La corte di cassazione in tema di esterovestizione

Corte di Cassazione, Sez. Tributaria, sentenza n. 23707 del 22 agosto 2025
Le anime della notte
Ph. Paolo Panzacchi / Le anime della notte

La corte di cassazione in tema di esterovestizione

Corte di Cassazione, Sez. Tributaria, sentenza n. 23707 del 22 agosto 2025

 

PREMESSA

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 23707 del 22 agosto 2025, ha affrontato un argomento alquanto spinoso in ambito tributario, inerente l’individuazione della “sede dell’amministrazione” di una società ai fini fiscali e, nello specifico, il tema dell’esterovestizione societaria.

La sentenza in commento – che, in accoglimento di tutte le eccezioni di diritto e di merito sollevate dallo Studio Tributario Villani, ha rigettato il ricorso proposto dall’Avvocatura Generale dello Stato e confermato la decisione favorevole resa in secondo grado – si inserisce nell’ambito della giurisprudenza consolidata (unionale e nazionale) in materia di residenza fiscale delle persone giuridiche e, in particolare, di esterovestizione societaria.

Con la pronuncia de qua, la Suprema Corte ha inteso offrire un punto di equilibrio tra due esigenze contrapposte ma ugualmente rilevanti:

  • da un lato, la necessità di contrastare i fenomeni di abuso del diritto, come l’indebita elusione fiscale attraverso la costituzione di società fittizie all’estero;
  • dall’altro, tutelare la libertà di stabilimento riconosciuta dai Trattati europei, che prevedono la possibilità per le imprese di operare liberamente nei vari Stati membri.

La sentenza de qua è meritevole di attenzione in quanto i giudici di legittimità hanno definitivamente chiarito i criteri per l’individuazione della residenza fiscale di una società formalmente residente all’estero, ma sospettata di avere in Italia la propria sede effettiva.

La Corte di Cassazione ha precisato che la nozione di “sede dell’amministrazione”, contrapposta alla “sede legale”, coincide con la nozione civilistica di “sede effettiva” e deve essere intesa come il luogo in cui si svolgono concretamente le attività amministrative e di direzione dell’ente.

Nello specifico, la Suprema Corte ha evidenziato che il concetto di “sede dell’amministrazione” non può consistere sic et simpliciter con il luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative. Occorre, piuttosto, effettuare un esame complessivo della realtà fattuale, valutando la concreta organizzazione aziendale e lo svolgimento effettivo dell’attività d’impresa in conformità all’atto costitutivo o allo statuto.

In altri termini, è necessario verificare se la società svolga effettivamente la sua attività in conformità con il proprio atto costitutivo o statuto, escludendo che la stessa possa essere considerata una “costruzione di puro artificio” finalizzata esclusivamente a ottenere vantaggi fiscali.

Inoltre, la Corte ha ribadito che l’utilizzo di contratti di servizio - come quelli di ship management  - stipulati con altre società non può, da solo, costituire un criterio sufficiente per accertare l’esterovestizione di una società, né per dimostrare che la stessa sia priva di “autonomia giuridico-patrimoniale” e ridotta a “mero satellite” della capogruppo.

Come chiarito dalla sentenza in commento, l’accertamento deve essere più ampio e includere l’effettiva organizzazione e coordinamento dell’attività economica, nonché le modalità attraverso cui la società opera nel territorio di uno Stato membro, in conformità con i principi di libertà di stabilimento previsti dal diritto dell’Unione Europea.

Infine, la Suprema Corte ha ribadito che non può configurarsi un abuso fiscale nel caso in cui una società, pur avendo la propria sede in un altro Stato membro, svolga parte delle sue attività in Italia. Ciò in quanto, come si legge della sentenza de qua, la mera circostanza che una società effettui la propria attività principale in un altro Stato membro non può fondare una presunzione generale di frode.

Con la sentenza in commento, dunque, i giudici di legittimità hanno delineato i limiti entro i quali il principio di libertà di stabilimento si deve armonizzare con l’esigenza di contrastare l’abuso delle strutture societarie a fini elusivi della normativa fiscale.

 

IL CASO

La controversia in esame trae origine da un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza di Brindisi in data 31/07/2012, a seguito di un’articolata attività ispettiva volta a verificare la reale residenza fiscale di una società, formalmente registrata in Portogallo.

Secondo la Guardia di Finanza, la sede effettiva e il centro decisionale della società si trovavano in Italia, presso gli uffici di due società italiane.

Nello specifico, la sede italiana della società contribuente coincideva inizialmente con quella di una società italiana cessata nel 2008 e, successivamente, con la sede di un’altra società, anch’essa italiana, costituita nel 2009.

Le due società italiane risultavano incaricate della gestione complessiva delle attività operative della società estera (in particolare, degli aspetti commerciali, tecnici, finanziari e alla gestione del personale delle navi utilizzate per le attività di rimorchio d’altura e di assistenza a piattaforme petrolifere operanti al largo della costa sud-occidentale dell’Africa, per mezzo di rimorchiatori di proprietà della società estera).

Dalle risultanze istruttorie emergeva, inoltre, che l’intero pacchetto azionario della società estera era detenuto da una società holding di diritto portoghese, a sua volta interamente controllata, tramite fiduciari, da due soggetti italiani, già soci delle menzionate società italiane incaricate della gestione operativa.

Secondo la Guardia di Finanza, dunque, la gestione effettiva della società estera era solo formalmente affidata ad un consiglio di amministrazione composto da un presidente e da due cittadini portoghesi, ma era esercitata di fatto dai due soggetti italiani sopra citati.

Sulla base di tali elementi, l’Agenzia delle Entrate, ritenendo la società esterovestita e fiscalmente residente in Italia ai sensi dell’art. 73, comma 3, del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR), emetteva plurimi avvisi di accertamento nei confronti della società e degli amministratori di fatto, per gli anni dal 2005 al 2012, per recuperare a tassazione imposte dirette e IVA, oltre all’irrogazione delle relative sanzioni.

La società contribuente e gli amministratori di fatto impugnavano i suddetti avvisi di accertamento innanzi all’allora competente Commissione Tributaria Provinciale di Brindisi (oggi denominata Corte di Giustizia Tributaria di primo grado), la quale, con plurime sentenze, rigettava i ricorsi e condannava i ricorrenti alla refusione delle spese di lite .

