dato che si divide l’intero asse ereditario, tutti i beni in esso compreso (quindi anche l’azienda) devono essere attribuiti a coloro che saranno i successori del de cuius, cioè gli eredi.

3. Vi sarebbero inoltre molteplici problemi derivanti dal far partecipare alla divisione ereditaria ( del patrimonio lasciato dal de cuius) soggetti estranei alla comunione quali i partecipanti non coeredi.

Ad avviso di altra tesi (Areniello), basterebbe invece la qualità di partecipanti all’impresa familiare per poter esercitare la prelazione, anche se questi soggetti non siano anche coeredi, in quanto: A. altrimenti si sacrificherebbe la ratio protettiva del 230bis, che è quella di privilegiare tutti quelli che parteciparono all’IF, consentendogli di acquisire la titolarità dell’azienda. B. il legislatore col 230bis ha sacrificato le regole di trasmissione successorie in nome della tutela dell’interesse alla destinazione dell’azienda all’IF.

Ipotesi discusse di prelazione in caso di divisione ereditaria

Un primo problema è: come deve intendersi l’espressione “divisione ereditaria”?

Secondo un autore (De Rubertis): estensivamente, tale da ricomprendere l’ipotesi di divisione fra legatari.

Secondo Areniello (in Riv.Not.2002,p.82) invece, la prelazione in caso di divisione ereditaria non si applica quando l’imprenditore abbia disposto per testamento dell’azienda (a titolo di legato, di institutio ex re certa, di norme stabilite dal testatore per la divisione, in caso di divisione fatta dal testatore), perché in queste ipotesi si deve ritenere che prevalga la volontà testamentaria, in mancanza di espressa deroga di legge.

Altro problema è: il diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria spetta ai familiari-collaboratori se l’imprenditore defunto è coniugato in comunione legale dei beni? A tal proposito si consideri che, qualora il coniuge - imprenditore abbia iniziato l’attività d’impresa dopo il matrimonio, al momento dello scioglimento della comunione (e quindi anche al momento della morte dell’ imprenditore), ex art.178 c.c., i beni destinati all’esercizio dell’impresa (=l’azienda) si considerano oggetto della comunione stessa. Si avrà che i beni aziendali saranno, alla morte dell’ imprenditore, per metà dell’ imprenditore stesso e andranno nella sua successione, e per metà del coniuge non imprenditore. In questo caso la dottrina più attenta (Corsi, pag.82 Riv.Not.2002) afferma che con la metà dell’ imprenditore dovrà innanzitutto provvedersi a soddisfare i diritti di partecipazione, liquidando la quota ex art. 230bis comma 4, dei familiari-collaboratori, ricorrendo un’ipotesi di cessazione dell’IF. Poi, quanto residua cadrà in comunione ereditaria e nella successiva divisione ereditaria, i familiari potranno esercitare la prelazione.

Prelazione in caso di trasferimento di azienda. Per trasferimento di azienda si deve intendere innanzitutto il trasferimento inter vivos a titolo oneroso della proprietà dell’azienda posto in essere dall’ imprenditore. Si è evidenziato in dottrina che il richiamo all’art. 732 c.c. presuppone non solo che l’alienazione, cui la prelazione si riferisce, sia a titolo oneroso, ma anche che la prestazione corrispettiva sia fungibile e, quindi, suscettibile di essere procurata all’alienante, oltre dal terzo con cui egli abbia contrattato, anche dal¬l’avente diritto a prelazione, senza che la sostituzione incida sulla sostanza economica degli interessi dell’alienante. Secondo la dottrina dominante (Areniello, Corsi in Notariato 1/1998, 79), il trasferimento deve avere il carattere dell’onerosità e poter rispettare la parità di condizioni fra avente diritto alla prelazione e terzo . Non opera la prelazione, ove il trasferimento abbia ad oggetto singoli cespiti, salvo che l’importanza del bene sia tale da identificarlo praticamente con l’azienda (si fa l’esempio del fondo nel caso di impresa agricola); ammissibile è invece la prelazione su un «ramo» dell’azienda (così Oppo, Commentario, cit., 507 ), stante l’idoneità dello stesso allo svolgimento dell’attività d’impresa.

