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Società estere e responsabilità degli enti

Cassazione Penale Sezione VI, 11626/2020
società estere
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Abstract: la Cassazione penale ha chiarito che anche le società estere, se operano in Italia, sono soggette alle prescrizioni e alla responsabilità previste dal decreto legislativo 231/2001.

 

Indice:

Premessa

1. Motivi del ricorso

2. Decisione della Corte di Cassazione

3. Un panorama più esteso

4. La singolarità del riferimento contenuto nel principio di diritto

 

Premessa

Una società con sede nei Paesi Bassi è stata rinviata a giudizio per l’illecito amministrativo  configurato dagli articoli 5 e 25 del Decreto legislativo 231/2001, collegato al reato di concorso in corruzione in atti giudiziari contestato tra gli altri anche al rappresentante legale della società medesima.

Nel giudizio di primo grado, concluso a parecchi anni di distanza dai fatti, è stato dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati, poiché estinto per prescrizione il reato loro contestato. La società è stata ritenuta invece responsabile.

Il verdetto, fatta eccezione per riforme marginali qui non rilevanti, è stato confermato nel giudizio di appello.

Il difensore della società ha fatto ricorso per cassazione.

 

1. Motivi del ricorso

La difesa ha denunciato tra l’altro la violazione degli articoli 20 del codice di procedura penale e 5 e 25 del Decreto 231, eccependo il difetto di giurisdizione del giudice italiano.

Ha osservato a tal proposito che, essendo stata contestata alla società una “colpa di organizzazione” e venendo comunque in rilievo una responsabilità di natura amministrativa, la giurisdizione spetta non allo Stato in cui è stata tenuta la condotta contestata ma a quello in cui ha sede il centro decisionale societario.

 

2. Decisione della Corte di Cassazione

Il collegio di legittimità ha dichiarato manifestamente infondato il motivo di ricorso sulla base di plurime ragioni.

Ha anzitutto osservato (punto 6.1 della motivazione) che l’articolo 1, comma 2, del Decreto 231 non fa alcuna distinzione applicativa tra enti con sede in Italia e enti con sede all’estero.

Ha aggiunto (punto 6.2) che la responsabilità degli enti, sebbene autonoma, deriva comunque dal reato presupposto ed è rispetto a questo che si radica la giurisdizione, diventando perciò ininfluente che la colpa di organizzazione e la predisposizione di modelli inadeguati si siano verificate all’estero.

Tanto ciò è vero che la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi spetta allo stesso giudice competente per il reato cui essi sono collegati (articolo 36 del Decreto 231), sulla scorta di una chiara preferenza legislativa per il giudizio simultaneo (articolo 38 del Decreto 231).

Il collegio ha individuato un’ulteriore conferma della tesi seguita (punto 6.3) nel regime adottato dall’articolo 4 del Decreto 231 che, disciplinando la situazione opposta (reato commesso all’estero nell’interesse o a vantaggio di un ente con sede in Italia), consente sì la giurisdizione italiana ma solo a condizione che non proceda lo Stato nel cui territorio il fatto è stato compiuto.

Ed ancora – ha osservato la Corte (punto 6.4) – non si vede per quale ragione la nazionalità dovrebbe avere rilevanza per gli illeciti compiuti dalle persone giuridiche mentre non ne ha per quelli compiuti dalle persone fisiche in virtù dei principi di obbligatorietà e territorialità della legge penale sanciti dagli articoli 3 e 6, comma 1, del codice penale e nella stessa direzione si pone il comma 2 del medesimo articolo 6 che assegna alla giurisdizione italiana i reati commessi nel territorio nazionale anche quando si sia ivi verificato solo un segmento della condotta o solo l’evento che ne costituisce la conseguenza.

Sicché – ha affermato (punto 6.5) – l’accoglimento della tesi prospettata nell’interesse della ricorrente violerebbe il principio dell’eguaglianza formale (articolo 3, comma 1, della Costituzione) poiché indurrebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra le persone fisiche straniere e le persone giuridiche straniere.