In riforma di tali decisioni, la Corte di Giustizia Tributaria di Secondo grado della Puglia accoglieva gli appelli dei contribuenti, annullando gli avvisi di accertamento de quibus.

Le motivazioni delle sentenze di secondo grado, sostanzialmente sovrapponibili, chiarivano che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce di per sé un abuso della libertà di stabilimento a meno che non si tratti di “costruzioni di puro artificio”.

Sulla base di tale assunto, le sentenze rilevavano l’assenza, nel caso di specie, di una costruzione giuridica puramente artificiosa, rilevando che la società contribuente, effettivamente localizzata e radicata totalmente al di fuori del territorio italiano:

  • svolgeva la propria attività all’estero;
  • era dotata di una propria autonomia gestionale sia sotto il profilo organizzativo che sotto quello amministrativo;
  • in conformità ad una contrattualistica diffusa in ambito marittimo, aveva demandato un’ampia sfera di attività di natura strumentale alle società italiane.

Inoltre, i giudici di secondo grado evidenziavano che, in un connesso procedimento penale relativo ai medesimi fatti oggetto della controversia in esame, la Corte d’Appello di Lecce, con sentenza passata in giudicato, aveva escluso l’esterovestizione della società contribuente.

La C.G.T. di Secondo grado chiariva che tale sentenza penale di assoluzione passata in giudicato, essendo venuto meno il c.d. “doppio binario” tra processo penale e processo tributario, era idonea a spiegare effetti anche nel giudizio tributario, determinando il venir meno dell’ipotesi accertativa dell’esterovestizione della società.

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione avverso le sentenze di secondo grado, contestando la natura esterovestita della società contribuente e la riconducibilità del centro di imputazione dei suoi interessi economici nel territorio italiano.

Nello specifico e per quanto qui di interesse, l’Agenzia delle Entrate ha lamentato, tra gli altri motivi:

  • la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 73, comma 3, del TUIR,  per aver i giudici di merito erroneamente escluso l’esterovestizione della società contribuente sulla base del contratto di ship management.

Secondo l’Agenzia, la società portoghese avrebbe avuto in realtà la propria sede di direzione effettiva in Italia, dove venivano adottate le decisioni gestionali fondamentali per la vita dell’ente, attraverso l’operato – diretto o indiretto – dei due soggetti italiani, riconducibili a società italiane con le quali erano stipulati contratti di ship management ritenuti meramente strumentali.

A tal fine, l’Amministrazione finanziaria ha richiamato tre criteri necessari individuare la residenza fiscale delle persone giuridiche:

  • sede legale;
  • sede dell’amministrazione;
  • l’oggetto principale dell’attività economica.

Diversamente da quanto ritenuto dai giudici di secondo grado, in presenza di uno dei suddetti elementi nel territorio dello Stato per la maggior parte del periodo di imposta la società si considera residente in Italia, mentre l’eventuale stipula di contratti con società residenti in Italia per lo svolgimento di certe attività non può escludere la residenza dello stipulante nel territorio italiano;

  • la violazione e falsa applicazione dell’art. 73, comma 3, del TUIR e degli artt. 4 e 9 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Portogallo, per avere i giudici di secondo grado escluso l’esterovestizione della società contribuente sulla base di un criterio (la costruzione di puro artificio) estraneo a quanto previsto dalle citate disposizione, le quali danno rilievo soltanto al criterio del “place of effective management”.

Secondo l’Agenzia delle Entrate, ai fini della contestazione dell’esterovestizione di una società, è sufficiente la prova della sede della direzione effettiva o dello svolgimento dell’attività principale in Italia, oltre allo spostamento di reddito da uno Stato (Italia) ad un altro (Portogallo), in cui il reddito è soggetto ad un’imposizione più mite o nulla.

Ebbene, la Corte di Cassazione, con la sentenza in commento n. 23707 del 22/08/2025, in accoglimento delle tesi difensive articolate dallo Studio Tributario Villani, ha rigettato i ricorsi riuniti, ritenendo che i giudici di secondo grado avessero correttamente escluso l’esterovestizione della società contribuente.

In particolare, i giudici di legittimità hanno ribadito che l’accertamento della “sede dell’amministrazione” – da intendersi come “sede effettiva” – impone una valutazione complessiva e sostanziale, basata su elementi concreti e non meramente formali.

Nel caso di specie, i giudici di secondo grado avevano accertato l’esistenza in Portogallo di una struttura societaria reale, operativa, con personale, mezzi, attività economica effettiva e riunioni del Consiglio di Amministrazione regolarmente svolte nello Stato estero.

Alla luce di ciò, la Corte di Cassazione ha confermato che l’insediamento portoghese non poteva ritenersi fittizio. La mera esistenza di collegamenti con soggetti italiani, infatti, non è sufficiente a fondare una presunzione di esterovestizione, essendo necessaria – secondo i principi affermati anche dalla giurisprudenza unionale – la dimostrazione che si trattasse di una costruzione artificiosa priva di sostanza economica.

Prima di passare all’analisi della motivazione della sentenza in commento, si rendono opportune brevi considerazioni in merito alla nozione di esterovestizione societaria.

 

LA NOZIONE DI “ESTEROVESTIZIONE SOCIETARIA”

La piena comprensione delle argomentazioni svolte dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento richiede, in via preliminare, un inquadramento generale del fenomeno dell’“esterovestizione societaria”.

L’“esterovestizione societaria” rappresenta un fenomeno elusivo di particolare rilevanza in ambito tributario, mediante il quale una società, pur risultando formalmente residente all’estero, mantiene in Italia il proprio centro di direzione effettiva, con l’obiettivo principale di conseguire un indebito vantaggio fiscale.

Tale condotta comporta una dissociazione tra residenza effettiva e residenza fittizia del soggetto passivo d’imposta, con l’effetto di eludere, in modo artificioso, l’ordinario regime impositivo italiano.

Il fine ultimo dell’esterovestizione è quello di conseguire un indebito risparmio d’imposta, beneficiando di un trattamento fiscale più favorevole rispetto a quello previsto dall’ordinamento italiano. In molti casi, si tratta di operazioni formalmente legittime ma prive di reale sostanza economica, attraverso le quali viene costituita una presenza solo apparente all’estero, non corrispondente ad un effettivo trasferimento della residenza o della sede dell’attività.

