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Art. 1 - Soggetti

1. Il presente decreto legislativo disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato.

2. Le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica.

3. Non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.

Stralcio della relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. 231/2001

L’art. 1, dopo aver definito genericamente il contenuto del provvedimento, al comma 2, ne individua i soggetti destinatari. Le disposizioni della legge delega su questo punto sono contenute in due differenti sedi: per un verso, l’alinea del comma 1 dell’art. 11 L. 300/2000 stabilisce che il decreto disciplini la responsabilità amministrativa delle “persone giuridiche e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale”; per altro verso, il comma 2 del medesimo articolo dispone che “per persone giuridiche si intendono gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati lo Stato e gli altri enti pubblici che esercitano pubblici poteri”.

Dal combinarsi delle due disposizioni, è parso dunque al delegato di dover circoscrivere l’ambito di responsabilità dell’ente nei termini di seguito illustrati.

Innanzitutto, l’inequivoca volontà della delega di estendere la responsabilità anche a soggetti sprovvisti di personalità giuridica ha suggerito l’uso del termine “ente” piuttosto che “persona giuridica” (il segno linguistico avrebbe dovuto essere dilatato troppo al di là della sua capacità semantica).

Quanto poi agli enti “a soggettività privata” non dotati di personalità giuridica, la scelta ben si comprende da un punto di vista di politica legislativa, dal momento che si tratta dei soggetti che, potendo più agevolmente sottrarsi ai controlli statali, sono a “maggior rischio” di attività illecite ed attorno ai quali appare dunque ingiustificato creare vere e proprie zone di immunità.

D’altro canto, e per la medesima ragione, questa scelta si paleserà, nel confronto con la prassi, non poco impegnativa.

Risultano infatti inclusi soggetti in cui è carente il “diaframma” in termini di autonomia patrimoniale dell’ente (entro il quale, pure, la delega espressamente limita la responsabilità dell’ente, escludendo che essa possa estendersi al patrimonio dei soci) e, più in generale, sono comprese realtà assai eterogenee, tra cui alcune di rilevanza minima, in relazione alle quali non può escludersi che la previsione di forme di responsabilità amministrativa, con tutto il dispendioso apparato anche processuale, si riveli, alla prova dei fatti, addirittura diseconomico.

Allo scopo di contenere tale rischio, il delegato – nell’impossibilità materiale di indicare nominativamente tutte le singole realtà – ha preferito utilizzare una formula elastica. Nel far ciò, tuttavia, non ha replicato testualmente la legge delega, ma si è limitato a citare “le società e le associazioni anche prive di personalità giuridica”, in modo da indirizzare l’interprete verso la considerazione di enti che, seppur sprovvisti di personalità giuridica, possano comunque ottenerla.

Infine, si noti che le precise indicazioni della delega, fedelmente riprodotte nello schema di decreto legislativo, hanno indotto ad escludere gli “enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”, tra cui sembrano rientrare anche i partiti politici ed i sindacati (questi ultimi sguarniti di personalità giuridica, vista la nota, mancata attuazione dell’art. 39 Cost.), dando così luogo ad una zona franca giustificabile soltanto alla luce delle delicate conseguenze che produrrebbe l’impatto, su questi soggetti, delle sanzioni interdittive previste dal nuovo impianto legislativo.

Quanto invece agli enti dotati di soggettività pubblica, come si è detto, la legge delega obbliga ad escludere espressamente “lo Stato e gli altri enti che esercitano pubblici poteri”.

Va peraltro da sé l’ampliamento dell’esclusione prevista per lo Stato, a comprendere anche gli enti pubblici territoriali (Regioni, Province, Comuni): oltre ad avere la titolarità di poteri tipicamente pubblicistici (si pensi alle attribuzioni delle Regioni in materia legislativa), l’equiparazione di questi enti allo Stato è suggerita da ragioni di ordine sistematico (ci si riferisce al disposto dell’art. 197 c.p., in tema di obbligazione delle persone giuridiche per la pena pecuniaria) e, più in generale, da una esigenza di ragionevolezza nelle scelte legislative.

L’esclusione degli “enti che esercitano pubblici poteri” preclude poi senz’altro la riferibilità dell’impianto normativo alle singole Pubbliche Amministrazioni: e ciò, anche a ritenere che le stesse non siano direttamente riconducibili al concetto di Stato, in quanto sue indispensabili articolazioni.

Viceversa, enti a soggettività pubblica, e tuttavia privi di poteri pubblici, sono i c.d. enti pubblici economici, i quali agiscono iure privatorum e che, per questa ragione, meritano una equiparazione agli enti a soggettività privata anche sotto il profilo della responsabilità amministrativa derivante da reato. Nessuna obiezione (pratica o teorica), dunque, all’inserimento degli stessi nel novero dei destinatari del sistema.

Tra l’uno e l’altro estremo, peraltro, la locuzione “enti pubblici che esercitano pubblici poteri” lascia residuare ampie zone d’ombra.

Costituisce infatti un dato acquisito che da tale nozione esulano, accanto agli enti pubblici economici, numerosi altri enti pubblici.

Alcuni di questi (pochi) sono enti pubblici associativi, dotati sostanzialmente di una disciplina negoziale, ma a cui le leggi speciali hanno assegnato natura pubblicistica per ragioni contingenti (ACI, CRI, ecc.).

Ma la categoria più significativa concerne gli enti pubblici che erogano un pubblico servizio, tra cui le Istituzioni di assistenza e, soprattutto, le Aziende ospedaliere, le scuole e le Università pubbliche, ecc.

Esclusa da subito l’opportunità di produrre nel decreto legislativo un catalogo degli enti pubblici assoggettabili al sistema di responsabilità amministrativa (la qualificazione di molti di questi enti è controversa e, soprattutto, la normativa più recente prevede una certa mobilità degli stessi, con la trasformazione da pubblici in privati), il Governo ha preferito optare per una soluzione “drastica”, anche nel rispetto delle esigenze di certezza del diritto: esigenza vieppiù viva in un settore, come questo, improntato ad un rigore particolare nella scelta delle risposte sanzionatorie.

Non si può nascondere infatti che, a prima vista, il dettato della delega sembrerebbe imporre l’inclusione di tutti questi enti nel novero dei destinatari delle disposizioni del decreto legislativo; il dato testuale parrebbe cioè prevedere l’assoggettamento alla disciplina sanzionatoria come la regola: rispetto ad essa, le eccezioni andrebbero contenute nei limiti dello stretto indispensabile.

Quanto agli enti associativi, tuttavia, essi sono oggi soggetti ad una forte tendenza alla privatizzazione che presumibilmente ne comporterà l’estinzione entro breve termine.

Pertanto – e salvo pure quanto verrà aggiunto di seguito – l’estensione della responsabilità a questi soggetti avrebbe comportato un costo probabilmente non compensato da adeguati benefici: il che risulta evidente ove si consideri che la dottrina pubblicistica non è affatto concorde nel tracciare la linea di distinzione tra questa categoria e gli enti pubblici associativi c.d. istituzionali (come gli Ordini e i collegi professionali), per i quali valgono considerazioni analoghe a quelle che saranno esposte immediatamente di seguito per gli enti pubblici esercenti un pubblico servizio.

Quanto a questi ultimi, all’affermazione della loro responsabilità amministrativa in dipendenza da reato, non sarebbe stata d’ostacolo la pure evidente inopportunità di applicare le sanzioni di natura interdittiva, con conseguente “scarico” dei costi sulla collettività. Ben si sarebbe potuto, infatti, differenziare la risposta sanzionatoria, riservando agli enti che svolgono un servizio pubblico, la meno invasiva sanzione pecuniaria.

Si è tuttavia preferito abbandonare anche questa soluzione: e ciò, sulla base di due considerazioni tra loro intrinsecamente connesse.

Per un verso, la sanzione pecuniaria comminata nei confronti dell’ente a soggettività pubblica avrebbe sortito un effetto general- e special-preventivo fortemente attenuato rispetto a quello suscettibile di produrre nei confronti di enti a soggettività privata e più sensibili alla ragione economica, essendo comunque destinata a tradursi in un disservizio per la generalità dei cittadini.

Per altro verso - e salva diversa indicazione del Parlamento -, la scelta dei reati, in uno con ulteriori indizi normativi desumibili soprattutto dalla disciplina civilistica (calibrata sulle società commerciali), consentono di ritenere con ragionevole certezza che il legislatore delegante avesse di mira la repressione di comportamenti illeciti nello svolgimento di attività di natura squisitamente economica, e cioè assistite da fini di profitto.

Con la conseguenza di escludere tutti quegli enti pubblici che, seppure sprovvisti di pubblici poteri, perseguono e curano interessi pubblici prescindendo da finalità lucrative.

