Il testamento: una scatola dalla fattura minuziosa ma dal possibile contenuto incerto e “morto”

Casa desolata
Casa desolata

“Nel 1336, quando scrive il testamento Enrico Scrovegni, Rafaino [esponente politico del panorama veneziano del ‘300, ndr] era ben lontano dal prestigio che avrebbe avuto da adulto e da vecchio: aveva ventidue anni o poco più. Un giovane alle prime armi: perché mai Enrico Scrovegni si rivolse a lui? Da quel gran signore che era e voleva apparire ci si aspetterebbe il ricorso a un notaio autorevole e di provata esperienza. Così in effetti egli si era comportato per l’ultimo testamento prima di questo (22.1), ricorrendo a Enrico notarius de Cremona, ossia al padre di Rafaino: se non autorevole, costui almeno – invochiamo monsieur de la Palisse – era più anziano del figlio. Volendo, la sua sottoscrizione a supporto di quella di Rafaino può dar l’impressione di un qualche suo controllo e tutela, come se il testatore lo tenesse di riserva, pronto eventualmente a subentrare al figlio: rogatus eciam hoc scribere testamentum si fuerit oportunum (24.3). Ma è un’espressione fallace: lo stesso dichiarano gli altri due notai che sottoscrivono.

(Omissis)

Quanto a Rafaino, è facile immaginare che egli, avviato alla stessa professione del padre, abbia studiato a Padova e lì abbia ricevuto l’investitura notarile; dopo di che si ricongiunse al genitore a Venezia e fu assunto dal comune come patronus come suo familiaris. Ciò dovette avvenire nel 1334, essendo del giugno di quell’anno il suo primo documento. Avendo deciso di rifare il testamento, lo Scrovegni gli affida l’incombenza.

Ci voleva un giovane, provvisto di energia e insieme di paziente disciplina, per star dietro alle sue torrentizie volontà.

La prova impegnativa, Rafaino la superò brillantemente. La sua scrittura è una minuscola cancelleresca – la grafica tipica dei notai trecenteschi – perfetta e matura. Egli padroneggia egregiamente un testo assai lungo e complesso, per quanto lo si debba immaginare minutato e rivisto più volte. Rispetta scrupolosamente la deontologia professionale: dopo aver completato il testo (come si dimostrerà in descrizione), ritorna su di esso, controllando parola per parola e apportando le correzioni necessarie. Nell’originale sottoscrive ciascuna pagina, contando le righe di scrittura. La performance del giovane Rafaino, in definitiva, è di tutto rispetto”.

[Attilio Bartoli Langeli, Il testamento di Enrico Scrovegni, in L’affare migliore di Enrico. Giotto e la cappella Scrovegni, di Chiara Frugoni, Einaudi editore, 2008, pp. 413 - 414]

 

Sui possibili effetti a lunghissimo termine dei testamenti scritti male o contestati, indimenticabili le pagine di Dickens in Bleak House. Senza contare poi che se tutti i beni sono dilapidati prima della lettura del testamento, questo diviene “lettera morta”.

 

“- Naturalmente, Esther, - disse, - tu non capisci questa faccenda della Corte di Giustizia del Lord Cancelliere. Scossi il capo.

- Non so chi la capisca, - aggiunse. - Gli avvocati l’hanno ridotta in un tale stato di diabolica confusione che i suoi meriti originali sono scomparsi da tempo dalla faccia della terra. Si tratta di un testamento o di fidecommessi di un testamento... o così era una volta. Ora non si tratta d’altro che di spese. Noi continuiamo sempre a comparire e scomparire, giurare, interrogare, registrare, controregistrare, discutere, sigillare, proporre, definire, riportare, girare intorno al Lord Cancelliere e a tutti i suoi satelliti, e ballare con imparzialità sulle spese correndo verso l’oscura morte. Questo è il grande problema. Tutto il resto si è dileguato misteriosamente.

- Ma si trattava, - dissi io, per riportarlo al punto, giacché aveva cominciato a grattarsi la testa, - di un testamento.