Ed invero, la condotta tipica dell’esterovestizione si pone in contrasto con il principio della “worldwide taxation, secondo cui i soggetti fiscalmente residenti in Italia sono assoggettati a tassazione per i redditi ovunque prodotti, e può integrare ipotesi di “abuso del diritto” in ambito fiscale, laddove le operazioni siano finalizzate esclusivamente all’ottenimento di vantaggi fiscali indebiti.

Tuttavia, è pacifico che, affinchè la condotta tipica dell’esterovestizione integri un’ipotesi di “abuso del diritto” è necessario:

  • da un lato, che tale condotta abbia come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito dalle norme;
  • dall’altro, che da un insieme di elementi oggettivi risulti che lo scopo essenziale dell’operazione si limiti all’ottenimento di tale vantaggio fiscale.

In ambito nazionale, la normativa di riferimento è rappresentata dall’art. 73 del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR), il quale, al comma 3, individua tre criteri, tra loro alternativi, per determinare la residenza fiscale delle società:

  • la sede legale;
  • la sede amministrativa;
  • l’oggetto esclusivo o principale.

Più nello specifico, il comma 3, primo periodo, dell’art. 73 cit. così dispone:

«Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno nel territorio dello Stato la sede legale o la sede di direzione effettiva o la gestione ordinaria in via principale.

In altri termini, l’art. 73, comma 3, del TUIR stabilisce che una società si considera fiscalmente residente in Italia qualora, per la maggior parte del periodo d’imposta, abbia nel territorio dello Stato uno dei suddetti tre elementi.

Ebbene, nella prassi accertativa e nella giurisprudenza, è considerato particolarmente rilevante il criterio della “sede dell’amministrazione”, da intendersi non tanto in senso formale (cioè come sede indicata nell’atto costitutivo o nello statuto), quanto piuttosto in senso sostanziale, quale luogo in cui si svolgono in via principale le attività gestorie e decisionali fondamentali della società.

Ne consegue che l’individuazione della residenza fiscale della società non può fondarsi su mere risultanze formali o anagrafiche, bensì impone un accertamento sostanziale, fondato sull’effettivo luogo in cui si assume la direzione dell’attività economica dell’ente.

Inoltre, l’art. 73 del TUIR prevede, al comma 5-bis, una presunzione legale relativa di residenza fiscale in Italia per quelle società estere che presentano determinate caratteristiche.

In particolare, la suddetta presunzione opera quando le società estere detengono partecipazioni di controllo in società italiane e sono, a loro volta, controllate da soggetti fiscalmente residenti nel territorio dello Stato o amministrate da organi di gestione composti in prevalenza da persone residenti in Italia.

In altri termini, ai sensi dell’art. 73, comma 5-bis, del TUIR, le società estere sono considerate residenti in Italia qualora:

  • siano controllate da soggetti residenti in Italia (ai sensi dell’art. 2359 c.c.);
  • detengano partecipazioni di controllo in società residenti in Italia;
  • abbiano organi di amministrazione composti in prevalenza da soggetti residenti in Italia.

In presenza di queste condizioni, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a presumere che la società, pur avendo sede legale all’estero, sia di fatto amministrata dall’Italia e, dunque, vi sia fiscalmente residente.

Tale presunzione comporta un’inversione dell’onere probatorio, gravando sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettività della localizzazione all’estero della direzione e dell’attività economica.

Come si dirà meglio nel prosieguo, il soggetto estero deve provare la sussistenza di una struttura organizzativa reale nello Stato estero, l’effettivo svolgimento delle funzioni amministrative e operative, l’autonomia decisionale del management locale e l’esistenza di ragioni imprenditoriali, commerciali o strategiche che giustifichino la localizzazione estera.

L’Amministrazione finanziaria, d’altra parte, ha l’onere di dimostrare l’esistenza di un disegno elusivo, fondato su elementi oggettivi e concreti, dai quali risulti che la presenza estera è meramente fittizia.

 

IL PRINCIPIO DI LIBERTÀ DI STABILIMENTO EX ARTT. 49-55 TFUE

Giova preliminarmente ribadire che le valutazioni circa la condotta fraudolenta della società esterovestita devono tener conto del principio di libertà di stabilimento, disciplinato dagli art. 49-55 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).

Com’è noto, la libertà di stabilimento garantisce il diritto di insediarsi in uno Stato membro che offra condizioni più vantaggiose rispetto a quello di appartenenza, in assenza di vincoli o limitazioni a sfavore dello spostamento della sede societaria.

Il principio di libertà di stabilimento, diretta derivazione del principio di non discriminazione fiscale, si colloca all’interno di un mercato unico che garantisce la libera circolazione di persone, servizi e capitali, riconoscendo ai cittadini e alle imprese dell’Unione Europea:

  • sia il diritto di lasciare lo Stato di stabilimento ed intraprendere un’attività economica autonoma o costituire una società in un altro Stato (c.d. stabilimento a titolo principale);
  • sia il diritto di mantenere il proprio stabilimento nello Stato di origine ed aprire un secondo centro di attività (ovvero, un’agenzia, una succursale, una filiale) in un altro Stato membro (c.d. stabilimento a titolo secondario).

È, dunque, ben evidente che il fenomeno dell’esterovestizione societaria collide con il suddetto principio di libertà di stabilimento.

Tanto premesso, occorre precisare che la libertà di stabilimento presuppone comunque lesercizio di unattività economica ed un insediamento reale, corrispondente anche ad un livello minimo di presenza oggettivamente verificabile, del soggetto non residente nello Stato membro ospite (Corte di Giustizia, 23/04/2008, C-201/05, Test Claimants).

In altri termini, la nozione di stabilimento di cui agli artt. 49-55 TFUR <<implica l'esercizio effettivo di un'attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercè l'insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro>> (v. sentenze 25 luglio 1991, causa C-221/89, Factortame e a., Racc. pag. I-3905, punto 20, nonchè 4 ottobre 1991, causa C-246/89, Commissione/Regno Unito, Racc.pag.I-4585, punto 21).

Sul punto giova rammentare che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza del 12/09/2006, causa C-196/04 (Cadbury Schweppes), ha ribadito che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per poter fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce un abuso di tale libertà.

Ed invero, la Corte di Lussemburgo ha chiarito che la restrizione alla libertà di stabilimento è ammessa soltanto se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato.

Ne consegue che, perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale.

In definitiva, quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, ossia se l’operazione sia meramente artificiosa (wholly artificial arrangement), consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica.