La conclusione è stata inevitabile (punto 6.6): “Deve, pertanto, ritenersi che l'ente risponda, al pari di "chiunque" - cioè di una qualunque persona fisica -, degli effetti della propria "condotta", a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove si trova la sua sede principale o esplica in via preminente la propria operatività, qualora il reato-presupposto sia stato commesso sul territorio nazionale (o debba comunque ritenersi commesso in Italia o si versi in talune delle ipotesi nelle quali sussiste la giurisdizione nazionale anche in caso di reato commesso all'estero), all'ovvia condizione che siano integrati gli ulteriori criteri di imputazione della responsabilità ex artt. 5 e seguenti d.lgs. n. 231/2001. Per tale ragione è del tutto irrilevante la circostanza che il centro decisionale dell'ente si trovi all'estero e che la lacuna organizzativa si sia realizzata al di fuori dei confini nazionali, così come, ai fini della giurisdizione dell'A.G. italiana, è del tutto indifferente la circostanza che un reato sia commesso da un cittadino straniero residente all'estero o che la programmazione del delitto sia avvenuta oltre confine”.

Enunciata la soluzione ritenuta congrua, il collegio si è chiesto (punto 6.7) se, in ipotesi, essa possa tradursi in un trattamento discriminatorio tra soggetti comunitari e contrasti con la libertà di stabilimento garantita dagli articoli 49 e seguenti del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

La decisione ha escluso in modo convinto questa eventualità, sia richiamando i principi di obbligatorietà e territorialità della legge penale, sia osservando che, al contrario, proprio l’esonero dalla responsabilità amministrativa degli enti esteri violerebbe il principio della libera concorrenza a danno degli enti nazionali: mentre infatti questi ultimi sono obbligati a sostenere i costi connessi all’ideazione, realizzazione e miglioramento di modelli organizzativi coerenti alle prescrizioni del Decreto 231, i primi potrebbero operare nel nostro Paese senza essere soggetti a quegli stessi costi.

L’assenza di conflitti tra la visione interpretativa prescelta e l’ordinamento eurounitario è poi rimarcata da un’ulteriore considerazione (punto 6.8): l’articolo 97-bis, comma 5, Decreto legislativo 385/1993 (emesso in attuazione della Direttiva 2001/24/CE) ha esteso la responsabilità per l'illecito amministrativo dipendente da reato "alle succursali italiane di banche comunitarie o extracomunitarie", privilegiando quindi l'aspetto dell'operatività sul territorio nazionale a discapito di quello della nazionalità o del luogo della sede legale e/o amministrativa principale dell'ente.

Il collegio ha considerato infine (punto 6.9) ininfluente e inidoneo a mutare la prospettiva tracciata l’articolo 25 della Legge 218/1995 (cioè la fonte che disciplina in modo sistematico il sistema nazionale del cosiddetto diritto internazionale privato.

È vero infatti che il citato articolo associa a società, associazioni, fondazioni ed ogni altro ente, pubblico o privato, anche se privo di natura associativa, il criterio di collegamento della legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione e della legge italiana se la sede dell'amministrazione è situata in Italia ovvero se in Italia si trova l'oggetto principale di tali enti.

Nell’opinione della Corte, tuttavia, questa disposizione esaurisce i suoi effetti nell’ambito propriamente civilistico e non esonera le persone giuridiche che operano nel territorio dello Stato, anche se straniere, dall’osservanza della legge penale italiana.

Segue, a conclusione, il principio di diritto propriamente detto (punto 6.10): “la persona giuridica è chiamata a rispondere dell'illecito amministrativo derivante da un reato-presupposto per il quale sussista la giurisdizione nazionale commesso dai propri legali rappresentanti o soggetti sottoposti all'altrui direzione o vigilanza, in quanto l'ente è soggetto all'obbligo di osservare la legge italiana e, in particolare, quella penale, a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove esso abbia la propria sede legale ed indipendentemente dall'esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che disciplino in modo analogo la medesima materia anche con riguardo alla predisposizione e all'efficace attuazione di modelli di organizzazione e di gestione atti ad impedire la commissione di reati fonte di responsabilità amministrativa dell'ente stesso. Deve, pertanto, essere recepito l'analogo principio di diritto di recente affermato dalla giurisprudenza di merito là dove ha ritenuto applicabile la disciplina del decreto n. 231 ad una società straniera priva di sede in Italia, ma operante sul territorio nazionale, in relazione ai delitti di omicidio e lesioni personali colposi (nel noto caso dell'incidente ferroviario di Viareggio) (v. Trib. Lucca, sentenza 31/07/2017, n. 222)”.

 

3. Un panorama più esteso

La decisione della Suprema Corte ha l’indiscutibile pregio di offrire una risposta chiara e puntualmente argomentata al quesito posto dalla società ricorrente.

È bene tuttavia ricordare che sullo stesso tema si agita un dibattito di marca prettamente dottrinaria in cui sono rappresentate opinioni assai diverse da quella privilegiata dal giudice di legittimità.

