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Art. 4 - Reati commessi all’estero

1. Nei casi e alle condizioni previsti dagli articoli 7, 8, 9 e 10 del codice penale, gli enti aventi nel territorio dello Stato la sede principale rispondono anche in relazione ai reati commessi all’estero, purché nei loro confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto.

2. Nei casi in cui la legge prevede che il colpevole sia punito a richiesta del Ministro della giustizia, si procede contro l’ente solo se la richiesta è formulata anche nei confronti di quest’ultimo.

 

Stralcio della relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. 231/2001

Ispirata a comprensibile rigore è la scelta dell’art. 4 dello schema di decreto legislativo, laddove contempla l’ipotesi in cui l’ente che abbia in Italia la sede principale, compia tuttavia reati all’estero.

Si è ritenuto che l’ipotesi, assai diffusa dal punto di vista criminologico, meritasse comunque l’affermazione della sanzionabilità dell’ente, al fine di evitare facili elusioni della normativa interna: e ciò anche al di fuori delle circoscritte ipotesi in cui la responsabilità dell’ente consegua alla commissione di reati per i quali l’art. 7 del codice penale prevede la punibilità incondizionata.

L’opzione è oltretutto conforme al progressivo abbandono, nella legislazione internazionale, del principio di territorialità ed alla correlativa, sempre maggiore affermazione del principio di universalità (prova ne siano gli stessi atti ratificati nella legge 300/2000).

Peraltro, la costante attenzione dell’Italia ai profili di cooperazione internazionale (resi talvolta difficili dalla sovrapposizione delle azioni punitive da parte dei diversi Stati, soprattutto quando, come in Italia, vige il principio di obbligatorietà delle stesse) ha suggerito di apporre uno sbarramento alla perseguibilità dell’illecito commesso dall’ente nei casi in cui nei suoi confronti già proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto.

Analogamente, alla sussistenza di un interesse apprezzabile dello Stato alla punizione ed all’opportunità di bilanciare tale interesse con il rispetto dell’altrui sfera di sovranità in materia punitiva, si ispira il secondo comma dell’art. 4. La norma prevede che, nei casi in cui vi sia stata la richiesta per la persona fisica, per procedersi nei confronti dell’ente, la richiesta del Ministro Guardasigilli debba estendersi anche nei confronti di quest’ultimo.

La previsione garantisce oltretutto che le vicende dei due soggetti si svolgano su binari paralleli, secondo una tendenza cui si ispira complessivamente il sistema normativo e che viene derogata soltanto laddove una diversa soluzione possa pregiudicarne l’effettività.

 

Rassegna di giurisprudenza

Gli accordi raggiunti in Nigeria e negli Stati Uniti d’America per la definizione dei processi penali avviati in tali Stati non precludono la rinnovazione del giudizio in Italia per i medesimi fatti. In relazione a questi Paesi non vige infatti alcun obbligo pattizio che impedisca l’esercizio della giurisdizione italiana.

Tale obbligo non sussiste non solo per il perseguimento degli illeciti previsti dal D. Lgs. 231/2001, ma neppure in relazione ai reati ad essi connessi.

È principio consolidato nella giurisprudenza sia costituzionale che di legittimità (Corte costituzionale, sentenza 58/1997; Sez. 2, 40553/2013) che il ne bis in idem internazionale in materia penale non costituisca principio o consuetudine di diritto internazionale, sicché deve trovare la sua fonte esclusivamente in un obbligo pattizio.

La convenzione Ocse sulla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri e la convenzione ONU contro la corruzione prevedono soltanto meccanismi procedurali volti ad evitare che, in relazione allo stesso fatto, vengano avviati, dinanzi a diverse autorità nazionali, paralleli procedimenti penali.

Tali meccanismi si esauriscono nella consultazione reciproca degli Stati al fine di stabilire quale tra le giurisdizioni concorrenti sia la più «idonea» ad esercitare l’azione penale.