L’orientamento, ormai granitico, della Corte di Giustizia in materia di libertà di stabilimento e abuso del diritto è stato progressivamente recepito anche dalla giurisprudenza nazionale.

In particolare, in applicazione dei suesposti principi unionali, la Corte di Cassazione, Sez. Tributaria, con l’ordinanza n. 17849 del 22/06/2021, ha così statuito:

<<Il principio di libertà di stabilimento - che garantisce la possibilità di creare una società in un paese a fiscalità privilegiata anche allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale – può subire delle restrizioni nei casi di costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica. Si configura un’ipotesi di abuso del diritto quando alla forma giuridica creata non corrisponde alcuna realtà di fatto (wholly artificial arrangement) in relazione, principalmente, al luogo della sede effettiva, inteso come il luogo ove vengono assunte le decisioni chiave di gestione e di amministrazione necessarie per la conduzione dell’impresa. La valutazione dell’effettività dell’impresa deve sempre essere condotta in un’ottica di prevalenza della sostanza sulla forma.>>.

La giurisprudenza nazionale, pertanto, si muove nel solco tracciato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, chiarendo che la libertà di stabilimento non può essere invocata per giustificare operazioni prive di reale consistenza economica.

L’ACCERTAMENTO DELLA COSTRUZIONE DI PURO ARTIFICIO (“WHOLLY ARTIFICIAL ARRANGEMENT”)

Nell’ambito della disciplina dell’esterovestizione, la giurisprudenza unionale e nazionale attribuisce particolare importanza all’accertamento della natura meramente artificiosa della struttura societaria trasferita all’estero.

Ed invero, ai fini della configurazione di un abuso della libertà di stabilimento è necessario accertare l’avvenuto trasferimento della sede della società all’estero. In altri termini, occorre accertare se l’operazione posta in essere sia meramente artificiosa (c.d. wholly artificial arrangement), ossia realizzata mediante la creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica.

Inoltre, giova ribadire che la valutazione circa l’effettività dell’impresa deve sempre essere condotta in un’ottica di prevalenza della sostanza sulla forma.

Ne consegue che il tradizionale criterio degli elementi sintomatici delle “sede effettiva”  ha perso rilievo rispetto all’approccio più sostanziale fondato sull’“effettiva operatività” della società. Tale ultimo criterio (“effettiva operatività” della società) privilegia, al contrario del criterio della “sede effettiva”, un’indagine diretta ad accertare che la società formalmente residente all’estero, non sia frutto di un mero artificio e non possieda alcuna sostanza economica.

In altri termini, secondo il più recente criterio dell’ “effettiva operatività”, l’Amministrazione finanziaria può contestare l’esterovestizione solo ove riscontri <<una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l'imposizione e che comporti un vantaggio fiscale>> (Cass., Sez. V, 2 febbraio 2021, n. 224; Cass., Sez. V, 5 dicembre 2019, n. 31772).

Da tanto ne discende che, secondo il più recente orientamento giurisprudenziale, l’Amministrazione finanziaria può contestare l’esterovestizione solo se è in grado di dimostrare, attraverso elementi oggettivi e verificabili, che:

  • la società estera è una struttura fittizia, priva di una reale attività economica. In particolare, è necessario accertare che manchino elementi essenziali come sedi operative, personale qualificato e attrezzature, indicatori minimi ma fondamentali per attestare un’effettiva presenza sul territorio dello Stato in cui la società dichiara di avere sede;
  • lo scopo principale delle operazioni societarie è quello di ottenere un vantaggio fiscale.

In sostanza, per evitare che venga contestata la creazione di una struttura fittizia, è necessario che il soggetto residente all’estero eserciti la propria attività mediante una “realtà economica” effettiva e con l’esistenza di <<elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi, relativi in particolare al livello di presenza fisica in termini di locali, di personale e di attrezzature>>.

Solo in presenza di tali elementi è possibile riconoscere e garantire il diritto alla libertà di stabilimento, poiché la società risulta effettivamente radicata nel territorio dello Stato ospitante e vi svolge un’attività economica reale (così Corte di giustizia 12/09/2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes plc e Cadbury Schweppes Overseas Ltd; similmente Corte di giustizia 28/06/ 2007, causa C-73/06, Planzer Luxembourg Sarl).

L’accertamento della sostanza economica, dunque, si configura come passaggio essenziale per garantire il corretto bilanciamento tra libertà di stabilimento e contrasto all’abuso del diritto.

L’ONERE DELLA PROVA IN TEMA DI ESTEROVESTIZIONE

In materia di esterovestizione, è fondamentale il tema dell’onere della prova, che coinvolge sia l’Amministrazione finanziaria sia il contribuente, secondo un equilibrio delineato dalla giurisprudenza nazionale e unionale.

In particolare, è pacifico che:

  • incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare concretamente che la società estera sia solo una costruzione artificiosa, creata con l’unico scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale.

Ciò significa che il Fisco deve:

  • provare l’esistenza di un disegno elusivo, cioè l’intento specifico di aggirare le norme fiscali italiane;
  • documentare l’uso anomalo di schemi negoziali, ovvero modalità contrattuali o organizzative che, pur formalmente lecite, risultano irragionevoli o incoerenti rispetto a una normale logica di mercato, perché finalizzate unicamente a ridurre l’imposizione fiscale.

In altre parole, l’Amministrazione finanziaria deve fornire elementi oggettivi e verificabili che dimostrino come la struttura estera sia solo di facciata e priva di sostanza economica (ad esempio: assenza di uffici, personale, attrezzature, reali attività operative);

  • spetta, invece, al contribuente dimostrare che l’operazione ha una motivazione economica effettiva, diversa dal semplice risparmio d’imposta.

In questo contesto, la società deve:

  • fornire giustificazioni economiche plausibili (come strategie di espansione, vantaggi commerciali, necessità operative);
  • dimostrare la realtà e la solidità dell’insediamento estero, anche attraverso documenti che attestino attività svolte, investimenti, rapporti di lavoro, strutture operative.

Sul punto, occorre evidenziare che la giurisprudenza unionale e nazionale ha in più occasioni chiarito che il solo risparmio fiscale non è sufficiente a giustificare un’operazione, se non è accompagnato da reali esigenze economiche o gestionali. Tuttavia, il contribuente non è obbligato a scegliere l’alternativa più svantaggiosa fiscalmente: egli può legittimamente optare per la soluzione che consenta una minore tassazione, purché quest’ultima sia supportata da una sostanza economica effettiva.

