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La PAS, gli illeciti endofamiliari e la condotta professionale dell’avvocato

Infanzia
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Indice:

1. La sindrome da alienazione parentale o pas

2. La adeguata condotta dell’avvocato

3. Gli illeciti endofamiliari e la madre iperprotettiva

4. L’articolo 709 ter codice di procedura civile danni e responsabilità nella crisi delle relazioni familiari: forme di tutela.

5. L’attuazione coattiva della consegna dei figli e l'articolo 614 bis, codice di procedura civile

 

1. La sindrome da alienazione parentale o PAS

La sindrome da alienazione parentale o PAS (dall’acronimo Parental Alienation Syndrome) è a tutt’oggi un assai controversa dinamica psicologica disfunzionale. Come segnalato in seno alla proposta di legge n. 4377 del 2017 avente ad oggetto la modifica dell’articolo 337 ter codice civile, In essa può leggersi che, al di là del « nome » usato per riconoscere questo « cattivo fare genitoriale », sia il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – pubblicazione di riferimento per la scienza della psiche in tutto il mondo – sia la pratica clinica – nelle consulenze e perizie in tribunale – sia, infine, la ricerca, riconoscono e quindi chiariscono, finalmente, l’essenza « negativa » di tale fenomeno.

Cosa dice la giurisprudenza?

Non potendo dunque parlarne come di una patologia, possiamo argomentare a partire dalla sua situazione fenomenologica che, sebbene priva dei requisiti di scientificità, non va trascurata e che anzi, alla luce delle plurime sentenze dei Tribunali di merito e di legittimità (cfr.: decreto Tribunale di Milano del 13.10.2014, Cass. civ n.7041/2013 nonché recentemente Cassazione civile n.6919/2016) comincia ad essere opportunamente valorizzata. Così si è espressa la Corte d’Appello di Brescia sul caso di Cittadella noto a tutti: “La mancanza di fondamento scientifico della PAS non esclude che essa possa essere utilizzata, fini del processo, per individuare un problema relazionale in situazione di separazione dei genitori, pur non assumendo i connotati di una malattia vera e propria. Infatti, l’atteggiamento del bambino che rifiuta l’altro genitore, per un patto di lealtà con il genitore ritenuto più debole, può condurlo ad una forma di invischiamento capace di produrre nella sua crescita non solo una situazione di sofferenza, ma anche una serie di problemi psicologici alienanti. Il punto del processo è allora stabilire se i disturbi a carico del minore siano o non riconducibile alla responsabilità del genitore convivente, in quanto generati dal suo comportamento nei confronti dell’altro genitore.” (Corte di Appello di Brescia, sez. Minorenni, decreto 3- 17 maggio 2013 n. 103 (Pres. Est. Campanato).

Avvocati, psicologi e assistenti sociali convengono su un punto fondamentale

la non trascurabilità della fenomenologia alienante e la adeguata condotta deontologica dell’avvocato matrimonialista che venga in contatto con dette problematiche.

 

Detto ultimo punto è stato sviscerato in ogni sua forma, per censurare comportamenti contrari, più che strettamente alla deontologia, all’etica professionale che dovrebbe incarnare ogni avvocato, che probabilmente attengono più alle regole del buon senso.

 

2. La adeguata condotta dell’avvocato

È stato detto infatti e ribadito che, come diceva Jemolo, il diritto deve solo lambire quelle isole di sentimenti che sono le famiglie e i rapporti in essa radicati con il tempo e, perché questo non rimanga un brocardo destinato ad affollare i classici da biblioteca, è necessario che il legale parta dalla insufficienza propria e degli strumenti di cui  dispone per cucire le ferite che i dissidi familiari generano, rinunciando alle mire di protagonismo generate dal rivestire ciecamente le vesti di alfiere del diritto del proprio assistito.

Egli in altre parole non deve mai smarrire il c.d. best interest, che nel diritto di famiglia coincide con il benessere psicofisico del minore e l’interesse dello stesso ad una crescita sana e ed equilibrata.

E che questo convincimento debba stare alla base del nostro codice etico è un dato che non deve mai abbandonarci per evitare che, finito il seminario di studi, la tavola rotonda o il momento formativo, dall’alto degli scranni da relatore, si torni alle proprie scrivanie impugnando scudo e lancia.

In equilibrio tra i doveri

Il rapporto fiduciario che nel tempo si costruisce tra professionista e cliente si inscrive infatti nel Codice Deontologico (l'articolo 10 prescrive infatti il dovere di fedeltà sanzionato anche con una norma penale quale l'articolo 380 codice penale) ma si pone certamente in potenziale ed apparente contrasto con altri doveri previsti dal codice deontologico, quale quello di indipendenza (articolo 9) e quello di autonomia.

È proprio nell'equilibrio tra questi doveri che è possibile individuare il comportamento professionale più adeguato rispetto alle esigenze complessive poste da una causa di diritto di famiglia. È

Codice etico o opportunità?

Esiste dunque un codice etico non scritto, ricco certamente di contenuti che orientano l’attività professionale dell’avvocato in tal senso. Ma la domanda è: siamo sicuri di mettere questi principi in pratica tutte le volte che assistiamo un cliente nuovo?