In estrema sintesi, sul punto si contrappongono due tesi: “La soluzione del quesito se possa o meno riconoscersi l’applicabilità del decreto n. 231 all’ente con sede principale all’estero per fatti di reato realizzati in Italia dipende in toto dal modo di intendere il rapporto giuridico che intercorre tra il reato-presupposto commesso dalla persona fisica nell’interesse o in vantaggio dell’ente e l’illecito della persona giuridica. La questione controversa in dottrina può essere così sintetizzata: la tesi c.d. minimalista, secondo cui l’illecito dal quale scaturisce la responsabilità dell’ente ed il reato-presupposto formino un tutto inscindibile, “come se” si trattasse di una fattispecie “a concorso necessario” di parte generale, determinando il locus commissi delicti della persona giuridica di riflesso (ed in dipendenza) a quello del reato posto in essere dalla persona fisica; la tesi c.d. massimalista, secondo cui lo spirito che anima il decreto n. 231 sia quello di considerare l’illecito “amministrativo” avente una natura composita e la condotta individuale come mero presupposto per muovere un rimprovero all’ente, la responsabilità del quale si fonderebbe su una fattispecie oggettiva e su un criterio di imputazione soggettiva (“colpa per l’organizzazione”) autonomi rispetto al reato-presupposto, sicché la giurisdizione si radicherà nel luogo ove ha sede il suo centro decisionale e si sostanzia la “lacuna organizzativa”. [1]

Risulta a questo punto evidente che il collegio della sesta sezione penale si è riconosciuto nella cosiddetta tesi minimalista la quale, del resto, domina il panorama giurisprudenziale.

Sono numerose infatti e costanti nel tempo le pronunce, in massima parte riconducibili ad autorità giudiziarie milanesi, che hanno attribuito rilievo prioritario al collegamento tra il reato presupposto e l’illecito dell’ente e ne hanno desunto la spettanza della giurisdizione al giudice del territorio ove si è verificato il fatto – reato.

Si coglie, pur nella differenziazione dei temi e delle argomentazioni, un comune denominatore rappresentato dal regime congegnato dall’articolo 36, comma 1, del Decreto 231: “In base al disposto dell'articolo 36, comma 1, il criterio che radica la competenza a decidere sulla responsabilità amministrativa dell'ente è quello del luogo di commissione del reato presupposto, non quello della commissione dell'illecito amministrativo, né quello della sede dell'ente. Le disposizioni di cui al D. Lgs 231/2001 sono applicabili anche nei confronti delle persone giuridiche aventi sede all'estero, qualora presupposto dell'illecito amministrativo sia un reato commesso in Italia. L'articolo 4 costituisce una deroga al suddetto principio. Infatti consente di procedere anche per i reati commessi all'estero, ma solo nei confronti degli enti aventi la sede principale in Italia” (così, tra le altre decisioni, GIP del Tribunale di Milano, 23 aprile 2009).

Considerazioni analoghe, del resto, si trovano nella relazione ministeriale di accompagnamento al Decreto 231 in cui si legge che “Il sistema processuale per l'accertamento degli illeciti amministrativi degli enti esordisce con una disposizione, quella dell'articolo 36, in cui si stabilisce che il giudice penale competente a conoscere gli illeciti dell'ente è quello competente per i reati a cui accede l'illecito amministrativo. Poiché quest'ultimo, come fattispecie complessa, presuppone l'esistenza di un fatto- reato, la scelta operata dal Governo in punto di competenza si staglia alla stregua di un prevedibile corollario. Ma v'è di più. La norma dell'articolo 38, comma 1, prevede, come regola generale, ispirata ad intuibili ragioni di effettività, di omogeneità e di economia processuale, il simultaneus processus: il processo nei confronti dell'ente dovrà, cioè, rimanere riunito, per quanto possibile, al processo penale che ha ad oggetto il reato presupposto della responsabilità dell'ente”.

La decisione della sesta sezione penale ha quindi un retroterra che viene da lontano e si fonda su una lettura interpretativa che appare in grado di resistere alle obiezioni della tesi contrapposta.

 

4. La singolarità del riferimento contenuto nel principio di diritto

Resta infine un ultimo argomento.

Nella parte finale del principio di diritto il collegio di legittimità ha riconosciuto esplicitamente di averlo recepito dalla giurisprudenza di merito ed ha indicato uno specifico caso giudiziario, il processo che ha riguardato il “noto caso dell’incidente ferroviario di Viareggio”, e una specifica decisione, la sentenza 222/2017 emessa in quel giudizio dal Tribunale di Lucca.