Inoltre, si evidenzia che, nell’ipotesi di esterovestizione societaria, il riparto dell’onere probatorio deve tenere conto della novità introdotta nell’art. 7, comma 5-bis, D. Lgs. n. 546/1992, applicabile (anche) ai giudizi in corso al 16 settembre 2022.

L’accertamento dell’esterovestizione societaria, dunque, non può prescindere da un rigoroso equilibrio probatorio, fondato sulla verifica della sostanza economica delle operazioni.

LA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. TRIBUTARIA, N. 23707/2025

La Corte di Cassazione, Sez. Tributaria, con la recente sentenza n. 23707 del 22 agosto 2025, è tornata nuovamente sul tema dell’esterovestizione societaria, fornendo importanti chiarimento in merito al principio di libertà di stabilimento e ai parametri per individuare le costruzioni di puro artificio.

Come si vedrà meglio nel prosieguo, la pronuncia in commento si inserisce nel solco della giurisprudenza unionale e nazionale più recente, contribuendo a delineare con maggiore precisione il confine tra legittime scelte di localizzazione societaria e comportamenti elusivi o abusivi, suscettibili di contestazione da parte dell’Amministrazione finanziaria.

 

LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA

Il percorso argomentativo seguito dalla Corte di Cassazione prende avvio dalla definizione di esterovestizione, la quale indica:

<<(…) la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all'estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, allo scopo, ovviamente, di sottrarsi al più gravoso regime nazionale.>>.

Tale definizione è stata più volte riaffermata in numerose pronunce di legittimità (cfr. Cass. n. 1544/2023; Cass. n. 15424/2021; Cass. 6467/2021; Cass. n. 16697/2019; Cass. n. 33234/2018; Cass. n. 2896/2013), ove è stato chiarito che l’esterovestizione implica un mero trasferimento apparente di sede, fondato su operazioni meramente artificiose e prive di sostanza economica effettiva.

La Corte di Cassazione ha poi richiamato i principi unionali in tema di libertà di stabilimento, previsto dall’art. 49 TFUE, il quale garantisce ai cittadini dell’Unione Europea non solo l’accesso e l’esercizio delle attività economiche non subordinate, ma anche la possibilità di costituire e gestire imprese alle medesime condizioni riconosciute ai cittadini dello Stato membro ospitante.

In altri termini, come si legge nella sentenza de qua:

<<(…) l'obiettivo della libertà di stabilimento è quello di permettere ad un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le sue attività e di partecipare così, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio>>.

Tale diritto si estende, conformemente all’art. 54 TFUE, anche alle società regolarmente costituite secondo le leggi di uno Stato membro e che abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o la sede principale all’interno dell’Unione, le quali hanno il diritto di svolgere le loro attività nello Stato membro tramite filiali, succursali o agenzie.

In particolare, in tema di libertà di stabilimento, i giudici di legittimità hanno citato la sentenza del 12/09/2006, causa C-196/04 (Cadbury Schweppes), ove la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha enunciato i seguenti principi:

  • la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà;
  • una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa <<se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato>>;
  • la nozione di stabilimento implica l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercé l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro, sicché essa presuppone <<un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l'esercizio quivi di un'attività economica reale>>;
  • una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere <<lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale>>.

Come si legge nella sentenza in commento, i suesposti principi sono stati ulteriormente ribaditi con la sentenza del 28/06/2007, causa C-73/06 (Planzer Luxembourg Sàrl), relativa all’interpretazione dell’ottava e tredicesima direttiva in materia di IVA (direttive  del Consiglio n. 79/1072/CEE e n. 86/560/CEE), ove la Corte di Giustizia ha affermato i seguenti principi:

  • è contrario al diritto dell’Unione un uso fraudolento o abusivo delle norme comunitarie, come nel caso in cui un soggetto passivo chieda un rimborso IVA facendo riferimento a un indirizzo che non corrisponde ad alcuna realtà economica effettiva.

In particolare, un simile abuso si configura quando l’indirizzo dell’impresa non corrisponde <<né alla sede dell'attività economica del soggetto... né ad un centro di attività stabile dal quale quest'ultimo svolge le sue operazioni>>;

  • la nozione di “sede dell’attività economica”, ai sensi dell’art. 1, punto 1, della tredicesima direttiva n. 86/560/CEE, indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale;
  • la determinazione del luogo della sede dell’attività economica di una società richiede un’analisi complessiva di vari elementi fattuali, tra cui:
  • la sede statutaria;
  • il luogo dell’amministrazione centrale;
  • il luogo di riunione dei dirigenti e di definizione della politica aziendale;
  • il domicilio dei dirigenti principali;
  • la sede delle assemblee generali;
  • il luogo di conservazione dei documenti contabili e di svolgimento delle principali operazioni finanziarie;
  • un insediamento fittizio, come quello caratterizzante una società “casella postale” o “schermo”, non può qualificarsi come sede di un’attività economica.

Alla luce dei suddetti principi, la Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha precisato che l’accertamento dell’esterovestizione societaria deve focalizzarsi non tanto sulla presenza di motivazioni economiche diverse dalla mera convenienza fiscale, quanto piuttosto sulla realtà effettiva del trasferimento all’estero.

In altri termini, i giudici di legittimità hanno chiarito che l’attenzione deve essere rivolta alla verifica della concreta esistenza di un’operazione economica genuina e non meramente formale o simulata.

Ed invero, come precisato dalla Suprema Corte, non si tratta di valutare la presenza di ragioni economiche diverse dal risparmio fiscale, ma di verificare se l’operazione abbia natura meramente artificiosa, cioè se consista nella creazione di una forma giuridica priva di una corrispondente e genuina realtà economica.

Solo in presenza di una “wholly artificial arrangement”, ossia di un’operazione priva di effettività economica, finalizzata esclusivamente a conseguire un vantaggio fiscale, si può parlare di abuso del diritto e giustificare restrizioni alla libertà di stabilimento.

Sul punto, nella sentenza de qua così si legge:

<<Quel che rileva "non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, se, cioè, l'operazione sia meramente artificiosa (wholly artificial arrangement), consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica" (Cass. n. 2869 del 2013)>>.