È importante che gli avvocati impegnati in una causa di diritto di famiglia sappiano mantenere sempre alta la capacità di ridefinizione delle richieste del proprio cliente. Essi partecipano alla giurisdizione, vigilano sulla conformità delle leggi ai principi della Costituzione e dell’Ordinamento dell’Unione Europea e sul rispetto dei medesimi principi, nonché di quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, di cui si parla all’articolo1 del codice deontologico.

Un antico brocardo recita: “Processus est actus trium personarum stando proprio a significare che tre sono gli attori principali, il giudice e le due parti in contesa.

Ebbene detta funzione va al di là di quella tradizionale di “esperti”. La capacità di ridefinizione è la capacità che ha l’avvocato di valutare la plausibilità e la congruità della domanda del cliente, rispetto al contesto familiare ridisegnatosi nonché a quello giuridico e giudiziario in cui deve essere proposta, tutti elementi che vanno colorati dalla necessaria sensibilità richiesta dal bene della vita da tutelare nel caso di specie.

Reinterpretare i legami non distruggerli

Per far ciò è necessario che si imponga la necessità di dare preminenza alla difesa del minore, eventualmente motivando il cliente in tal senso, attraverso un processo educativo solo apparentemente di competenza di altre figure professionali. Ruolo di equidistanza cui egli è tenuto e a cui lo stesso è chiamato ad attingere tutte le volte che le istanze della parte, a suo insindacabile parere, debbano retrocedere di fronte alle stringenti e ben più importanti esigenze di difesa dell’integrità del minore.

Ricordo di essermi imbattuta in colleghi, privi della competenza richiesta in questo settore al di là della specialistica formalmente conseguita che, in presenza di una madre che aveva dato un ceffone alla figlia convivente, agitava lo spettro della denuncia per percosse. Il prodotto immediato di tale dissennato esercizio della professione era una genitrice isolata nella scelta educativa e dibattuta, tra il rinunciare ad essa per paura di essere additata come madre violenta e il perseverare sulla stessa strada con il rischio di rimanere vittima di alienazione parentale. 

No ad una avvocatura insana

Ecco: quel che dovrebbe essere l’obbiettivo di ogni avvocato, anche se può apparire di forte impatto, è avere la forza di dire di no ad una difesa nella quale non ci si riconosca, nella quale sbiadiscano d’un colpo principi e valori conquistatati nel tempo e che ci caratterizzino al punto da non riconoscerci più nella toga, che la professionalità raggiunta ha ricamato su di noi.

Un’avvocatura che voglia dirsi sana deve saper dire di no, soprattutto a quei comportamenti generatori di illeciti endofamiliari.

 

3. Gli illeciti endofamiliari e la madre iperprotettiva

Uno dei problemi che spesso ci ritroviamo a dovere affrontare e risolvere è ad esempio la separazione con minori che non abbiano superato i 3 anni e la richiesta di pernottamento da parte del genitore non collocatario. Sul punto vi sono certamente alcuni punti fermi sui quali avvocati e psicologi concordano, e cioè che il minore di anni 3 è ancor in un’epoca della sua esistenza in cui il cordone ombelicale che lo legava alla madre, sebbene reciso fisicamente, è ancora virtualmente esistente.  La mamma ha vissuto il figlio come una sua appendice fino a quel momento e l’aria respirata dal piccolo è ancora intrisa di latte materno.

Ora, le ostilità tipiche dei primi mesi di separazione inducono la madre ad acuire l’aspetto protezionistico, con la conseguenza di arrivare a negare il figlio al padre nei casi peggiori anche durante il giorno, nei casi migliori solo per il pernottamento. Momento quest’ultimo vissuto in alcuni casi dalla madre come una penitenza inflitta a sé e al figlio nei giorni assegnati all’altro come regime di visita.  Qui si agitano le ragioni più disparate: dall’argomento classico che

il minore è ancora troppo piccolo per potere vivere la separazione dal letto materno (fatto il più delle volte generatore della stessa separazione), al più originale che il minore sta per abbandonare il ciuccio e versa in un momento di particolare bisogno di coccole materne.

Come nelle commedie di Pirandello

Ora al di là delle ragioni che di volta in volta ispirino i Presidenti dei Tribunali a negare o a concedere il pernottamento – non è questo l’oggetto di questa trattazione – ciò che qui ci preme ancora una volta rimarcare è il ruolo sempre presente dell’avvocato matrimonialista il cui atteggiamento – dispiace rimarcarlo in questa sede- muta a seconda di chi sia di volta in volta il cliente che assiste. Sarebbe troppo semplicistico affermare che tutto ciò rientra nel diritto di difesa del proprio cliente, perché in realtà tutto ciò collide contro quell’etica professionale e quegli ideali di libertà di cui abbiamo parlato.

In altre parole, si assiste al classico da commedia pirandelliana, in cui basta cambiare ruolo perché si invochino principi, prima contestati, quando l’assistito stava dall’altra parte in un dinamismo che di giuridico ha poco, se l’interesse del minore – che è l’obbiettivo del nostro ordinamento – viene metodicamente calpestato per far posto al gioco delle parti.