Un’ultima precisazione. Il rilievo da ultimo svolto potrebbe indurre a ritenere irragionevole l’inclusione nel sistema degli enti a soggettività privata, che tuttavia svolgano un pubblico servizio (in virtù di una concessione, convenzione, parificazione o analogo atto amministrativo).

Al di là del fatto che, in questi enti, la finalità di natura pubblicistica non esclude il movente economico (sommandosi ad esso), l’assoggettabilità degli stessi alla disciplina dello schema appare implicitamente ammessa dallo stesso legislatore delegante, nella lettera l), n. 3) del comma 1, che sembrerebbe richiamarsi proprio a tale categoria laddove, nel caso di interdizione, prevede l’esercizio vicario dell’attività se la prosecuzione di quest’ultima “è necessaria per evitare pregiudizi a terzi” (sul punto, infra).

 

Rassegna di giurisprudenza

Tassatività dei reati che possono dar luogo a responsabilità degli enti

È tassativo il catalogo dei reati-presupposto dell’illecito degli enti collettivi. Né la rilevanza delle fattispecie di reato non comprese nel predetto catalogo può essere indirettamente recuperata, ai fini della individuazione del profitto confiscabile, nella diversa prospettiva di una loro imputazione quali delitti-scopo del reato associativo contestato, poiché in tal modo la norma incriminatrice di cui all’art. 416 CP – essa, sì, inserita nell’elenco dei reati-presupposto ex art. 24-ter, a seguito della modifica apportata dall’art. 2 della L. 94/2009 – si trasformerebbe, in violazione del principio di tassatività del sistema sanzionatorio contemplato dal D. Lgs. 231/2001, in una disposizione “aperta”, dal contenuto elastico, potenzialmente idoneo a ricomprendere nel novero dei reati-presupposto qualsiasi fattispecie di reato, con il pericolo di un’ingiustificata dilatazione dell’area di potenziale responsabilità dell’ente collettivo, i cui organi direttivi, peraltro, verrebbero in tal modo costretti ad adottare su basi di assoluta incertezza, e nella totale assenza di oggettivi criteri di riferimento, i MOG previsti dall’art. 6, scomparendone di fatto ogni efficacia in relazione agli auspicati fini di prevenzione (Sez. 6, 3635/2014).

 

Ne bis in idem

Desta perplessità il D. Lgs. 107/2018 (entrato in vigore il 29 settembre 2018), emanato dal Governo in attuazione alla Legge delega 163/2017 allo scopo di adeguare la disciplina nazionale in tema di abuso del mercato alle disposizioni contenute nel Regolamento UE 596/2014 e che prevede che sia configurabile una possibile violazione del divieto di doppia sanzione anche nel caso in cui il soggetto giuridico nei cui confronti sia diretta la pena sia – non una persona fisica, ma – una persona giuridica cui sia applicata una sanzione per l’illecito amministrativo ed una sanzione, ai sensi del D. Lgs. 231/2001, per il reato commesso da una persona fisica che abbia agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente collettivo medesimo. Infatti il novellato art. 187-terdecies TUF prevede che “Quando per lo stesso fatto è stata applicata, a carico del reo, dell’autore della violazione o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’articolo 187-septies, ovvero una sanzione penale o una sanzione amministrativa dipendente da reato [...] l’autorità giudiziaria o la CONSOB tengono conto, al momento dell’irrogazione delle sanzioni di propria competenza, delle misure punitive già irrogate”.

Tale normativa, facendo riferimento a sanzioni penali o sanzioni amministrative dipendenti da reato, ove sia riconosciuta alle stesse natura penale, trova il limite della retroattività della sanzione più favorevole ai fatti verificatisi prima dell’entrata in vigore della nuova normativa.

In base all’art. 2, secondo capoverso, CP, se la legge del tempo in cui sono stati commessi i medesimi fatti aventi rilevanza o natura penale e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, attuandosi in tal modo il principio della extrattività della norma più favorevole, extrattività che è retroattività se la norma più favorevole è quella successiva, ultrattività se la norma più favorevole e quella anteriore.

Ciò risponde ad una duplice esigenza: da un lato si vuole evitare una valutazione del fatto più severa di quella del tempo in cui fu commesso il reato, dall’altro, nel caso d’identificazione della norma più favorevole con quella successiva, si sancisce l’inapplicabilità della disciplina antecedente, il cui maggiore rigore non risponde più ai nuovi parametri di valutazione sociale e morale del fatto.

La normativa previgente (art. 187-ter (Manipolazione del mercato) faceva “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato”, prevedendo il cumulo di sanzioni penali ed amministrative; il previgente art 187-terdecies (Esecuzione delle pene pecuniarie e delle sanzioni pecuniarie nel processo penale) recita “Quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico del reo o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi (dell’articolo 187-septies), la esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa dall’Autorità amministrativa”, facendo riferimento al solo cumulo di pene pecuniarie di natura amministrativa e sanzioni pecuniarie dipendenti da reato, lasciando fuori il cumulo tra sanzioni penali di natura detentiva e sanzioni amministrative di natura penale (applicabile nella fattispecie a favore dell’incolpato), riconosciute invece dall’interpretazione del novellato art. 187-terdecies.

II previgente art.  187-terdecies è quindi meno favorevole della nuova normativa che, invece, statuisce che giudiziaria o la CONSOB tengono conto, al momento dell’irrogazione delle sanzioni di propria competenza, delle misure punitive già irrogate (art. 187-terdecies).

Per misure punitive devono intendersi sia le pene detentive che la sanzioni pecuniarie sia di natura penale che amministrativa, con possibilità di cumulo anche tra pena detentiva e pena pecuniaria amministrativa ai fini della valutazione di proporzionalità demandata al giudice che applica la sanzione inflitta per ultima. In ogni caso il nuovo art. 187-terdecies è più favorevole nella parte in cui prevede il cumulo tra le sanzioni inflitte all’ente e alla persona fisica che lo rappresenta ai fini della valutazione di proporzionalità.

La nuova normativa (art. 187-terdecies) appare confliggente con i principi della Corte del Lussemburgo, nella parte in cui consente l’applicazione del principio del ne bis in idem anche nel caso di sanzioni inflitte a soggetti diversi (quali, ad esempio, la società e il suo legale rappresentante).

Trattandosi di principio contrastante con l’orientamento consolidato, al riguardo, sia della CEDU che della CGUE (cfr. §17), il giudice nazionale dovrà disapplicare la sola parte della norma (187-terdecies novellato) confliggente con i principi della CGUE (anche in forza del principio del favor rei), ove non abbia riflessi sulla applicazione della restante normativa ritenuta più favorevole, essendo possibile, in tali limiti, una disapplicazione parziale della norma confliggente con i principi della CGUE.

Nel caso di specie il principio nazionale ritenuto incompatibile con i principi unionali deve ritenersi autonomo e non essenziale all’applicazione della restante disposizione normative.

La previsione della normativa nazionale in esame agevolerebbe, inoltre, condotte elusive con la comminatoria di pene nei confronti di persone fisiche che potrebbero essere adoperate come schermo (c.d. teste di legno) per salvaguardare il patrimonio di società o viceversa (Sez. 5 civile, 27564/2018).

La CGUE, al §29 della sentenza Garlsson (riportata di seguito - NdA), ha innanzitutto ricordato che, seppur spetti al giudice del rinvio valutare se i procedimenti e le sanzioni penali e amministrative rivestano natura penale ex art. 50 CDFUE, “pronunciandosi su un rinvio pregiudiziale, può tuttavia fornire precisazioni tese a guidare il giudice nazionale nella sua interpretazione” (CGUE, sentenza 5 giugno 2014, Mahdi, in C-146/14).

Un profilo interessante della sentenza Garlsson è rappresentato dalla precisazione (dopo l’affermazione che l’art. 50 della Carta non esclude la possibilità di cumulare procedimenti e sanzioni penali nonché procedimenti e sanzioni amministrativi di natura penale) delle condizioni in presenza delle quali il cumulo sanzionatorio può ritenersi ammissibile e non lesivo delle prerogative dell’individuo in esame.

La Corte ha chiarito che detto cumulo di procedimenti e di sanzioni di natura sostanzialmente penale può essere giustificato qualora i diversi procedimenti e le distinte sanzioni si prefiggano scopi complementari.