I giudici di legittimità hanno ribadito che, per contrastare fenomeni di elusione fiscale, è necessario accertare se ci si trovi di fronte a costruzioni giuridiche puramente artificiose, prive di effettività economica, poste in essere con il solo scopo di conseguire un vantaggio fiscale.

In altri termini, come chiarito con la sentenza in commento, l’indagine sull’eventuale abuso del diritto deve concentrarsi:

  • sulla verifica della fittizietà e artificiosità della struttura societaria;
  • nonché sull’assenza di una reale effettività economica dell’operazione posta in essere.

Ebbene, come chiarito dalla Suprema Corte, tale impostazione risulta pienamente coerente con la giurisprudenza unionale, secondo la quale:

<<(…) quando può scegliere tra due operazioni, il contribuente non è obbligato a preferire quella che implica il pagamento di maggiori imposte, ma, al contrario, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale (…)>>.

 

Tuttavia, questo diritto incontra un limite preciso qualora l’operazione abbia come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale contrario agli scopi perseguiti dalla normativa e risulti, sulla base di un insieme di elementi oggettivi, che lo scopo essenziale dell’operazione si limiti proprio all’ottenimento di tale vantaggio fiscale. In tali ipotesi, ha chiarito la Corte di Cassazione, è necessario procedere a una valutazione concreta della singola operazione, secondo un approccio sostanzialistico.

Ciò chiarito, i giudici di legittimità si sono poi soffermati sulla normativa interna, richiamando l’art. 73, comma 3, del TUIR, il quale stabilisce si considerano residenti in Italia le società e gli enti che, per la maggior parte del periodo d’imposta, abbiano nel territorio dello Stato:

  • la sede legale;
  • la sede dell’amministrazione;
  • o l’oggetto principale.

Nella sentenza de qua è evidenziato che tali criteri hanno natura alternativa e paritetica e che particolare rilievo assume il criterio della “sede dell’amministrazione”.

Nello specifico, i giudici di legittimità hanno precisato che la nozione di “sede dell’amministrazione”, contrapposta alla “sede legale”, coincide con la nozione civilistica di “sede effettiva” e deve essere intesa come il luogo in cui si svolgono concretamente le attività amministrative e di direzione dell’ente.

La determinazione della residenza fiscale, quindi, presuppone un accertamento incentrato sulla sostanza e non sulla mera forma giuridica, in linea con l’orientamento volto a contrastare la fittizia localizzazione all’estero della sede dell’amministrazione per finalità elusive.

Sul punto, nella pronuncia in commento così si legge:

<< Questa Corte, a proposito dell'interpretazione del relativo concetto, ha già avuto modo di precisare che "la nozione di "sede dell'amministrazione", in quanto contrapposta alla "sede legale", deve ritenersi coincidente con quella di "sede effettiva" (di matrice civilistica), intesa come il luogo dove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l'accentramento - nei rapporti interni e con i terzi - degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell'impulso dell'attività dell'ente" (Cass. n. 7037 del 2004, Cass. n. 6021 del 2009, Cass. n. 2813 del 2014; Cass. n. 33234 del 2018; Cass. n. 15424 del 2021).>>.

I giudici di legittimità si sono, inoltre, soffermati sulla disciplina convenzionale applicabile nei casi di doppia residenza fiscale, richiamando la c.d. tie-breaker rule prevista dall’art. 4, paragrafo 3, della Convenzione tra Italia e Portogallo contro le doppie imposizioni.

Nello specifico, tale disposizione prevede che:

<< Quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica è residente di entrambi gli Stati contraenti, si ritiene che essa è residente dello Stato in cui si trova la sede della sua direzione effettiva>>.

Ebbene, secondo quanto osservato nella sentenza in commento, il riferimento alla “direzione” richiama l’attività gestionale e decisionale della società, mentre l’aggettivo “effettiva” evidenzia l’esigenza di accertare la realtà sostanziale e operativa, andando oltre la mera forma giuridica.

In tale prospettiva, la Corte di Cassazione ha sottolineato che, per determinare la sede di direzione effettiva, non è sufficiente considerare il luogo in cui si svolge la prevalente attività direttiva e amministrativa, ma occorre tenere conto anche del luogo in cui viene esercitata l’attività economica principale.

Alla luce delle suesposte considerazioni, i giudici di legittimità hanno chiarito che, nel caso di specie, la società di diritto portoghese (difesa dallo Studio Tributario Villani) non può ritenersi una costruzione artificiosa priva di effettività economica, bensì presenta le caratteristiche di un insediamento effettivo, stabilmente radicato nel contesto territoriale portoghese.

Nel confermare l’accertamento operato dai giudici di merito, la Corte di Cassazione ha dato rilievo a una pluralità di elementi sostanziali emersi in giudizio:

  • l’operatività effettiva della sede sociale in Madeira (Portogallo);
  • la presenza di personale dipendente (in larga parte non italiano);
  • l’utilizzo di rimorchiatori di bandiera portoghese;
  • lo svolgimento in loco delle riunioni societarie;
  • l’esercizio dell’attività economica in acque internazionali;
  • la produzione e la tassazione del reddito nello Stato ospitante.

Nello specifico, i giudici di legittimità hanno sottolineato che, ai fini della corretta individuazione della “sede effettiva” di una società, è necessario valorizzare in via prioritaria i dati sostanziali rispetto a quelli meramente formali. In tal senso, è stato ribadito che l’effettivo svolgimento dell’attività economica in un determinato contesto territoriale – nel caso di specie, il territorio portoghese – costituisce elemento determinante per l’attribuzione della residenza fiscale della società.

La Suprema Corte ha, quindi, confermato che:

  • l’organizzazione produttiva della società contribuente;
  • la gestione dei mezzi tecnici e umani;
  • la formazione del personale;
  • la retribuzione e la tassazione del Presidente del Consiglio di Amministrazione (che avveniva in Portogallo, tramite istituto di credito locale);

dimostrano l’esistenza di un insediamento reale e non fittizio.

Pertanto, i giudici di legittimità hanno chiarito che il mero riferimento alla presenza di rapporti contrattuali con soggetti italiani non è, di per sé, sufficiente a sovvertire questa ricostruzione.

La Corte di Cassazione ha, dunque, rilevato come la tesi dell’Ufficio risulti carente sotto il profilo logico-giuridico, in quanto fondata su una lettura parziale e frammentaria dei fatti di causa.