Se invece si aliena la quota di comproprietà dell’azienda, scatta la prelazione? Una prima tesi (Oppo, Commentario, cit., 506-507) propende per la soluzione negativa perché, dato il silenzio della legge al riguardo, sembra che il legislatore non abbia voluto creare interferenze fra comunisti e familiari partecipanti.

Una seconda tesi (Corsi in Notariato 1/1998, 79) sostiene invece la soluzione positiva perché in tutte le ipotesi di prelazione è possibile, attraverso l’acquisto della quota, iniziare a realizzare, anche se in parte, le finalità che la legge prevede per quel tipo di prelazione.

ALTRI ATTI SOGGETTI A PRELAZIONE

Nel caso del trasferimento di azienda mortis causa o a titolo gratuito mancherebbe la possibilità di determinare il corrispettivo, elemento indispensabile per poter individuare la preferenza da accordare ad un soggetto. Nell’ipotesi di DONAZIONE DI AZIENDA, la tesi prevalente esclude la prelazione perché 1. manca la parità di condizioni fra il donatario e un eventuale prelazionario: se voglio donare l’azienda a Tizio, il collaboratore Caio non può offrirmi un corrispettivo paritario, in quanto detto corrispettivo non c’è. 2. la prelazione è inconciliabile con la spontaneità e con l’intuitus personae propri della donazione: se voglio donare l’azienda a Tizio lo faccio senza esservi costretto e volendo beneficiare proprio Tizio e non altri. Se anche infatti si determinasse l’eventuale corrispettivo dovuto per l’azienda donata, il fatto di imporlo al disponente opererebbe una sorta di conversione legale della liberalità in un atto a titolo oneroso, con svilimento dei motivi che avevano indotto il donante a disporre e con un’espropriazione forzata del donatario.

Secondo un’altra tesi invece, ci sarebbe prelazione anche in questa ipotesi, perché il legislatore ha utilizzato il termine generico “trasferimento”, comprensivo di tutte le ipotesi di cessione tranne quelle mortis causa, considerate separatamente nell’ipotesi di divisione ereditaria. Inoltre l’ampia previsione dell’art. 230 bis, che include divisione ereditaria e trasferimento di azienda, mostrerebbe l’intento del legislatore di voler comprendere tutte le possibili ipotesi di successione dell’azienda.

Trasferimento mortis causa dell’azienda

L’opinione preferibile e prevalente ritiene che non vi sia prelazione per l’incompatibilità fra le fattispecie perché: A.non sarebbe possibile accordare una preferenza nell’acquisto mancando parità di condizioni e determinazione del prezzo. B. 230bis parla di trasferimento, espressione che si contrappone all’idea e al concetto di successione.

ATTI A TITOLO ONEROSO

Nell’ analizzare questa tipologia di atti occorre una premessa. Per riconoscere la sussistenza della prelazione sembra necessario che la sostituzione soggettiva che si realizza con la prelazione, non pregiudichi l’interesse dell’imprenditore che vuole dismettere l’azienda realizzando un corrispettivo.

PERMUTA. La dottrina prevalente e preferibile distingue la permuta attuata con bene infungibile, in cui mancando la parità di condizioni, non vi sarebbe possibilità di prelazione; e permuta con prestazione fungibile in cui sussisterebbe la prelazione. Ratio di questa tesi è di evitare facili elusioni della disciplina prelatizia da parte dell’ imprenditore-alienante. Se infatti volessi conseguire 100 euro dalla vendita della mia azienda ed evitare al contempo di far scattare la prelazione, potrei permutare l’azienda con tanto grano di valore equivalente a 100 euro e con tale bene conseguito (alienandolo) ottenere lo stesso i 100 euro, senza far scattare la prelazione. Nel caso in questione, dato che il grano può essere procurato indifferentemente dal terzo o dal prelazionario, senza pregiudicare né alterare l’interesse dell’ imprenditore-alienante, si ritiene che operi la prelazione.