Occorre, inoltre, che sia garantita: 1) la proporzionalità ‘delle risposte punitive rispetto agli scopi perseguiti; 2) la prevedibilità di tale doppia risposta sanzionatoria in forza di regole normative chiare e precise; 3) il coordinamento tra i procedimenti sanzionatori in modo che l’onere per l’interessato da tale cumulo sia limitato allo stretto necessario; 4) il rispetto del principio di proporzionalità delle pene sancito all’art. 49, par. 3, CDFUE secondo cui le sanzioni complessivamente inflitte devono corrispondere alla gravità del reato commesso. Trattasi di condizioni che mirano ad allineare le garanzie riconosciute al cittadino dalla CDFUE all’elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU in tema di “ne bis in idem”.

Nel caso invece che uno dei due procedimenti non sia ancora definito, ove sussista una connessione temporale tra i due procedimenti – che non vuol significare contemporaneità assoluta – deve ritenersi ancora possibile, da parte del giudice e/o dell’autorità del procedimento non ancora concluso, tener conto dei parametri indicati dalla CEDU al fine della comminatoria della relativa sanzione (amministrativa o penale) con riferimento al procedimento non ancora concluso.

Conclusivamente i principi a cui si perviene dalla interpretazione della sentenza Garlsson sono i seguenti: a) non può essere sindacata la scelta del legislatore di sanzionare la condotta illecita  pur avente ad oggetto lo “stesso fatto” inteso secondo la giurisprudenza della Corte EDU – con la previsione di un doppio binario processuale (penale/amministrativo); b) l’avvio di separati procedimenti, con la possibilità di vedere applicate sanzioni diverse, costituisce una circostanza prevedibile e l’incolpato sa o  comunque  è in grado di sapere – nei sistemi, come quello italiano, in cui è possibile il “doppio binario” – che nei suoi confronti potrebbe essere esercitata (o che, quantomeno, che ve ne è la possibilità), sia l’azione penale che inflitta una sanzione tributaria - amministrativa; c) il rispetto del principio del ne bis in idem non dipende dall’ordine nel quale sono stati condotti i rispettivi procedimenti; l’unico fattore materiale è il rapporto tra i due illeciti.

Possibile, quindi, una doppia risposta sanzionatoria: una sanzione amministrativa ed una sanzione penale, le quali perseguono scopi diversi; scopo delle sanzioni amministrative è prima di tutto quello di incoraggiare i soggetti destinatari della sanzione a rispettare il loro dovere di fornire informazioni complete e corrette e di rafforzare le fondamenta del sistema fiscale nazionale, condizione preliminare per il funzionamento dello Stato e quindi per il funzionamento della società (Corte EDU, 15.11.2016, n. 24130/11); la sanzione penale rappresenta, invece, il “castigo” che lo Stato, attraverso l’autorità giudiziaria, a conclusione di un processo, infligge a un soggetto che abbia commesso un reato e tende non solo a reprimere un fatto reato commesso, ma ad impedire che quel determinato individuo non commetta più reati in futuro.

La stessa Corte EDU afferma che la condanna criminale non solo serve come deterrente ma ha anche uno scopo punitivo nei confronti della stessa omissione dichiarativa antisociale e presentava l’ulteriore elemento di frode colpevole (Sez. 5 civile, 27564/2018).

Si cita ancora, per la sua affinità al tema appena trattato, la seguente decisione della Consulta: “È costituzionalmente illegittimo l’art. 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui stabilisce che la confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), si applica, allorché il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62 del 2005, quando il complessivo trattamento sanzionatorio conseguente all’intervento di depenalizzazione risulti in concreto più sfavorevole di quello applicabile in base alla disciplina previgente” (Corte costituzionale, sentenza 223/2018).

Il cumulo di sanzioni sostanzialmente penali relative allo stesso fatto storico non costituisce di per se stesso una violazione del bis in idem europeo; esso può costituire, infatti, una semplice limitazione di tale diritto, purché rispetti i requisiti dettati, in materia, dall’art. 52 § 1 CDFUE, a mente del quale “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà.

Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. Perché le limitazioni dell’art. 50 siano conformi al diritto UE, occorre che esse siano finalizzate, nel rispetto del principio di proporzionalità, a un obiettivo di interesse generale tale da giustificare il cumulo (fermo restando che i procedimenti e le sanzioni devono avere scopi complementari).

È inoltre indispensabile che: siano previste da regole chiare e precise, che rendano prevedibile il ricorso ad un sistema di doppio binario sanzionatorio; siano tali da garantire un coordinamento fra i due procedimenti relativi al medesimo fatto, in modo da limitare il più possibile gli oneri supplementari che il ricorso a tale sistema genera; siano rispettose del principio di proporzione della pena, limitando a quanto strettamente necessario il complesso delle sanzioni irrogate.

Il rispetto di questi requisiti deve essere verificato dai giudici nazionali, se occorre ricorrendo, tramite rinvio pregiudiziale, alla Corte del Lussemburgo (CGUE, Grande sezione, 20 marzo 2018, C-524/15, Menci; C-537/16, Garlsson Real Estate e a.; C-596/16 e C-597/16, Di Puma e Zecca).

 

Finalità generali del D. Lgs. 231/2001

La responsabilità amministrativa degli enti in relazione alla commissione di fatti costituenti reato è stata introdotta nell’ordinamento italiano, con la L. 300/2000, a seguito della ratifica di alcune convenzioni internazionali, sottoscritte dall’Italia, contenenti l’espresso obbligo degli Stati aderenti di introdurre sul piano interno, in relazione a determinati reati, la responsabilità delle persone giuridiche.

Le suddette Convenzioni (segnatamente, la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali e la Convenzione UE relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’UE), secondo un trend che troverà costante applicazione in successive convenzioni internazionali dedicate a forme di criminalità che potevano essere connesse alle attività di impresa, imponevano infatti agli Stati Parte specifici obblighi di adattamento della normativa nazionale, nella prospettiva di rendere omogenee e quindi maggiormente effettive le risposte sanzionatorie offerte dalla comunità internazionale.

Le convenzioni ora citate, nel prevedere un certo margine di discrezionalità del legislatore nazionale nella scelta del modello sanzionatorio da adottare in relazione ai reati da esse previste (nell’ambito dell’UE l’opera di riavvicinamento delle normative penali deve pur sempre rispettare le differenze delle tradizioni giuridiche e degli ordinamenti giuridici degli Stati membri), stabilivano tuttavia le direttrici ineludibili entro le quali dare esecuzione agli obblighi assunti sul piano internazionale: prevedere sanzioni «efficaci, proporzionate e dissuasive».

Una volta che la comunità internazionale aveva imposto l’introduzione di fattispecie penali uniformi, la risposta repressiva degli Stati doveva pertanto garantire l’effettività della tutela del bene giuridico leso: l’efficacia, la proporzionalità e il carattere dissuasivo della sanzione (ancorché non penale) dovevano essere i requisiti fondamentali affinché la normativa pattizia in questione venisse applicata appieno.

Dall’effettività della risposta sanzionatoria discende come ovvio corollario che il sistema punitivo deve essere in grado di contrastare le possibili elusioni nell’applicazione della normativa repressiva e conseguentemente del relativo regime sanzionatorio (cfr. sulla nozione di sanzioni «effettive, proporzionate e dissuasive», CGUE, Grande sezione, sentenza 8 settembre 2015, C-105/14: se il regime che disciplina l’estinzione dei reati per prescrizione nel determina l’impunità, si deve constatare che le misure previste dal diritto nazionale non possono essere considerate effettive e dissuasive).

Tale elusione nella materia della responsabilità delle persone giuridiche appare ancor più evidente là dove siano ritenuti sufficienti una mera riorganizzazione o la modifica della denominazione sociale per ostacolare la repressione di un illecito.

Proprio in relazione all’ipotesi della fusione di società, la CGUE ha più volte richiamato il principio di «effettività» del sistema sanzionatorio per affermare che la normativa interna degli Stati deve assicurare l’imposizione di sanzioni nei confronti dell’ente che abbia incorporato quello che ha commesso l’infrazione, potendo altrimenti le imprese sfuggire alle sanzioni per il semplice fatto che la loro identità è stata modificata a seguito di ristrutturazioni, cessioni o altre modifiche di natura giuridica o organizzativa.

Basti ricordare, tra le tante, le pronunce della Corte del Lussemburgo in relazione alla normativa in tema di tutela della concorrenza. In particolare, tra le ultime, CGUE, sentenza dell’11 dicembre 2007, C-280/06, relativa alla normativa italiana contenuta nella L. 287/1990, nella quale la Grande sezione della Corte ha affermato (CGUE, sentenza del 28 marzo 1984, cause riunite 29/83 e 30/83, Compagnie royale asturienne des mines e Rheinzink c. Commissione; CGUE, sentenza del 7 gennaio 2004, cause riunite C-204/00 P. e altri, Aalborg Portland e altri c. Commissione) che qualora un ente violi le regole della concorrenza incombe ad esso, secondo il principio della responsabilità personale, di rispondere di tale infrazione; tuttavia, qualora tale ente sia oggetto di una modifica di natura giuridica o organizzativa, «tale modifica non ha necessariamente l’effetto di creare una nuova impresa esente dalla responsabilità per i comportamenti anticoncorrenziali del precedente ente se, sotto l’aspetto economico, vi è identità fra i due enti».