In altri termini, i giudici di legittimità hanno censurato l’approccio “atomistico” dell’Amministrazione finanziaria, la quale – nel tentativo di sostenere la tesi dell’esterovestizione della società contribuente– ha omesso di confrontarsi con il quadro complessivo della vicenda, trascurando gli elementi centrali richiesti dalla giurisprudenza unionale per accertare l’effettiva localizzazione della sede di direzione di una società.

In particolare, è stato osservato che l’Ufficio non ha adeguatamente contestato l’esistenza in Portogallo di un “insediamento effettivo” e di un’attività economica reale.

Al contrario, secondo i giudici di legittimità, l’attenzione dell’Amministrazione si è concentrata sulle figure dei due fratelli italiani, ritenuti amministratori di fatto della società, e sul presunto vincolo fiduciario tra costoro e il Presidente del CdA, nel tentativo di dimostrare una gestione occulta dall’Italia.

Tuttavia, la Corte di Cassazione ha escluso che tale impostazione, fondata su mere presunzioni e su una lettura unilaterale dei rapporti contrattuali, possa valere a scardinare la prova dell’effettività dell’insediamento portoghese.

Infine, i giudici di legittimità hanno affrontato la questione del rapporto tra localizzazione della sede sociale in uno Stato membro e possibili abusi del diritto, richiamando in modo sistematico la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

In particolare, è stato ribadito che, anche laddove si riconoscesse la presenza di amministratori di fatto operanti dall’Italia, tale circostanza non sarebbe, di per sé, sufficiente a qualificare come fittizia una sede legale estera.

La Suprema Corte ha, infatti, chiarito che il criterio della sede da cui partono gli impulsi gestionali non è sufficiente per configurare un abuso, se non accompagnato dalla prova che la società estera sia una “struttura non effettiva”.

I giudici di legittimità hanno, altresì, affermato che la scelta di localizzare la sede in uno Stato membro per beneficiare di una normativa più favorevole non costituisce di per sé un abuso, in quanto rientra nel legittimo esercizio della libertà di stabilimento.

Sul punto, nella sentenza in commento così si legge:

<<Anche a voler ammettere il loro ruolo di amministratori di fatto, l'individuazione del luogo da cui partono gli impulsi gestionali e di direzione, come già osservato, non è criterio sufficiente per dimostrare l'esterovestizione della società con sede in altro Stato membro dovendosi comunque dimostrare che quest'ultima è una "struttura non effettiva", né il fatto di stabilire la sede, legale o effettiva, di una società in conformità alla legislazione di uno Stato membro al fine di beneficiare di una legislazione più vantaggiosa costituisce di per sé un abuso (v., in tal senso, Corte giust., 9 marzo 1999, Centros, C-212/97, punto 27, Corte giust., 25 ottobre 2017, Polbud - Wykonawstwo, C-106/16, punto 40; Corte giust., 25 aprile 2024, Edil Work 2, C- 276/22, punto 47). Ed anche a voler affermare la natura gestoria (e non di servizio contrattuale) dell'attività svolta in Italia attraverso le due società di servizi, va considerato che, sempre secondo la giurisprudenza unionale, "...la mera circostanza che una società, pur avendo la propria sede in uno Stato membro, svolga la parte principale delle sue attività in un altro Stato membro non può fondare una presunzione generale di frode, né giustificare una misura che pregiudichi l'esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato.>>.

Alla luce di tali considerazioni, i giudici di legittimità hanno ritenuto infondata la tesi dell’Amministrazione, accogliendo le argomentazioni difensive sviluppate dallo Studio Tributario Villani e ribadendo l’obbligo di valutare caso per caso la sussistenza effettiva dell’attività economica nello Stato di insediamento, senza cedere a presunzioni generalizzate di frode.

 

I PRINCIPI DI DIRITTO ENUNCIATI DALLA CORTE DI CASSAZIONE

Alla luce delle suesposte considerazioni, la Corte di Cassazione, Sez. tributaria, con la sentenza n. 23707 del 22 agosto 2025, ha enunciato i seguenti principi di diritto:

<<Tirando, quindi, le fila di tali premesse, deve rilevarsi, conformemente all'orientamento di questa Corte (tra le ultime, Cass. n. 1544 del 2023; Cass. n. 15424 del 2021; Cass. n. 16697 del 2019), che ai sensi dell'art. 73, terzo comma, D.P.R. n. 917 del 1986, la nozione di "sede dell'amministrazione", contrapposta alla "sede legale", coincide con quella di "sede effettiva" (di matrice civilistica), intesa come luogo di concreto svolgimento delle attività amministrative e di direzione dell'ente e dove si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l'accentramento - nei rapporti interni e con i terzi - degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell'impulso dell'attività dell'ente. Resta fermo che tale valutazione, nel singolo caso concreto, proprio perché finalizzata all'accertamento di un dato "effettivo", non può non tenere conto anche di quei rilevanti fattori sostanziali (tra i quali, in ipotesi, lo svolgimento dell'attività principale) che, a fronte di dati formali relativi alla collocazione geografica del luogo dove si svolga l'attività amministrativa e di direzione, depongano invece per l'effettiva riconduzione di quest'ultima ad un diverso contesto territoriale. In particolare, la necessità della verifica, nel caso concreto, di un complesso di dati sostanziali è emersa, in sede penale, a proposito della società' con sede legale estera controllate da società con sede in Italia, quando si è affermato che non può' costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della "direzione effettiva" l'individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative, qualora esso s'identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società' controllante italiana, precisando che in tal caso è necessario accertare anche che la società' controllata estera non sia costruzione di puro artificio, ma corrisponda a un'entità' reale che svolge effettivamente la propria attività' in conformità' al proprio atto costitutivo o allo statuto (Cass. pen., 24/10/2014, n. 43809, richiamata da Cass. n. 33234 del 2018, in motivazione), non essendo le società' esterovestite, perciò soltanto, prive della loro autonomia giuridico-patrimoniale e, quindi, automaticamente qualificabili come schermi (Cass. pen. 07/11/2018, n. 50151, richiamata da Cass. n. 33234 del 2018) "Nella sostanza, ai fini di accertare se abbia, o meno, residenza fiscale in Italia la società estera controllata da società italiana, il concetto di "sede dell'amministrazione" non può coincidere "sic et simpliciter" con l'attività di direzione e coordinamento che la capogruppo, o comunque la controllante, esercita sulla controllata, adoperando quella prerogativa tipica del controllo societario di cui all'art. 2359 cod. civ., che si realizza attraverso atti d'indirizzo strategico ed operativo che connotano lo stato di dipendenza degli interessi della consociata a vantaggio del gruppo nella sua globalità o della controllante. Lo spostamento effettivo, presso la controllante, della sede dell'amministrazione della consociata presuppone invece, un grado di eterodirezione concreta superiore, integrando una fattispecie in cui , come si è detto in dottrina, "la società controllante assume i connotati di un vero e proprio amministratore indiretto della società controllata", della quale usurpa l'impulso imprenditoriale, sottraendole ogni prerogativa sovrana in ordine alla propri operatività e riducendola a "mero satellite o dipendenza" (ovvero a struttura non effettiva, rispetto alla quale pertanto neppure opererebbe, per quanto già rilevato, la protezione accordata dal diritto comunitario alla libertà di stabilimento)" (Cass. n. 1544 del 2023).>>.