- Ebbene sì, si trattava di un testamento, se mai si è trattato di qualche cosa, - rispose. - Un certo Jarndyce, in un momento sciagurato, accumula grandi ricchezze, e fa un grande testamento. Prima di decidere come debbano essere amministrati i fidecommessi del testamento, vengono dilapidate tutte le ricchezze; i legatari del testamento sono ridotti in uno stato di tale miseria che sarebbero sufficientemente puniti se avessero commesso il grave delitto di avere del denaro da riscuotere;

e il testamento stesso diventa lettera morta.

E in questa terribile causa ogni cosa che tutte le parti, tranne una, già sanno viene deferita a quell’unica parte che non la sa, perché la scopra. In questa terribile causa ciascuno deve avere le copie di tutto ciò che si è accumulato su di essa nella forma di mucchi di fogli (o deve pagarle senza averle, perché nessuno le vuole); e deve andare continuamente su e giù in una tale danza infernale di spese, onorari, sciocchezze e corruzioni, quale non fu mai sognata nelle più selvagge visioni di una tregenda di streghe e demoni. L’Equità rimanda le questioni alla Legge, la Legge le rimanda all’Equità; la Legge scopre che non può far questo, l’Equità trova che non può far quello; né l’una né l’altra possono far nulla senza che questo procuratore prepari l’istruzione e quell’ avvocato compaia per A, quel procuratore prepari l’istruzione e questo avvocato compaia per B, e così via per tutto l’alfabeto come in un abbecedario. E in questo modo, per anni e anni, per vite e vite, ciascuno prosegue ricominciando sempre da capo per non finire mai. E noi non possiamo in nessun modo liberarci dalla causa, perché siamo considerati parti interessate e dobbiamo seguitare ad essere tali, volenti o nolenti. Ma è inutile pensarci. Quando mio zio, il povero Tom Jarndyce, cominciò a pensarci fu il principio della fine!

- Quel Jarndyce di cui ho appreso la storia?

Il mio tutore annuì gravemente: - Io sono il suo erede, Esther, e questa casa era sua. Quando venni qui, era veramente desolata. Mio zio vi aveva lasciato i segni della sua infelicità.

- Come è cambiata! - dissi.

- Prima si chiamava Le Tre Punte. Fu lui che le diede il nome che ora porta e ci visse rinchiuso, consultando giorno e notte le montagne di carte del processo, e sperando inutilmente di districare la causa da tutti i tristi sviluppi per portarla a termine. Intanto il luogo si ridusse in pessime condizioni, il vento sibilava tra le crepe dei muri, la pioggia cadeva attraverso il tetto rovinato e le piante ostruivano il passaggio alla porta fradicia. Quando portai qui quel che restava di lui, mi parve che anche la casa si fosse fatta saltare le cervella.

Dopo aver detto questo con un brivido, si mise a camminare su e giti e poi mi guardò con un sorriso, e si sedette di nuovo con le mani in tasca.

- Ti ho detto che questo è il Brontolatoio, cara. Dov’ero rimasto?

Gli rammentai i bei cambiamenti fatti a Casa Desolata.

- Casa Desolata, sì. A Londra ci sono alcune nostre proprietà che sono nelle stesse condizioni in cui si trovava prima Casa Desolata... Quando dico nostre proprietà, intendo della causa; ma dovrei chiamarle proprietà delle spese, perché le spese costituiscono l’unico potere in terra che ne trarrà qualche cosa o che non le considererà mai una vista spiacevole e dolorosa. Si tratta di una via di case cieche, dagli occhi murati, le finestre senza vetri e telaio, le nude imposte a pezzi che penzolano dai cardini, la cancellata che perde schegge di ruggine, i comignoli che crollano, i gradini di pietra davanti a ogni porta (e ciascuna potrebbe essere la Porta della Morte) che diventano di color verde stagnante; sono corrosi gli stessi puntelli che sostengono le rovine. Benché Casa Desolata non fosse nella causa, il suo padrone lo era, ed entrambi furono bollati con lo stesso sigillo. Questi sono i segni del Grande Sigillo, mia cara, in tutta l’Inghilterra... li conoscono perfino i bambini!”