Solo in tal modo – ha aggiunto la CGUE – le misure adottate a livello nazionale svolgono la funzione di «dissuadere» gli operatori economici dal tenere comportamenti anticoncorrenziali: «se nessun’altra possibilità di imposizione della sanzione ad un ente diverso da quello che ha commesso l’infrazione fosse prevista, alcune imprese potrebbero sfuggire alle sanzioni per il semplice fatto che la loro identità è stata modificata a seguito di ristrutturazioni, cessioni o altre modifiche di natura giuridica o organizzativa. Lo scopo di reprimere comportamenti contrari alle regole della concorrenza e di prevenirne la ripetizione mediante sanzioni dissuasive sarebbe pertanto compromesso».

Conclusivamente, la CGUE ha evidenziato i rischi di un’applicazione eccessivamente «formalistica» del principio della responsabilità personale nei confronti delle persone giuridiche: la ratio e la finalità delle sanzioni verrebbero eluse ed i gestori di imprese sarebbero incentivati a sottrarsi alla loro responsabilità mediante modifiche organizzative «mirate». L’orientamento assunto dalla CGUE è significativo, tenuto conto anche della natura «penale» delle sanzioni previste dalla L. 287/1990, secondo la Corte di Strasburgo (Corte EDU, sentenza del 7.9.2011, Menarini Diagnostics SRL c. Italia).

A medesime conclusioni è pervenuta la stessa Corte più in generale in materia di responsabilità amministrativa (CGUE, Sez. 5, sentenza del 5 marzo 2015, C343/13). La CGUE – relativamente ad un caso di fusione con incorporazione della società responsabile di illeciti amministrativi – ha osservato che il trasferimento della responsabilità amministrativa alla società incorporante discende dalla normativa contenuta nella Direttiva comunitaria 78/855 relativa alle fusioni delle società per azioni, alla quale i sistemi nazionali devono uniformarsi: in assenza di detto trasferimento – ha sottolineato la Corte – l’interesse dello Stato alla repressione non sarebbe protetto e la fusione costituirebbe il mezzo, per una società, di eludere le conseguenze delle infrazioni eventualmente commesse a danno dello Stato membro interessato.

La CGUE si è premurata di sottolineare che la suddetta interpretazione non si pone in contrasto con gli interessi dei creditori e degli azionisti della società incorporante, in quanto questi ultimi, prima della fusione, hanno la possibilità di ottenere adeguate garanzie. Quindi l’imputazione della responsabilità all’ente risultante dalla fusione per incorporazione discende ineludibilmente non solo dall’esigenza dell’effettività della risposta sanzionatoria pattiziamente imposta in tema di lotta alla criminalità d’impresa, ma anche dai principi comunitari in tema di riorganizzazione degli enti (Direttiva 78/855).

La L. 300/2000, nel dare esecuzione in Italia alle richiamate Convenzioni, ha ritenuto di far fronte agli obblighi di adattamento dalle stesse discendenti con il ricorso alla delegazione, indicando espressamente tra i principi e i criteri direttivi quello di «prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive» a carico delle persone giuridiche responsabili, in tal modo rafforzando l’attuazione degli obblighi pattizi.

Pertanto, con l’introduzione della normativa riguardante le «vicende modificative dell’ente» ed in particolare della previsione, secondo cui «nel caso di fusione, anche per incorporazione, l’ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione» (art. 29), il legislatore delegato ha inteso applicare i principi e i criteri direttivi derivanti dalla legge di delega. Tale conclusione appare ancor più indefettibile nei casi in cui le società coinvolte nell’operazione di fusione appartengano allo stesso gruppo e l’operazione sia pianificata dalla holding (Sez. 6, 11442/2016).

 

Orientamenti sulla natura della responsabilità degli enti

È noto come sul tema della natura della responsabilità dell’ente siano stati tradizionalmente configurati tre diversi orientamenti. Secondo il primo, quella introdotta dal D. Lgs. 231/2001, a dispetto del nomen juris, sarebbe una responsabilità sostanzialmente penale; secondo altra impostazione si tratterrebbe, invece, di una responsabilità amministrativa autentica; secondo il terzo orientamento si trarrebbe di un “tertium genus” «che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia».

Secondo autorevoli impostazioni dottrinarie, quella della persona giuridica sarebbe una responsabilità “per” la commissione di un reato, una responsabilità che non discenderebbe da un nuovo ed autonomo illecito amministrativo attribuibile all’ente, espressamente tipizzato dal legislatore del 2001, quanto, piuttosto, dalla commissione, nell’interesse o a vantaggio dell’ente, di uno dei reati-presupposto da parte di una persona fisica, legata ad esso da un rapporto funzionale.

Gli argomenti sono molteplici: l’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella dell’autore del reato; la giurisdizione penale; l’impronta penalistica delle severe sanzioni; la rilevanza del tentativo; la possibilità di rinunziare all’amnistia.

In particolare, quanto alla struttura dell’illecito dell’ente, la responsabilità delle persone giuridiche deriverebbe non dalla commissione di un comportamento esplicitamente qualificato e strutturato dalla legge come illecito amministrativo, bensì da una nuova “fattispecie plurisoggettiva eventuale” che verrebbe ad originarsi dalla lettura, in combinato disposto, dell’articolo 5 con i reati tassativamente richiamati dagli artt. 24 e ss., secondo il meccanismo definito dalla dottrina delle “ipotesi normative di estensione della tipicità”, già utilizzato dal legislatore nella parte generale del codice penale negli artt. 40, comma 2, 56 e 110 CP, rispettivamente in materia di reati omissivi impropri, delitto tentato e concorso di persone.

In tale quadro di riferimento, altra autorevole impostazione dottrinaria, ribadendo la natura penale della responsabilità degli enti, ritiene invece di fare riferimento allo schema della fattispecie a concorso necessario, di parte generale. Il tratto costitutivo comune delle impostazioni in esame è la configurazione di un solo illecito alla cui realizzazione concorrono, secondo la logica dell’accessorietà e con criteri di imputazione diversi, la societas e la persona fisica.

Per attribuire la responsabilità alla persona giuridica, si sostiene, occorrerebbe che questa comunque partecipi, attraverso la sua personale colpevolezza (colpa di organizzazione) al reato materialmente commesso da una persona fisica – e questo vale come criterio di ascrizione più pregnante, quello soggettivo. Inoltre occorrerebbe che l’intera condotta sia animata da un finalismo collettivo integrato dai criteri ascrittivi dell’interesse e/o del vantaggio (della società come tale, che assume pertanto il ruolo di autore aggiunto ‘impersonale’, accanto alla già formata collettività degli autori-persone) – e questo vale per il criterio oggettivo di ascrizione della responsabilità.

Si tratta di una impostazione, almeno in parte, recepita dalle Sezioni unite (SU, 26654/2008) che, nell’ambito di una articolata motivazione, hanno ritenuto la responsabilità della persona giuridica aggiuntiva e non sostitutiva di quella delle persone fisiche; vi sarebbe, secondo le Sezioni unite, una convergenza di responsabilità, nel senso che il fatto della persona fisica, cui è riconnessa la responsabilità anche della persona giuridica, dovrebbe essere considerato “fatto” di entrambe, per entrambe antigiuridico e colpevole, con l’effetto che l’assoggettamento a sanzione sia della persona fisica che di quella giuridica s’inquadrerebbe nel paradigma penalistico della responsabilità.

Dall’applicazione dei principi indicati e, quindi, dalla configurabilità di una responsabilità della persona giuridica fondata sul paradigma della responsabilità penale concorsuale, sostanzialmente per lo stesso unico illecito, unitamente alla persona fisica autrice del reato presupposto, dovrebbe farsi discendere la legittimazione di quest’ultima – sostanzialmente coindagata/coimputata insieme all’ente per lo stesso fatto – ad impugnare il provvedimento di sequestro emesso nei riguardi della sola persona giuridica: un illecito unico, una responsabilità penale concorsuale, una responsabilità.

Dunque, un interesse concreto della persona fisica, compartecipe dell’unico illecito, a rimuovere gli effetti da esso derivanti nell’ambito di un unico sistema di responsabilità che lega ed unisce la condotta dell’ente e della persona fisica e involge l’interesse di entrambi ad impugnare il provvedimento di sequestro preventivo. In tal senso, il richiamo operato dall’art. 53 all’art 322 CPP sarebbe da interpretare nel senso che la persona fisica, in quanto coindagata per lo stesso unico illecito penale, avrebbe legittimazione a proporre richiesta di riesame.