È evidente, dunque, che, con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha inteso fornire una ricostruzione sistematica del concetto di “sede dell’amministrazione”, funzionale all’individuazione della residenza fiscale delle società.

In particolare, i giudici di legittimità hanno chiarito che la “sede dell’amministrazione” coincide con la “sede effettiva” dell’ente, da intendersi quale luogo in cui si svolgono concretamente le attività amministrative e direttive e dove si accentra la gestione societaria, sia nei rapporti interni che in quelli con i terzi.

Ne consegue che l’individuazione della residenza fiscale non può prescindere da un accertamento di natura sostanziale, basato su una pluralità di elementi fattuali, quali lo svolgimento dell’attività economica, l’organizzazione dei fattori produttivi e il coordinamento gestionale.

Si tratta, dunque, di una valutazione che non può essere ricondotta meccanicamente a parametri formali, ma che esige una ricostruzione concreta e approfondita della vita societaria.

Pertanto, una società  può essere qualificata come residente fiscalmente in Italia solo in presenza di elementi oggettivi che ne dimostrino l’effettiva eterodirezione da parte di un soggetto italiano.

In questo contesto, i giudici di legittimità hanno precisato che, nelle ipotesi in cui una società estera sia controllata da una società italiana, non è sufficiente dimostrare che le direttive gestionali partano dalla controllante.

È necessario, piuttosto, dimostrare che l’attività di direzione della controllante italiana si spinga fino ad un grado di eterodirezione tale da configurare la società estera come una mera proiezione, priva di autonomia decisionale e operativa e incapace di esercitare un’attività economica reale.

In altri termini, i giudici di legittimità hanno chiarito che è solo nei casi in cui si accerti un effettivo svuotamento della capacità gestionale della controllata, tale da renderla un mero “satellite” della capogruppo, che si può ritenere integrata la fattispecie dell’esterovestizione, con conseguente attrazione della residenza fiscale in Italia.

In conclusione, è evidente che la sentenza in commento assume rilievo significativo, in quanto contribuisce a chiarire i criteri per l’individuazione della “sede dell’amministrazione” e, conseguentemente, della residenza fiscale delle società con sede all’estero.

 

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Tirando le fila del discorso e volendo schematizzare quanto sin qui argomentato, la Corte di Cassazione, Sez. Tributaria, con la recente sentenza della n. 23707 del 22 agosto 2025, ha fornito una chiara ricostruzione dei criteri giuridici per la determinazione della residenza fiscale delle società, con particolare riferimento alle ipotesi di esterovestizione.

In particolare, i giudici di legittimità, ponendosi in perfetta continuità con la giurisprudenza nazionale nonché con le disposizioni del diritto interno e convenzionale, hanno ribadito che:

  • la “sede dell’amministrazione”, ai sensi dell’art. 73, comma 3, del TUIR, coincide con la “sede effettiva” della società, intesa come luogo in cui si svolgono concretamente le attività amministrative, direttive e gestionali dell’ente, sia nei rapporti interni che esterni;
  • l’individuazione della residenza fiscale richiede un accertamento di natura sostanziale, che tenga conto di una pluralità di elementi fattuali, quali lo svolgimento di un’attività economica reale, l’organizzazione dei fattori produttivi, la struttura operativa e il grado di autonomia decisionale della società estera;
  • nelle ipotesi di società controllate da soggetti italiani, non è sufficiente dimostrare che le direttive gestionali provengano dalla capogruppo, ma è necessario accertare un effettivo svuotamento della capacità gestionale della controllata, tale da configurarla come un mero “satellite” della controllante. In altri termini, la configurabilità della fattispecie dell’esterovestizione richiede la prova di un livello di eterodirezione sostanziale, che escluda l’esistenza di una struttura operativa autonoma e riveli la natura artificiosa dell’insediamento estero;
  • la scelta di stabilire una sede legale in uno Stato membro con regime fiscale più favorevole non costituisce di per sé una condotta abusiva. È richiesto, al contrario, che sussista una “costruzione artificiosa”, priva di sostanza economica e finalizzata esclusivamente a eludere la normativa fiscale dello Stato di origine;
  • in coerenza con i principi del diritto unionale, l’Amministrazione finanziaria non può fare ricorso a presunzioni generalizzate di abuso, dovendo invece procedere a un’analisi concreta e caso per caso, nel rispetto della libertà di stabilimento sancita dal TFUE.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha accolto le argomentazioni difensive dello Studio Tributario Villani, ritenendo che la società contribuente disponesse in Portogallo di un insediamento effettivo, supportato da una struttura organizzativa autonoma, risorse umane proprie, svolgimento di un’attività economica reale e regolare assoggettamento a tassazione nello Stato di stabilimento.

Di conseguenza, i giudici di legittimità hanno ritenuto infondata la pretesa erariale fondata su presunzioni e letture parziali, censurando l’approccio atomistico adottato dall’Amministrazione finanziaria.

In definitiva, la pronuncia in esame si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale consolidato, che valorizza il principio di effettività nella determinazione della residenza fiscale, tutelando al contempo il legittimo esercizio della libertà di stabilimento da parte delle imprese europee.

Essa contribuisce, altresì, a definire un criterio interpretativo rigoroso ed equilibrato, idoneo a distinguere tra legittima pianificazione fiscale e condotte elusive, rafforzando così la certezza del diritto e la tutela del contribuente.