Si aggiunge che anche se il prelazionario corrispondesse all’imprenditore-alienante la somma pari al valore della controprestazione data in permuta, ciò non violerebbe il principio della parità di condizioni, non potendosi escludere l’adempimento per equivalente. Ma, in relazione a tale aggiunta, mi sembra che così facendo si compia una datio in solutum che opera nella fase esecutiva dell’adempimento, ma che non centra il vero problema se sia possibile la prelazione in caso di permuta, e cioè per lo scambio di bene contro bene. DATIO IN SOLUTUM Ricordando quanto detto prima che la prestazione corrispettiva deve essere fungibile e, quindi, suscettibile di essere procurata all’alienante, oltre dal terzo con cui egli abbia contrattato, anche dal¬l’avente diritto a prelazione, senza che la sostituzione incida sulla sostanza economica degli interessi dell’alienante, bisognerebbe ritenere possibile l’esercizio della prelazione in caso di datio in solutum, quando, determinato l’ammontare del debito che si viene ad estinguere, risulta indifferente per l’alienante cedere il proprio bene al creditore, ovvero versargli la somma di denaro riscossa come corrispettivo dal prelazionario. Il punto, sul quale gli Autori che si sono occupati della problematica non si sono soffermati, è che se l’alienante versasse al creditore la somma riscossa quale corrispettivo dal prelazionario, non saremmo più in presenza di una datio in solutum in senso giuridico.

TRANSAZIONE. Per questo negozio si ritiene in genere che non ci sia prelazione, perché manca la parità di condizioni fra il terzo e i familiari. Il terzo è infatti parte della lite che si va a comporre con la transazione, e i familiari non potrebbero sostituirsi ad esso, diventando parti di un accordo transattivo a cui sono estranei. Non potrebbero cioè, sostituendosi al terzo, realizzare lo stesso interesse dell’ imprenditore-alienante l’azienda a comporre la lite insorta o insorgenda, in quanto non sono parti di quel rapporto litigioso da comporre e non possono fare concessioni riguardo a quel rapporto. Né possono sostituirsi solo per il trasferimento di azienda, in quanto, in questo caso non costituisce negozio autonomo, ma solo elemento di un negozio più complesso dal quale non può separarsi.

VENDITA FORZATA. La dottrina prevalente ammette qui l’operatività della prelazione perché, innanzitutto, per soddisfare l’interesse del prelazionario ad avere l’azienda non si può semplicemente accordargli il diritto di partecipare alla gara della vendita forzata. Il contenuto di ogni prelazione deve consistere sempre nella facoltà di acquistare il bene a parità di condizioni con altro possibile acquirente ed a preferenza di questi. Inoltre, la tesi che ritiene che la natura pubblicistica inderogabile dell’istituto non consenta di esercitare la prelazione, confonde il problema della possibilità di esercizio con quello della modalità: se si risolve il problema della possibilità, sarà poi compito dell’interprete ricercare soluzioni che permettano l’esercizio concreto del diritto. Infine, e sembra la ragione più rilevante, la legge 590/1965 in tema di prelazione agraria, all’art. 8 comma 2, vieta espressamente la prelazione negli atti di trasferimento coattivo. La mancata riproduzione di questo divieto nell’art.230bis c.c. significa che per questa fattispecie, la legge ha voluto che ci fosse prelazione.