L’impostazione appena descritta, tuttavia, non pare esattamente simmetrica a quanto affermato dal giudice delle leggi (Corte costituzionale, sentenza 218/2014) che, pur non pronunciandosi sulla natura giuridica della responsabilità da reato degli enti, ha tuttavia chiarito come nel sistema delineato dal D. Lgs. 231/2001, l’illecito ascrivibile all’ente costituisca una fattispecie complessa e non si identifichi con il reato commesso dalla persona fisica, in quanto questo costituisce solo uno degli elementi che formano l’illecito da cui deriva la “responsabilità amministrativa” (così testualmente la Corte), unitamente alla qualifica soggettiva della persona fisica, alle condizioni perché della sua condotta debba essere ritenuto responsabile l’ente e alla sussistenza dell’interesse o del vantaggio di questo.

Secondo la Corte costituzionale, se l’illecito di cui l’ente è chiamato a rispondere ai sensi del D. Lgs. 231/2001 non coincide con il reato, l’ente e l’autore di questo, non possono qualificarsi coimputati (cosi la sentenza). Si tratta di affermazioni che, da una parte, sembrano rivedere in senso critico l’impostazione secondo cui l’ente e la persona fisica (autore del reato presupposto) concorrerebbero, secondo lo schema della compartecipazione criminosa, in un unico illecito penale e, dall’altra, sembrano collocarsi nel solco di quanto, condivisibilmente, la stessa Corte di cassazione aveva, anche a Sezioni unite, in più occasioni in passato affermato.

La giurisprudenza di legittimità aveva già chiarito, quanto ai rapporti strutturali tra illecito ascritto alla persona giuridica e il reato-presupposto compiuto dalla persona fisica, che all’accertamento del reato commesso dalla persona fisica deve necessariamente seguire la verifica sul tipo di inserimento di questa nella compagine societaria e sulla sussistenza dell’interesse ovvero del vantaggio derivato all’ente: solo in presenza di tali elementi la responsabilità si estende dall’individuo all’ente collettivo, solo, cioè, in presenza di criteri di collegamento teleologico dell’azione del primo all’interesse o al vantaggio dell’altro, che risponde autonomamente dell’illecito “amministrativo”.

Secondo la Corte di cassazione l’illecito dell’ente “non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone”; l’illecito “amministrativo” ascrivibile all’ente non coincide con il reato, ma costituisce qualcosa di diverso, che addirittura lo ricomprende (così, Sez. 6, 2251/2010, espressamente richiamata dalla sentenza della Corte costituzionale, di cui si è detto).

L’ente sarebbe quindi responsabile di un fatto illecito proprio, costruito nella forma di fattispecie complessa, della quale il reato è un presupposto, unitamente alla qualifica soggettiva della persona fisica e alla sussistenza dell’interesse o del vantaggio. Si tratta di un illecito che, come detto, “costituisce qualcosa di diverso” dal reato, un illecito commesso dall’ente, la cui responsabilità è distinta rispetto a quella della persona fisica.

Tale ricostruzione è stata sostanzialmente recepita da altra sentenza delle Sezioni unite che, al di là della questione relativa alla natura della responsabilità dell’ente, hanno espressamente affermato che “la società non è mai autore del reato e concorrente nello stesso” (SU, 10561/2014; nel senso della natura amministrativa della responsabilità, seppur con sfumature diverse, SU, 34476/2011, Sez. 6, 21192/2013; Sez. 4, 42503/2013).

Non pare divergere da tali impostazioni nemmeno SU, 38343/2014, Thyssen Krupp. Nell’occasione, le Sezioni unite hanno evidenziato come il complesso normativo delineato dal D. Lgs. 231/2001 “sia parte del più ampio e variegato sistema punitivo ed abbia evidenti ragioni di contiguità con l’ordinamento penale per via, soprattutto, della connessione con la commissione di un reato, che ne costituisce il primo presupposto, della severità dell’apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento”.

Partendo da tali premesse, si è aggiunto che il reato commesso dal soggetto inserito nella compagine dell’ente, in vista del perseguimento dell’interesse o del vantaggio di questo, è sicuramente qualificabile come “proprio” anche della persona giuridica; tuttavia, secondo la Corte, la responsabilità della persona fisica si estende “per rimbalzo” dall’individuo all’ente collettivo solo a condizione che siano individuati “precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo ente”.

Dunque una responsabilità autonoma: l’ente è chiamato a rispondere per un fatto proprio che ha per presupposto il reato compiuto dalla persona fisica ma è che è “attribuito” alla persona giuridica secondo criteri di imputazione oggettivi e soggettivi propri. Il corollario che ne deriva è che la persona fisica autrice del reato presupposto è un soggetto terzo rispetto al sequestro preventivo disposto, ai sensi del D. Lgs. 231/2001, esclusivamente nei confronti della persona giuridica; essa non è coindagata o coimputata per lo stesso illecito, non è la persona alla quale le cose sono state sequestrate, dovendo identificarsi questa nella persona giuridica, non è, almeno in astratto, la persona che avrebbe diritto alla restituzione di quanto in sequestro, essendo i beni appartenenti all’ente.

Dunque, la persona fisica autrice del reato presupposto, ai sensi degli artt. 53 e 322 CPP, non è legittimata a proporre riesame avverso il provvedimento di sequestro preventivo disposto esclusivamente nei confronti della persona giuridica, ai sensi del D. Lgs. 231/2001 (inquadramento sistematico dovuto a Sez. 6, 33044/2018).

L’illecito addebitabile all’ente ai sensi del D. Lgs. 231/2001 non consiste in una responsabilità sussidiaria per il fatto altrui, sulla falsariga della responsabilità civile ordinaria da reato del dipendente o proposto, ovvero di quella delineata dall’art. 197 CP.

L’ente è punito per il fatto proprio, e a radicare la personalità della sua responsabilità, sta la necessità di poter muovere (direttamente) all’ente un rimprovero fondato sul fatto che il reato possa considerarsi espressione di una “politica aziendale” deviante o comunque frutto di una “colpa d’organizzazione”.

La responsabilità dell’ente si fonda, dunque, su una colpa connotata in senso normativo in ragione dell’obbligo imposto a tali organismi di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati, adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale in base a un MOG che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli. E la colpa dell’ente consiste nel non aver ottemperato a tale obbligo.

La circostanza che siffatta colpa venga ad emersione, e assuma rilievo ai fini della imputazione dell’illecito che riguarda l’ente, solo per effetto della commissione di uno specifico fatto reato che deve corrispondere per titolo a quelli espressamente compresi nel catalogo dei reati presupposto dal Decreto 231, non ne mina la natura “personale”, e perciò autonoma, riferibile a un deficit organizzativo che attiene alla mancata adozione di un MOG precauzionale astrattamente idoneo a prevenire non solo e non tanto la singola rottura dello schema legale realizzata dal soggetto imputato del reato presupposto, ma le carenze strutturali e di sistema che accadimenti di quella fatta alimentano e favoriscono (Sez. 1, 35818/2015).

Il D. Lgs. 231/2001, come puntualizzato dalle Sezioni unite (SU, 38343/2014), coniuga i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo. Il sistema che ne discende, di tertium genus, configura una ipotesi di responsabilità per fatto proprio colpevole e, una volta provato l’illecito, ricade sull’ente l’onere di dimostrare di avere efficacemente adottato, prima della commissione del reato, MOG idonei a prevenire i reati della specie di quello verificatosi (Sez. 4, 31210/2016).

Nell’ambito della struttura dell’illecito da reato ascrivibile ad enti immateriali, oltre all’esistenza di un reato/illecito presupposto espressamente previsto come tale (l’elencazione, in massima parte contenuta negli artt. 24 e ss., è tassativa e non ampliabile in via analogica) si distinguono abitualmente criteri di imputazione oggettivi (indicati dall’art. 5) e soggettivi (indicati dagli artt. 6 e 7).

Quanto ai criteri oggettivi d’imputazione, può ritenersi ormai pacifico che l’espressione con la quale l’art. 5, comma 1 richiama, come criterio ascrittivo della responsabilità de qua, la commissione dei reati (o degli ulteriori illeciti)  presupposto «nell’interesse o a vantaggio dell’ente», non contiene un’endiadi, perché i predetti termini indicano concetti giuridicamente diversi, ed evocano criteri concorrenti, ma alternativi: il richiamo all’interesse dell’ente valorizza una prospettiva soggettiva della condotta delittuosa posta in essere dalla persona fisica da apprezzare ex ante, per effetto di un indebito arricchimento prefigurato, ma non necessariamente realizzato, in conseguenza dell’illecito; il riferimento al vantaggio valorizza, invece, un dato oggettivo che richiede sempre una verifica ex post quanto all’obbiettivo conseguimento di esso a seguito della commissione dell’illecito presupposto, pur in difetto della sua prospettazione ex ante (Sez. 2, 3615/2006 e Sez. 5, 10265/2014, nonché, conclusivamente, SU, 38343/2014).