È significativo che l’art. 42, par. 6, della Convenzione ONU, precisi a tal riguardo che «fatte salve le norme di diritto internazionale generale, la presente Convenzione non esclude l’esercizio di ogni competenza penale stabilita da uno Stato Parte conformemente al proprio diritto interno», con ciò ribadendo che, al di là della consultazione, non sussistono ulteriori conseguenze discendenti dalla Convenzione stessa.

Nel ratificare tali convenzioni, in ogni caso, l’Italia non ha ritenuto di introdurre norme volta a precludere in via generale il rinnovamento del giudizio per gli stessi fatti.

Nel D. Lgs. 231/2001 si è soltanto previsto, in relazione alla responsabilità degli enti, di apporre uno sbarramento alla perseguibilità dell’illecito commesso dall’ente nei casi in cui nei suoi confronti già proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto.

Come prevede l’art. 4 del medesimo decreto, tale sbarramento opera in relazione ai soli «reati commessi all’estero». Neppure obblighi del riconoscimento del divieto del bis in idem internazionale discendono dalla CEDU, posto che l’art. 4 del suo Protocollo n. 4 trova esclusiva applicazione nell’ambito delle giurisdizioni nazionali, come risulta dal tenore letterale della disposizione («under the jurisdiction of the same State») e dalle chiare indicazioni contenute nell’Explanatory Report (par. 27) (Sez. 6, 11442/2016).

Sebbene ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana, in relazione a reati commessi in parte all’estero, sia sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, intesa in senso naturalistico, e, quindi, un qualsiasi atto dell’iter criminoso, seppur privo dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, tuttavia tale connotazione non può essere riconosciuta ad un generico proposito, privo di concretezza e specificità, di commettere all’estero fatti delittuosi, anche se poi effettivamente realizzati (Sez. 3, 35165/2017, ripresa adesivamente da Sez. 6, 56953/2017).

L’ente straniero può essere considerato responsabile dei reati commessi in Italia indipendentemente dalla sede della sua organizzazione (Corte di appello di Milano, 1937/2014).

Nel caso di corruzione internazionale (art. 322-bis CP), va esclusa la carenza di giurisdizione del giudice italiano in presenza dell’esecuzione in Italia di parti rilevanti della condotta contestata (Sez. 6, 42701/2010).

In base al disposto dell’art. 36, comma 1, il criterio che radica la competenza a decidere sulla responsabilità amministrativa dell’ente è quello del luogo di commissione del reato presupposto, non quello della commissione dell’illecito amministrativo, né quello della sede dell’ente.

Le disposizioni di cui al D. Lgs 231/2001 sono applicabili anche nei confronti delle persone giuridiche aventi sede all’estero, qualora presupposto dell’illecito amministrativo sia un reato commesso in Italia. L’art. 4 costituisce una deroga al suddetto principio. Infatti consente di procedere anche per i reati commessi all’estero, ma solo nei confronti degli enti aventi la sede principale in Italia (GIP Tribunale di Milano, 23 aprile 2009).

La persona giuridica è chiamata a rispondere dell'illecito amministrativo derivante da un reato-presupposto per il quale sussista la giurisdizione nazionale commesso dai propri legali rappresentanti o soggetti sottoposti all'altrui direzione o vigilanza, in quanto l'ente è soggetto all'obbligo di osservare la legge italiana e, in particolare, quella penale, a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove esso abbia la propria sede legale ed indipendentemente dall'esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che disciplino in modo analogo la medesima materia anche con riguardo alla predisposizione e all'efficace attuazione di modelli di organizzazione e di gestione atti ad impedire la commissione di reati fonte di responsabilità amministrativa dell'ente stesso. Deve, pertanto, essere recepito l'analogo principio di diritto di recente affermato dalla giurisprudenza di merito là dove ha ritenuto applicabile la disciplina del decreto n. 231 ad una società straniera priva di sede in Italia, ma operante sul territorio nazionale, in relazione ai delitti di omicidio e lesioni personali colposi (nel noto caso dell'incidente ferroviario di Viareggio) (v. Trib. Lucca, sentenza 31/07/2017, n. 222) (Sez. 6, 11626/2020).