La tesi negativa si basa invece: 1. sull’eccessiva tutela che si garantirebbe al familiare, già favorito dalla legge con l’estraneità ai debiti dell’impresa familiare (in quanto la stessa avrebbe natura individuale). 2. La legge 590/1965 in tema di prelazione agraria, all’art. 8 co.2, viene considerata esemplificativa nelle ipotesi contemplate e non tassativa. 3. L’art. 732 c.c. cui fa rinvio il 230bis c.c., parla di “voler alienare” dove il volere esclude la costrizione tipica della vendita forzata

DIVISIONE ORDINARIA. La tesi negativa sull’operatività della prelazione si basa sul fatto che il legislatore abbia previsto solo la prelazione in caso di divisione ereditaria, escludendo, a contrario, la divisione ordinaria. La tesi positiva replica che il legislatore ha previsto solo la divisione ereditaria per la logica speciale ad essa sottesa, ma non ha con ciò voluto escludere le ipotesi di divisione ordinaria, per le quali non si ravvisano seri motivi di esludibilità (Areniello in RIV.Not. 2001,757). Inoltre, lo stesso codice civile, all’art. 1116 prevede l’applicabilità alla divisione ordinaria della maggior parte delle norme sulla divisione ereditaria.

CONCESSIONE DELL’AZIENDA IN USUFRUTTO. Favorevole all’operatività della prelazione in questa ipotesi è la dottrina prevalente (Ghidini,Panuccio) perché: 1.con la prelazione non si viene a pregiudicare l’interesse dell’imprenditore-alienante. 2. La legge equipara le varie fattispecie di trasferimento (artt. 2558,2561,2562 c.c.). 3. La legge all’art. 230bis c.c. parla di trasferimento e non di sola alienazione. 4. La ratio legis è di favorire i partecipanti all’impresa familiare. Le stesse motivazioni sono portate a sostegno della tesi positiva sull’operatività della prelazione per l’AFFITTO D’AZIENDA.

La tesi negativa si basa invece sui seguenti argomenti. A. La formulazione del testo legislativo parla di trasferimento di azienda e non di concessione in usufrutto né tanto meno di affitto (fattispecie addirittura non traslativa). B. Quando il legislatore ha voluto la prelazione per l’ affitto di azienda lo ha detto (art.38 Legge 392/1978) e ciò indica che non ha implicitamente considerato compreso nel trasferimento la locazione o l’affitto. C. L’usufrutto ha aspetti personalistici rilevanti, non è indifferente per l’alienante concedere un usufrutto ad un terzo prescelto o ad un familiare, perché la durata dell’ usufrutto può essere commisurata alla sola vita dell’ usufruttuario, e non è la stessa cosa per l’alienante avere un acquirente giovane o anziano.

Occorre però precisare che la prelazione può essere esercitata solo quando chi trasferisce l’azienda ne sia anche proprietario. Nel caso in cui l’azienda sia in comproprietà, la prelazione dovrebbe operare limitatamente alla quota dell’imprenditore. Nel caso di affitto invece, la prelazione non opererà, dato che l’imprenditore non è anche contemporaneamente proprietario.

CONFERIMENTO D’AZIENDA IN SOCIETA’. Si ripropone qui il problema della fungibilità del corrispettivo e della parità di condizioni. La tesi favorevole all’operatività della prelazione si basa sui seguenti argomenti. 1. Il conferimento di azienda sarebbe comunque un trasferimento. 2. Non ci sarebbe ragione di escludere la prelazione quando il corrispettivo è fungibile. La tesi negativa si basa invece innanzitutto sull’interesse dell’imprenditore alienante a conseguire la partecipazione sociale, che non potrebbe mai essere soddisfatto dal prelazionario, trattandosi sempre di controprestazione infungibile. Inoltre col trasferimento si avrebbe una mera dismissione del bene, mentre col conferimento l’imprenditore vorrebbe continuare l’attività d’impresa sebbene in forma diversa, non rinunziando al bene azienda, ma reimpiegandolo. Ammettere la prelazione significherebbe, in ultimo, limitare la libertà di iniziativa economica.