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Se le imprese chiudono, chiude l’Italia

Coraggio per garantire libertà
piano nobile e uffici
Ph. Massimo Golfieri / piano nobile e uffici

Sul fronte tributario, specie nelle dinamiche esattoriali, il Paese è in totale confusione.

Sul fronte lavoro, specie per le piccole e medio imprese, il Paese è quasi sottosoglia minima di dignitosa sopravvivenza.

Sul fronte pandemico, come si suol dire nel gergo forense, ci si riporta ai fatti noti.

Lo Stato italiano, dati della Cgia di Mestre, in vent’anni ha aumentato il gettito fiscale del 40%.

Sempre lo Stato italiano nel 2021 ha incassato 513,5 miliardi di euro. Differenziale, quest’ultimo, che rispetto al 2019 si colloca a meno 3 miliardi e mezzo circa perché nell’anno pre-pandemia l’incasso fiscale è stato di 517 miliardi circa[1].

Nonostante questi dati, tutto sommato incoraggianti sul piano del netto non incassato (che poteva esser ben peggiore), è fatto noto che nella legislatura vigente più e più volte si è registrata l’indizione di bandi di concorso pubblici per nuovo personale.

Ragioniamo un attimo. Entro il 2030 andranno in pensione circa 1 milione di dipendenti pubblici (fonte Sole 24 ore[2]).

La logica vorrebbe che dinanzi a questi tre fattori (pensionamenti, meno incassi fiscali, pandemia con eventuale PNRR virtuoso) ci si indirizzasse verso altri tre fattori di condizionamento ripresa economica: meno fisco, più competenze per le assunzioni pubbliche, lotta contro il virus accompagnata da “misure di esistenza”, breve-medio tempore, per le sopraggiunte condizioni di impoverimento complessivo.

La ragione è semplice, ma non scontata: garantire livelli essenziali di libertà concretamente percepibile nel tessuto sociale.

Non c’entrano, in quest’analisi, green pass e vaccini. Si vuole dire che la libertà, come diceva l’illustre Luigi Einaudi, passa dalla responsabilità. Il ché non è solo un rapporto unilaterale dei cittadini verso lo Stato, ma anche il contrario.

Allora bisogna essere trasparenti. Perché questa è la radice dell’una e dell’altra cosa.

E la trasparenza implica coraggio.

Coraggio[3], etimologicamente parlando, rappresenta la forza d’animo, dall’antico coratium per significare “dal cuore”.

Su cosa si vuole ragionare, quindi, concretamente?

Negli ultimi dieci anni (soprattutto i 5/6 che ci lasciamo alle spalle nel 2022 e sempre leggendo i dati pubblicati dal Sole 24 ore a febbraio del 2021) ci sono state assunzioni pubbliche in servizi non essenziali.

È vero che, oggettivamente, i dati sul turnover (cioè rapporto tra pensionati e assunti) dicono ben altro e cioè che dal 2009 al 2018 il personale a tempo indeterminato nel settore pubblico è diminuito di almeno 140 mila unità passando da 3,11 a 2,97 milioni.

Ma questo calo, stando a quanto invece comunicato da Inps, è stato parzialmente compensato dall’aumento dei contratti a tempo determinato sin dal 2015.

Considerando che l’età media dei dipendenti pubblici (15% degli occupati) è oltre i 50 anni (di cui la metà è introno alla media 55) ci si deve fare qualche domanda sul punto.

Ci sono troppi soldi da spendere nelle casse erariali? E se si perché non si abbassa, seriamente, la pressione fiscale? Questo il primo problema.

Secondo problema. Al netto del blocco del turnover nel mondo dell’impiego pubblico (si ribadisce rapporto tra pensionati e assunti), ci sono troppi cittadini che non provano a concorrere perché non hanno le competenze necessarie o ne hanno troppe per essere ingranati nella macchina della burocrazia?

Quest’ultima domanda ci apre le porte per affacciarci su una voragine concettuale: se la politica vuole più competenza nel mondo pubblico (data la velocità del progresso e la mole di produzione normativa, alquanto, inarrestabile) non è detto che la stessa burocrazia, vista come aggregazione e collettivamente intesa (anche da un punto sindacale), voglia più competenza strutturata perché ciò significherebbe maggior competizione interna in termini di performance; se invece è la burocrazia a chiedere alla politica di creare presupposti per l’aumento delle competenze strutturali, non è detto che la politica stessa abbia voglia e capacità di indirizzare il piano d’opera perché questo implicherebbe una maggior qualità della classe dirigente del Paese per interagire proprio con una miglior burocrazia predetta.

In questo gioco c’è un periodo di “attesa”, di rischio fatale (perché si può distruggere la vita realmente) in cui chi ha studiato per esser competente ha un bivio davanti a sé: tuffarsi nel mondo del rischio privato o andare via dall’Italia.

Nella seconda ipotesi è risaputo che si tratti di fuga di cervelli.

Nella prima ipotesi, al pari di tanti medio-piccoli imprenditori, si deve fare i conti con almeno tre cose (al netto delle agevolazioni esistenti): il credito bancario, le chance concrete di interazione sociale, il rischio di cui parlavamo e la capacità effettiva di spesa pro capite dell’italiano medio (cioè quanto si può comprare con un dato reddito).