Si è, in proposito, evidenziato anche che i due presupposti si trovano in concorso reale: ciò implica che, ricorrendo entrambi, l’ente si troverebbe a dover rispondere di una pluralità di illeciti (situazione disciplinata dall’art. 21).

Quanto ai criteri soggettivi d’imputazione, il legislatore ha valorizzato un requisito in qualche modo assimilabile ad una sorta di “culpa in vigilando” consistente nella inesistenza di un MOG idoneo a prevenire i reati - con assonanza ai modelli statunitensi dei compliance programs di cui la Legge-delega 300/2000, articolo 11, lettera e), non faceva chiara menzione.

Con la differenza, non di lieve momento anche sotto il profilo sistematico, che tali modelli riguardano anche i reati commessi dal personale dirigente: ciò che costituisce un unicum nel panorama giuridico comparato, improntato, piuttosto, alla teoria della identificazione pura.

Non è stato quindi riprodotto dalla L. 231/2001, il principio dell’automatica derivazione della responsabilità dell’ente dal fatto illecito del suo amministratore, in deroga al principio di identificazione, pur connaturale alla rappresentanza organica, valido, in tesi generale, per ogni rapporto, negoziale e processuale.

Per quanto riguarda l’individuazione della natura giuridica della responsabilità degli enti nell’ordinamento italiano, la dottrina è estremamente divisa, potendo essere enucleate nel suo ambito ben tre linee di pensiero.

Analoga diversità di posizioni è enucleabile in giurisprudenza. Anche la già citata sentenza SU, 38343/2014, ad onta delle certezze esternate dalla massima ufficiale («Il sistema normativo introdotto dal D. Lgs. n. 231 del 2001, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un tertium genus di responsabilità compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza») non sembra aver fatto definitivamente luce sulla natura giuridica della responsabilità degli enti, avendo osservato quanto segue: «Il Collegio considera che, senza dubbio, il sistema di cui si discute costituisce un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus, se si vuole. Colgono nel segno, del resto le considerazioni della Relazione che accompagna la normativa in esame quando descrivono un sistema che coniuga i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficienza preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia.

Parimenti non è dubbio che il complesso normativo in esame sia parte del più ampio e variegato sistema punitivo; e che abbia evidenti ragioni di contiguità con l’ordinamento penale per via, soprattutto, della connessione con la commissione di un reato, che ne costituisce il primo presupposto, della severità dell’apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento. Sicché, quale che sia l’etichetta che si voglia imporre su tale assetto normativo, è dunque doveroso interrogarsi sulla compatibilità della disciplina legale con i principi costituzionali dell’ordinamento penale, seguendo le sollecitazioni difensive».

È stata, quindi, decisamente esclusa unicamente la tesi della natura meramente amministrativa della responsabilità degli enti: ciò è, tuttavia, quanto bastava per ammettere che, in relazione alla natura (quantomeno, anche) penale della responsabilità degli enti, la disciplina dettata dal D. Lgs. 231/2001 deve essere compatibile con i principi dettati dalla Costituzione in tema di responsabilità penale (Sez. 2, 52316/2016).

 

Definizione di ente e tipologie di organismi che rientrano in questa nozione

La disciplina del D. Lgs. 231/2001 è riferita agli enti, sintagma che evoca l’intero spettro dei soggetti di diritto non riconducibili alla persona fisica (Sez. 6, 30085/2012; Sez. 6, 18941/2004), indipendentemente dal conseguimento o meno della personalità giuridica e dallo scopo lucrativo o meno perseguito dagli stessi, come evidenzia in modo inequivoco il riferimento agli “enti forniti di personalità giuridica e associazioni anche prive di personalità giuridica” operato dall’art. 1, comma 2, di tale testo normativo.

Se, pertanto, il presupposto indefettibile per l’applicazione del diritto sanzionatorio degli enti è l’esistenza di un “soggetto di diritto metaindividuale” (Sez. 6, 18941/2004), quale autonomo centro di interessi e di rapporti giuridici, è certamente ascrivibile al novero dei destinatari del D. Lgs. 231/2001 anche la società unipersonale, in quanto soggetto di diritto distinto dalla persona fisica che ne detiene le quote.

Come è stato, peraltro, già rilevato, secondo un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il fallimento della società non determina l’estinzione dell’illecito previsto dal Decreto 231 o delle sanzioni irrogate a seguito del suo accertamento (SU, 11170/2015; Sez. 5, 4335/2013; Sez. 5, 44824/2012) (la riassunzione si deve a Sez. 6, 49056/2017).

La disciplina del Decreto 231 si applica anche alle SRL unipersonali. Una lettura costituzionalmente orientata della norma in esame dovrebbe indurre a conferire al disposto di cui all’art. 1 comma 2 una portata più ampia, tanto più che, non cogliendosi nel testo alcun cenno riguardante le imprese individuali, la loro mancata indicazione non equivale ad esclusione, ma, semmai ad una implicita inclusione dell’area dei destinatari della norma. 

Una loro esclusione potrebbe infatti porsi in conflitto con norme costituzionali - oltre che sotto il riferito aspetto della disparità di trattamento - anche in termini di irragionevolezza del sistema (Sez. 3, 15657/2011).

Le società unipersonali sono prive di un autonomo e distinto centro di interessi. L’applicazione della normativa 231 nei loro confronti pregiudicherebbe “la ratio di fondo della normativa sulla responsabilità delle persone giuridiche, la quale immagina contegni penalmente devianti tenuti da persone fisiche nell’interesse di strutture organizzative di un certo rilievo di complessità quale centro autonomi di imputazioni di rapporti giuridici distinto da chi ha materialmente operato” (Tribunale di Milano, sez. GIP, sentenza 971/2020).

L’art. 1 prevede espressamente l’applicabilità del Decreto 231 a tutti gli enti forniti di personalità giuridica, alle società ed alle associazioni anche se prive di personalità giuridica, tra i quali vanno compresi i consorzi, siano essi o meno costituiti nella forma della società di capitali (Sez. 2, 24483/2013).

Le SPA costituite per svolgere, secondo criteri di economicità, le funzioni in materia di raccolta e smaltimento dei rifiuti trasferite alle stesse da un ente pubblico territoriale (cosiddette società d’ambito), sono soggette alla normativa in materia di responsabilità da reato degli enti (Sez. 3, 234/2011).

Rientrano ugualmente nella previsione del D. Lgs. 231/2001 le SCARL (Sez. 6, 32627/2006) e le SAS (Sez. 6. 36083/2009).

Così pure le associazioni professionali: così, ad esempio, uno studio odontoiatrico costituito nella veste di SAS (Sez. 2, 4703/2012); una STP di avvocati (GIP del Tribunale di Milano, decreto di sequestro preventivo, 23.8.2018, in connessione ad un’accusa di concorso in riciclaggio formulata nei confronti di uno dei soci), le ATI (SU, 26654/2008).

Idem per gli enti stranieri operanti in Italia, sul presupposto che la loro eventuale esenzione dalla disciplina del Decreto 231 contrasterebbe col principio di territorialità della legge sancito dall’art. 3 CP (Tribunale di Milano, 27 aprile 2004).

Lo stesso dovrebbe valere anche per le società di fatto.

Al riguardo,  le Sezioni unite civili hanno chiarito che, per poter considerare esistente una società di fatto, agli effetti della responsabilità delle persone o dell’ente, anche in sede fallimentare, non occorre necessariamente la prova del patto sociale, ma è sufficiente la dimostrazione di un comportamento, da parte dei soci, tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci, atteso che, nonostante l’inesistenza dell’ente, per il principio dell’apparenza del diritto, il quale tutela la buona fede dei terzi, coloro che si comportano esteriormente come soci vengono ad assumere in solido obbligazioni come se la società esistesse; e tale indagine, risolvendosi nell’apprezzamento di elementi di fatto, non è censurabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata ed immune da vizi logici o giuridici (SU civili, 2243/2015).

Quanto agli enti pubblici, sono esonerati dall’applicazione del D. Lgs. 231/2001 soltanto lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e gli “altri enti pubblici non economici” (art. 1 ultimo comma).