Quotidianamente ci troviamo di fronte a queste derive in cui l’attività del professionista, oltre un certo limite segnato dal diritto di difesa, conduce a forme di complicità sul terreno dell’illecito endofamilliare, forme di non azione, che in campo penale segnano il limite tra l’attività defensionale e la connivenza con il malavitoso.

L’avvocato deve sapere che, mentre in altri settori tutto ciò può solo condurre a danni patrimoniali, nel diritto di famiglia si tratta di distruggere sentimenti e rapporti costruiti nel tempo.

 

4. L’articolo 709 ter codice di procedura civile, danni e responsabilità nella crisi delle relazioni familiari: forme di tutela.

Fermo restando che si parla di sentimenti umani con i rischi di cui abbiamo parlato sopra, la domanda che ci poniamo adesso è: quali sono i rimedi che ci dà la nostra legge per scongiurare questi comportamenti? Quindi cosa si fa se un figlio non vuole più vedere il padre o la madre?

Poiché tutto ciò che ha ad oggetto un “facere infungibile” non è coercibile, come sappiamo, il legislatore si è preoccupato di dissuadere il genitore inadempiente con l’unico modo conosciuto.

Il rimedio sulla carta è offerto dall’articolo 709 ter codice di procedura civile, introdotto nel nostro ordinamento dalla Legge 8 febbraio 2006, n. 54, “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso. La norma fa riferimento, testualmente, a “gravi inadempienze o atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento”.

 La strada seguita è un procedimento, che può innestarsi in quello di separazione o di divorzio o tra genitori non uniti in matrimonio, che serva a verificare la concreta attuazione del provvedimento in precedenza assunto in sede giudiziale rispetto all’interesse del minore. Possiamo quindi dire che la funzione precipua dell’articolo 709 ter codice di procedura civile, è appunto quella di rendere effettiva l’ottemperanza del provvedimento già reso nei confronti dei minori. 

Esso stigmatizza il comportamento pregiudizievole del genitore e consegna al giudice, premesso l’accertamento di detti comportamenti e del danno al minore tramite una consulenza psicologica, alcune sanzioni, dall’ammonimento del genitore inadempiente che si oppone ad esempio al regime di visita prescritto, fino alla condanna alla cassa delle ammende di una somma di danaro, sia in caso di accertato danno al minore, che di danno all’altro genitore. La misura della sanzione è dall’articolo 709 ter codice di procedura civile determinata in maniera forfettaria e va versata alla Cassa delle ammende, infatti la sua finalità è solo quella di sanzionare la disobbedienza ad un ordine del giudice e non ovviamente di riparare al pregiudizio subito dal coniuge o dal figlio.

In dottrina si sostiene da alcuni interpreti trattarsi di strumento di coercizione indiretta, punitivo e non risarcitorio che rinvia all’ordinamento francese, dove la cd. astreinte, ovvero la minaccia di condanna al pagamento di una somma di denaro è suscettibile di divenire definitiva condanna in ipotesi di mancata o ritardata esecuzione del provvedimento giudiziale.

 

5. L’attuazione coattiva della consegna dei figli e l'articolo614 bis, codice di procedura civile

Altro rimedio è poi dato dall’articolo 614 bis codice procedura civile, questa volta autentica misura di coercizione indiretta, introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, nel Libro III che tratta del processo di esecuzione, che ha incluso nell’ordinamento una nuova misura di carattere generale, che si ritiene applicabile anche ai casi di inottemperanza agli obblighi di natura familiare.

Venendo all’adempimento del c.d. regime di visita e quindi alla mancata consegna dei figli da parte del genitore collocatario, visto che è in quest’ambito per lo più che si gioca la “partita”, Il diritto del genitore alla consegna del minore è caratterizzato da due elementi principali: 1) si tratta per un verso di un diritto strettamente legato ad interessi personali del minore,  che vanno  preservati, per quanto possibile, da ogni forzatura e da ogni forma di costringimento e di un 2)  diritto suscettibile di essere leso attraverso comportamenti aventi contenuti variegati.

Da qui la necessità di ricercare un meccanismo diverso, adatto ai tratti caratterizzanti l'obbligo da attuare, effettivo, costituito appunto dalle misure di attuazione indiretta, ossia da misure che non si concretizzano (come quelle di esecuzione diretta) nella sostituzione di un terzo all’obbligato, per il compimento della condotta dovuta, ma si sostanziano nella prospettazione, rivolta all’obbligato, di una conseguenza negativa per l’ipotesi in cui questi non tenga la condotta dovuta.

 Le misure in esame sono, in altri termini, meccanismi di coercizione psicologica, tesi a indurre l’obbligato ad adempiere personalmente.

Nella cornice di cui sopra si colloca la previsione dell’articolo 614 bis, codice di procedura civile secondo la quale “il giudice, con il provvedimento di condanna all'adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro, fissa, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza” (…).

 I provvedimenti ex articolo 614 bis e i provvedimenti ex articolo 709 ter, stante la loro diversa natura e funzione, possono concorrere ed essere cumulati.