Mentre, come si è fatto notare, ciò che chiede il pubblico è certo, ma non il corrispettivo incasso, nel privato è certo che occorre darsi da fare al contrario. Rincorrere la certezza d’incasso per alzare i livelli di serenità, investimento ulteriore ed essere virtuosi contribuenti.

Allora, non ci si limiti a dire che lo Stato impiegando meno ha risparmiato di più. Da un lato sono aumentate le assunzioni collaterali: a tempo determinato o per consulenza esterna o di altro genere per tappare i buchi creati dai pensionamenti in blocco turnover (cioè aumentato dalla perdita di esperienza ma non nuove competenze poiché non acquisibili per formazione, aggiornamento, ecc.).

Lo Stato, così facendo, ha risparmiato sul dato contabile (forse), ma ha fallito e sta fallendo sul tratto corrispettivo che si stadia tra contribuente e fisco.

Che significa? Che il mondo privato si demoralizza e sfiducia rispetto all’interazione con il mondo pubblico perché non trova quel “necessariamente funzionale” a garantire il passo da far aumentare per l’impresa o la professione.

Subentra, per l’effetto, un atto di concorrenza sleale indiretto che non proviene da una concorrente estero, ma proviene proprio da chi dovrebbe garantirti il virtuosismo perché, come vollero i Costituenti, “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”.

Ora, lungi da forme di eventuale retorica, c’è che è lo Stato che rilascia le licenze ai privati per operare. E che significa licenza[4]? Sempre l’etimologia ci aiuta: esser permesso!

Il ché, paradossalmente, si lega al suo contrario: licenziare nel mondo del lavoro.

E giunge ad un punto di non ritorno la presente analisi.

Se tu Stato mi dai licenza per fare impresa, devi responsabilmente costruirmi un habitat per cui l’unica concorrenza a cui far fronte è quella del mercato. Il motivo è semplice: è quest’ultimo (sempre il mercato) che consente di creare il miglior prezzo per il cittadino-consumatore salvo i casi di stortura sistemica in cui è giusto che ci sia intervento calmiere del pubblico.

Questo cosa significa? Che lo Stato non deve diventare sconveniente ed insostenibile dai privati ai quali non si garantisca la dignità dell’utile: sia per il reinvestimento, sia per aumentare le paghe ai dipendenti od assumere più forza lavoro, ecc.

Dinanzi al quadro pandemico e ai dati in premessa riportati, ci ritroviamo a fare i conti con quel che rappresentata perfettamente le cose su cui non si può più cincischiare politicamente: le imprese medio-piccole sono al collasso fiscale (oltreché bancario).

Il sistema fiscale a sua volta, mantiene in essere sanzioni che vanno dal 30 al 100 financo al 200 % (davvero escluso che si possa percepire come una sorta di tortura o schiavitù sanzionabile secondo l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo?).

C’è una strada, senza presunzione di affidabilità, per rimettere in piedi il Paese. A questa strada si connettono, ovviamente, più vie:

  • spendere bene i soldi del PNRR per garantire una nuova classe di burocrati che possano operare in snellezza e fluidità (perché si immagini che anche il funzionario pubblico ha problemi decisionali se deve fare i conti con la pletorica normazione fuori dal perimetro utile al tempo in cui si opera);
  • aprire il fisco a rottamazione e saldo e stralcio condizionati ma sistemici per recuperare imprese e forza lavoro cadute in difficoltà affiancando, improcrastinabilmente, la riforma seria del mondo tributario e della giustizia;
  • reinventare la politica d’importazione energetica tanto quanto quella di importazione in base alla diversificazione merceologica (basti leggere i dati OEC al 2019[5] per cui il valore delle esportazioni è quasi pari a quello delle importazioni);
  • fare norme semplici, chiare, senza infiniti rimandi e che abbiano forme di tecnicismo limitate al necessario (spunto che rimanda alla cit. del Prof. Sabino Cassese del 28 dicembre 2021).

Queste sono solo alcune delle vie da percorrere per reindirizzarci sulla strada della ripresa del Paese.

Ma, alla radice, serve che il popolo sia consapevole delle proprie scelte.

Perché è quando sceglie che apre alla propria condanna o al progresso.

E nel primo caso, di tutta evidenza, ne diventa anche il mandante.

Ci vuole coraggio per la vera libertà anche se questa si vive tra continue insidie (cit. Aldo Moro).

Non possiamo diventare tutti dipendenti od assistiti di Stato (anche se una certa politica ancora viva nel Paese lo vorrebbe): occorre intervenire sulle ferite del Paese perché il peso del carico sulla macchina è diventato insopportabile dall’albero motore e dai pneumatici.

Se le imprese chiudono, chiude l’Italia.

 

[1] https://www.ilgiornale.it/news/politica/nel-2021-record-tasse-conto-513-miliardi-1998050.html

[2] https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2021/02/22/dipendenti-pubblici-statali-concorso/

[3] https://www.etimo.it/?term=coraggio

[4] https://www.etimo.it/?term=licenza

[5] https://oec.world/en/profile/country/ita