L’incidente, verificatosi nella stazione di Viareggio il 29 giugno 2009, fu provocato dal deragliamento di un treno merci che trasportava cisterne piene di GPL cui seguirono la perforazione di una delle cisterne, la fuoriuscita di gas, un incendio di notevoli dimensioni, l’esplosione della predetta cisterna, il danneggiamento strutturale o il crollo di vari edifici siti nelle zone circostanti e, purtroppo, la morte di 32 persone e il ferimento di altre 25.

È utile ricordare che nel giudizio furono chiamate a difendersi non solo persone fisiche ma anche varie società tra le quali alcune con sede all’estero.

Nella motivazione della sentenza di primo grado (pagg. 976 e seguenti) il Tribunale lucchese, dopo avere riepilogato i termini del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sul tema specifico, ha aderito alla tesi dell’assoggettabilità alle prescrizioni del Decreto legislativo 231 delle società estere che operino (cioè esercitino la loro attività di impresa) nel territorio italiano, a prescindere dalla previsione nel loro ordinamento di istituti normativi assimilabili alla responsabilità degli enti come intesa dal decreto medesimo.

La motivazione richiama a sostegno gli articoli 1, 4, 34 e 36 del Decreto 231 e l’articolo 97-bis del Decreto legislativo 385/1993 in materia di illeciti bancari. Più in generale, l’iter argomentativo è quello poi ripreso e valorizzato dal collegio della sesta sezione penale.

Sciolto questo nodo, il Tribunale di Lucca ha riconosciuto la responsabilità delle società estere e le ha condannate alle sanzioni pecuniarie e interdittive indicate in dispositivo.

Com’era prevedibile, gli imputati e le società hanno appellato la sentenza e il giudizio così instaurato è stato definito dalla Corte di appello di Firenze con la sentenza n. 3733 del 20 giugno 2019.

Le società estere hanno riproposto al giudice di secondo grado le medesime argomentazioni infruttuosamente spese dinanzi al Tribunale.

La Corte fiorentina (pagg. 804 e ss. della motivazione), fatta eccezione per alcuni punti di dettaglio, ha rigettato l’appello sul punto, facendo integralmente proprie le ragioni giustificatrici del giudice di primo grado.

Entro il termine di legge, le parti interessate hanno depositato i loro ricorsi per cassazione la cui trattazione, in base alle previsioni del momento, dovrebbe avvenire entro l’estate.

I tempi del giudizio, sebbene in larga misura giustificati dalla sua complessità tecnica, hanno destato comprensibili preoccupazioni nei familiari delle parti offese che temono gli effetti della prescrizione, già in parte manifestatisi riguardo alle contestazioni di incendio e lesioni gravi e gravissime e che potrebbero estendersi anche alle superstiti fattispecie di disastro ferroviario e omicidio colposo plurimo se la Corte di Cassazione, come richiesto nei ricorsi, escludesse l’aggravante della commissione dei fatti con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.

In questo clima va considerata la menzione del “noto caso” di Viareggio nel punto di diritto.

Come si è visto, il collegio della sesta sezione penale ha riconosciuto l’esattezza dell’interpretazione seguita dai giudici di Lucca ed ha per ciò stesso posto una pesante ipoteca sulla sorte dei motivi di ricorso depositati dalle parti interessate che contestano quella medesima interpretazione e ne propongono una alternativa.

La questione – sia chiaro – non riguarda l’accettabilità della tesi che assoggetta anche le società estere operanti in Italia alle prescrizioni del Decreto 231: l’opinione è convincente ed assai più coerente di quella alternativa ai principi generali del nostro ordinamento.

C’è invece un notevole problema di opportunità: è come se si fosse detto ai ricorrenti di un giudizio ancora da trattare che il loro right to be heard nel giudizio di legittimità è affievolito, addirittura evanescente e che la loro sorte, quantomeno sul punto specifico, è di fatto già segnata.

Pare un infortunio di non poco conto.

 

[1] Il periodo virgolettato è tratto da G. Baffa – F. Cecchini, Limiti spaziali della responsabilità “da reato” degli enti: applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 all’ente “italiano” per reato commesso all’estero e all’ente “straniero” per reato commesso in Italia, Giurisprudenza Penale, 2018, 7-8. Lo scritto contiene una ricca rassegna delle opinioni e delle argomentazioni del dibattito dottrinario e del panorama giurisprudenziale.