[Charles Dickens, Casa desolata / Bleak House, Tascabili Einaudi, Torino, 1995, pp. 96 - 98]

 

Nota

Versione originale tratta dal sito: http://www.online-literature.com/dickens/bleakhouse/

“Of course, Esther,” he said, “you don’t understand this Chancery business?”

And of course I shook my head.

“I don’t know who does,” he returned. “The lawyers have twisted it into such a state of bedevilment that the original merits of the case have long disappeared from the face of the earth. It’s about a Will, and the trusts under a Will — or it was, once. It’s about nothing but Costs, now. We are always appearing, and disappearing, and swearing, and interrogating, and filing, and cross-filing, and arguing, and sealing, and motioning, and referring, and reporting, and revolving about the Lord Chancellor and all his satellites, and equitably waltzing ourselves off to dusty death, about costs. That’s the great question. All the rest, by some extraordinary means, has melted away.”

“But it was, sir,” said I, to bring him back, for he began to rub his head, “about a Will?”

“Why, yes, it was about a Will when it was about anything,” he returned. “A certain Jarndyce, in an evil hour, made a great fortune, and made a great Will. In the question how the trusts under that Will are to be administered, the fortune left by the Will is squandered away; the legatees under the Will are reduced to such a miserable condition that they would be sufficiently punished, if they had committed an enormous crime in having money left them; and the Will itself is made a dead letter. All through the deplorable cause, everything that everybody in it, except one man, knows already, is referred to that only one man who don’t know it, to find out — all through the deplorable cause, everybody must have copies, over and over again, of everything that has accumulated about it in the way of cartloads of papers (or must pay for them without having them, which is the usual course, for nobody wants them); and must go down the middle and up again, through such an infernal country-dance of costs and fees and nonsense and corruption, as was never dreamed of in the wildest visions of a witch’s Sabbath. Equity sends questions to Law, Law sends questions back to Equity; Law finds it can’t do this, Equity finds it can’t do that; neither can so much as say it can’t do anything, without this solicitor instructing and this counsel appearing for A, and that solicitor instructing and that counsel appearing for B; and so on through the whole alphabet, like the history of the Apple Pie. And thus, through years and years, and lives and lives, everything goes on, constantly beginning over and over again, and nothing ever ends. And we can’t get out of the suit on any terms, for we are made parties to it, and must be parties to it, whether we like it or not. But it won’t do to think of it! When my great Uncle, poor Tom Jarndyce, began to think of it, it was the beginning of the end!”

“The Mr Jarndyce, sir, whose story I have heard?”

He nodded gravely. “I was his heir, and this was his house, Esther. When I came here, it was bleak indeed. He had left the signs of his misery upon it.”

“How changed it must be now!” I said.

“It had been called, before his time, the Peaks. He gave it its present name, and lived here shut up: day and night poring over the wicked heaps of papers in the suit, and hoping against hope to disentangle it from its mystification and bring it to a close. In the meantime, the place became dilapidated, the wind whistled through the cracked walls, the rain fell through the broken roof, the weeds choked the passage to the rotting door. When I brought what remained of him home here, the brains seemed to me to have been blown out of the house too; it was so shattered and ruined.”

He walked a little to and fro, after saying this to himself with a shudder, and then looked at me, and brightened, and came and sat down again with his hands in his pockets.

“I told you this was the growlery, my dear. Where was I?”

I reminded him, at the hopeful change he had made in Bleak House.

“Bleak House: true. There is, in that city of London there, some property of ours, which is much at this day what Bleak House was then, — I say property of ours, meaning of the suit’s, but I ought to call it the property of Costs; for Costs is the only power on earth that will ever get anything out of it now, or will ever know it for anything but an eyesore and a heartsore. It is a street of perishing blind houses, with their eyes stoned out; without a pane of glass, without so much as a window-frame, with the bare blank shutters tumbling from their hinges and falling asunder; the iron rails peeling away in flakes of rust; the chimneys sinking in; the stone steps to every door (and every door might be Death’s Door) turning stagnant green; the very crutches on which the ruins are propped, decaying. Although Bleak House was not in Chancery, its master was, and it was stamped with the same seal. These are the Great Seal’s impressions, my dear, all over England — the children know them!”