Dunque, il tenore testuale della norma è inequivocabile nel senso che la natura pubblicistica di un ente è condizione necessaria, ma non sufficiente, all’esonero dalla disciplina in discorso, dovendo altresì concorrere la condizione che l’ente medesimo non svolga attività economica.

La ratio dell’esenzione è quella di preservare enti rispetto ai quali le misure cautelari e le sanzioni applicabili ai sensi del D. Lgs. 231/2001 sortirebbero l’effetto di sospendere funzioni indefettibili negli equilibri costituzionali, il che non accade rispetto a mere attività di impresa. In realtà non può confondersi il valore – pur indubbiamente di spessore costituzionale – della tutela della salute con il rilievo costituzionale dell’ente o della relativa funzione, riservato esclusivamente a soggetti (almeno) menzionati nella Carta costituzionale; né si può qualificare come di rilievo costituzionale la funzione di una SPA, che è pur sempre quella di realizzare un utile economico.

D’altro canto, supporre che basti – per l’esonero dal D. Lgs. 231/2001 – la mera rilevanza costituzionale di uno dei valori più o meno coinvolti nella funzione dell’ente è opzione interpretativa che condurrebbe all’aberrante conclusione di escludere dalla portata applicativa della disciplina un numero pressoché  illimitato di enti operanti non solo nel settore sanitario, ma in quello dell’informazione, della sicurezza antinfortunistica e dell’igiene del lavoro, della tutela ambientale e del patrimonio storico e artistico, dell’istruzione, della ricerca scientifica, del risparmio e via enumerando valori (e non “funzioni”) di rango costituzionale (Sez. 2, 28699/2010).

La giurisprudenza è invece piuttosto oscillante riguardo alle imprese individuali. Una pronuncia piuttosto risalente ne escluse l’assoggettamento alla disciplina del Decreto 231 poiché, in caso contrario, data la coincidenza tra l’imprenditore e l’impresa, la stessa persona fisica sarebbe stata sanzionata due volte per il medesimo fatto, in palese violazione del divieto di bis in idem (Sez. 4, 18941/2004).

A distanza di qualche anno la Cassazione cambiò rotta, rilevando che dall’assenza nel citato Decreto di espliciti riferimenti alle imprese individuali non poteva desumersi la loro esclusione dalla relativa disciplina, semmai la loro implicita inclusione. La Corte osservò peraltro che l’esclusione avrebbe creato un’irragionevole disparità di trattamento rispetto agli altri enti ed avrebbe per ciò stesso violato il principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3 comma 1 Cost. (Sez. 3, 15675/2011). Ancora più di recente la Cassazione ha nuovamente invertito la rotta, affermando che il sistema normativo della responsabilità degli enti si applica solo ai soggetti collettivi sicché le imprese individuali non vi rientrano (Sez. 6, 30085/2012).

È magmatica e in attesa di un inquadramento convincente anche la giurisprudenza sulle ONLUS. Si segnala a tal fine GUP Tribunale di Milano, sentenza del 22.3.2011, che ha applicato la pena a richiesta (ex art. 63) ad un’associazione di volontariato. La pronuncia, se ci si attiene al mero valore formale, implica l’inclusione di tali organismi nella sfera applicativa del Decreto 231.

Se tuttavia si sposta lo sguardo sulla vicenda sostanziale, le deduzioni che possono trarsene sono assai meno significative. Si trattava infatti di un’associazione che, nella prospettiva accusatoria condivisa dal giudice, agiva solo apparentemente come ONLUS ma, di fatto, svolgeva un’attività a tutti gli effetti imprenditoriale e lucrativa, per di più operando secondo modalità illecite. Sicché, l’unico principio che sembra potersi ricavare dalla citata pronuncia è la decisività dell’attività concretamente svolta dall’organismo preso in considerazione e la sua finalizzazione economica.

La persona giuridica è chiamata a rispondere dell'illecito amministrativo derivante da un reato-presupposto per il quale sussista la giurisdizione nazionale commesso dai propri legali rappresentanti o soggetti sottoposti all'altrui direzione o vigilanza, in quanto l'ente è soggetto all'obbligo di osservare la legge italiana e, in particolare, quella penale, a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove esso abbia la propria sede legale ed indipendentemente dall'esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che disciplino in modo analogo la medesima materia anche con riguardo alla predisposizione e all'efficace attuazione di modelli di organizzazione e di gestione atti ad impedire la commissione di reati fonte di responsabilità amministrativa dell'ente stesso. Deve, pertanto, essere recepito l'analogo principio di diritto di recente affermato dalla giurisprudenza di merito là dove ha ritenuto applicabile la disciplina del decreto n. 231 ad una società straniera priva di sede in Italia, ma operante sul territorio nazionale, in relazione ai delitti di omicidio e lesioni personali colposi (nel noto caso dell'incidente ferroviario di Viareggio) (v. Trib. Lucca, sentenza 31/07/2017, n. 222) (Sez. 6, 11626/2020).

 

Enti organizzati in gruppi (holding). Inadeguatezza del concetto di interesse di gruppo

Il D. Lgs. 231/2001 modella la responsabilità degli enti giuridici sulla figura degli enti singolarmente considerati, senza prendere in considerazione il fenomeno – pure espressamente disciplinato dal diritto societario (artt. 2497 e ss. CC) – dei gruppi, ovvero della concentrazione di una pluralità di società sotto la direzione unificante ed il controllo finanziario di una società capogruppo o holding.

Il fatto che, formalmente, le società facenti parte del gruppo siano giuridicamente autonome e indipendenti, non impedisce che le attività di ciascuna costituiscano espressione di una comune politica d’impresa, generalmente voluta dalla holding partecipante nell’ottica della diversificazione dei rischi.

Il fenomeno ha posto, quindi, una serie di interrogativi in relazione alla configurabilità della responsabilità da reato, cui la dottrina ha cercato inizialmente di rispondere, in attesa dell’intervento della giurisprudenza; tra le plurime questioni pratiche che possono porsi, assume in questa sede rilievo la configurabilità, o meno, della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001 della capogruppo in riferimento ad un reato commesso nell’interesse od a vantaggio immediato di una società controllata.

Il D. Lgs. 231/2001 non contiene un’espressa disciplina in tema di concorso di persone.

La possibilità che un soggetto operante (in posizione verticistica od anche subordinata) nella holding istighi o determini un soggetto operante in posizione verticistica in una controllata a commettere un reato nell’interesse od a vantaggio di quest’ultima ha comportato che si discutesse anche sull’applicabilità in tema di responsabilità degli enti dell’art. 110 CP, se inteso quale norma generale.

Parte della dottrina ha, in proposito, osservato che l’ammissibilità del concorso di enti giuridici nell’illecito amministrativo dipendente da reato avrebbe potuto costituire una possibile soluzione del problema della responsabilità degli enti in rapporto al fenomeno dei gruppi di imprese: «va comunque osservato come, anche in caso di riconosciuta natura penale della responsabilità degli enti, non potrebbe ammettersi senz’altro l’operatività, rispetto alle persone giuridiche, dell’art. 110 CP: il carattere di clausola d’incriminazione suppletiva, proprio di tale disposizione, sembra richiedere comunque un’espressa previsione nel sottosistema in esame, del tipo di quella contenuta nell’art. 26 a proposito del tentativo».

Altra dottrina ha anche osservato che «è concreto il rischio che, attraverso una artificiosa gestione della valvola del concorso di persone nel reato, i vertici apicali della controllante vengano ritenuti responsabili di quello commesso nell’ambito della gestione della controllata in quanto ritenuti destinatari di una posizione di garanzia in grado di attribuire rilevanza all’eventuale omessa vigilanza sull’operato di quest’ultima».

La possibile rilevanza dell’interesse di gruppo era già stata riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità civile, che, prima della riforma del diritto societario, aveva preso atto che determinati atti compiuti in apparente pregiudizio di una delle società appartenenti al gruppo per favorirne un’altra, potessero trovare giustificazione nel conseguimento dell’interesse del gruppo medesimo, inteso come «veicolo di realizzazione mediata dell’oggetto sociale delle sue componenti».

Ed è proprio a quest’ottica “compensativa” che si è da ultimo ispirato anche il legislatore, allorquando, nel riformare il diritto societario, ha con maggior convinzione dimostrato di accettare l’ineluttabile realtà del fenomeno dell’aggregazione d’imprese, e di riconoscere l’enucleabilità di un “interesse di gruppo” idoneo a giustificare anche le scelte di gestione apparentemente svantaggiose per le singole componenti del gruppo.

Si spiega così l’inserimento nel codice civile delle norme di cui agli artt. 2497 (che prevede un espresso limite alla responsabilità degli amministratori della società o dell’ente capogruppo per i danni arrecati nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento ai soci ed ai creditori delle altre società del gruppo, qualora questi siano per l’appunto compensati «dal risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento») e 2497-ter (che ammette la possibilità che le decisioni assunte dalle società del gruppo vengano influenzate dall’attività di direzione e coordinamento della capogruppo e che dunque siano funzionali alla realizzazione di un interesse esterno alla controllata, imponendo solo che tale ultimo venga esplicitato onde consentire un sindacato sulla sua effettiva corrispondenza al più generale interesse del gruppo, perciò riferibile anche alla stessa controllata e non all’esclusivo interesse della controllante o di altra società del gruppo). Il legislatore penale, a sua volta, ha fatto riferimento al concetto di gruppo in sede di definizione delle fattispecie di false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 CC), e nell’art. 2634 CC ha escluso l’ingiustizia del profitto, che integra il dolo specifico di quel reato, quando lo svantaggio per la società, cui appartiene l’amministratore infedele, venga compensato da un vantaggio che gli provenga dalle dinamiche di gruppo. Sia pure in relazione ai reati fallimentari, la giurisprudenza è stata sempre ferma nel ritenere che l’interesse delle singole società non “cede” rispetto all’interesse del gruppo.

Si è, così, ritenuto che integra la distrazione rilevante ex art. 216 e 223, comma 1, Legge Fallimentare (bancarotta fraudolenta impropria) la condotta di colui che trasferisca, senza alcuna contropartita economica, beni di una società in difficoltà economiche - di cui sia socio ed effettivo gestore - ad altra del medesimo gruppo in analoghe difficoltà, considerato che, in tal caso, nessuna prognosi positiva è possibile e che, pur a seguito dell’introduzione nel vigente ordinamento dell’art. 2634, comma 3, CC, la presenza di un gruppo societario non legittima per ciò solo qualsivoglia condotta di asservimento di una società all’interesse delle altre società del gruppo, dovendosi, per contro, ritenere che l’autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddistingue ogni singola società imponga all’amministratore di perseguire prioritariamente l’interesse della specifica società cui sia preposto e, pertanto, di non sacrificarne l’interesse in nome di un diverso interesse, ancorché riconducibile a quello di chi sia collocato al vertice del gruppo, che non procurerebbe alcun effetto a favore dei terzi creditori dell’organismo impoverito (Sez. 5, 7326/2008).

Si è, inoltre, ritenuto che, per escludere la natura distrattiva di un’operazione infragruppo, non è sufficiente allegare tale natura intrinseca, dovendo invece l’interessato fornire l’ulteriore dimostrazione del vantaggio compensativo ritratto dalla società che subisce il depauperamento in favore degli interessi complessivi del gruppo societario cui essa appartiene (Sez. 5, 48518/2011), e che, qualora il fatto si riferisca a rapporti intercorsi fra società appartenenti al medesimo gruppo, solo il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse del gruppo, può consentire di ritenere legittima l’operazione temporaneamente svantaggiosa per la società sacrificata, nel qual caso è l’interessato a dover fornire la prova di tale circostanza (Sez. 5, 29036/2012).

Questa Corte (Sez. 5, 24583/2011) ha inizialmente ritenuto che, in tema di responsabilità degli enti, la società capogruppo (la c.d. holding) o altre società facenti parte di un “gruppo” possono essere chiamate a rispondere, ai sensi del D. Lgs. 231/2001, del reato commesso nell’ambito dell’attività di una società controllata appartenente al medesimo gruppo, purché nella consumazione del reato presupposto concorra anche almeno una persona fisica che agisca per conto della “holding” stessa o dell’altra società facente parte del gruppo, perseguendo anche l’interesse di queste ultime, non essendo sufficiente – per legittimare un’affermazione di responsabilità ai sensi del D. Lgs. 231/2001 della holding o di altra società appartenente ad un medesimo gruppo – l’enucleazione di un generico riferimento al gruppo, ovvero ad un c.d. generale «interesse di gruppo».

La Corte di cassazione si era trovata ad esaminare la questione in relazione ad una fattispecie nella quale occorreva, in particolare, valutare se fosse possibile estendere a tutte le società controllate facenti parte di un gruppo la responsabilità da reato configurabile in capo alla capogruppo e ad altre controllate.

Nell’ambito di un più ampio procedimento, con plurimi imputati e plurime imputazioni, riguardanti una serie di operazioni corruttive intervenute nell’esercizio di attività d’impresa nel settore sanitario, e le conseguenti ipotesi di responsabilità da reato degli enti operanti, il GUP aveva ritenuto che per alcune società, organiche ad un gruppo facente capo ad un soggetto rinviato a giudizio, fosse necessario il giudizio dibattimentale (risultando ex actis che esse avevano tratto vantaggio dalle operazioni di corruzione poste in essere dal predetto soggetto), mentre aveva deliberato il proscioglimento di altre quattro società controllate, facenti parte dello stesso gruppo, osservando che esse non operavano nel settore sanitario e non avevano ricevuto vantaggi dalla corruzione.

Il PM aveva presentato ricorso, deducendo che «il vantaggio, e quindi l’interesse» delle quattro società prosciolte sarebbe emerso proprio nella fase dibattimentale, e che comunque esso era già desumibile, considerando che il predetto soggetto “leader” era l’amministratore di fatto di tutte le società del gruppo, sia di quelle rinviate a giudizio che di quelle prosciolte.

Il collegio ha rigettato il ricorso, ricordando che i presupposti per la configurabilità della responsabilità da reato degli enti sono plurimi, occorrendo: a) la commissione di uno dei reati-presupposto indicati dal D. Lgs. 231/2001: questa condizione ricorreva nel caso di specie, poiché, secondo l’ipotesi accusatoria, il reato-presupposto era la corruzione; b) la commissione del reato-presupposto da parte di «una persona fisica che abbia con l’ente rapporti di tipo organizzativo-funzionale (...) rivesta una posizione qualificata all’interno dell’ente»: nella specie, peraltro, i legali rappresentanti delle società prosciolte erano, a loro volta, stati prosciolti dalle accuse di corruzione (e finanziamento illecito dei partiti politici), con decisione che la Corte di cassazione, con la stessa sentenza in commento, aveva confermato.

E la Corte ha evidenziato che «la holding o altre società del gruppo possono rispondere ai sensi della legge 231, ma è necessario che il soggetto che agisce per conto delle stesse concorra con il soggetto che commette il reato»: non è, pertanto, sufficiente un generico riferimento al gruppo per legittimare l’affermazione della responsabilità da reato (commesso da una delle controllate) della società capogruppo o delle altre controllate.

Nella specie, in fatto, si è, inoltre, ritenuto che correttamente il GUP avesse escluso l’esistenza di elementi atti a corroborare l’ipotesi che il presunto amministratore di fatto dell’intero gruppo (rinviato a giudizio per corruzione) avesse agito, oltre che nell’interesse proprio o di terzi, anche nell’interesse concorrente dei predetti enti; c) la commissione del reato-presupposto nell’interesse od a vantaggio del singolo ente della cui responsabilità da reato si discuta, «interesse e vantaggio che devono essere verificati in concreto, nel senso che la società deve ricevere una potenziale o effettiva utilità, ancorché non necessariamente di carattere patrimoniale, derivante dalla commissione del reato presupposto».

In proposito, la Corte ha ritenuto che correttamente il GUP avesse escluso la ravvisabilità di un vantaggio delle quattro società prosciolte, che non operavano nel settore sanitario (nell’ambito del quale soltanto si erano estrinsecate le condotte corruttive ipotizzate) e non risultavano avere instaurato rapporti economici pur indirettamente riconducibili alle predette attività corruttive. Il principio affermato dalla sentenza 24583/2011 è stato successivamente ribadito, almeno in apparenza, da Sez. 5, 4324 dell’8/11/2013, relativa ad un caso nel quale, peraltro, è stata ritenuta la responsabilità amministrativa della società controllata in conseguenza della commissione di un reato presupposto immediatamente posto in essere nell’interesse della controllante.

La prima SPA, società controllata nell’ambito del gruppo de quo, era stata ritenuta dalla Corte di appello responsabile di illecito amministrativo dipendente dal reato di cui sopra e condannata alla sanzione (meno afflittiva di quella applicata in primo grado) ritenuta di giustizia. L’affermazione di responsabilità della predetta SPA era stata motivata richiamando l’interesse della stessa a far assegnare ad un proprio titolo un valore superiore a quello di mercato, con condotta peraltro riverberatasi anche a vantaggio della SPA controllante.

Detto ente aveva presentato ricorso per cassazione deducendo violazione di legge e difetto di motivazione, in particolare osservando che: la condotta era stata realizzata nell’ambito della funzione di gestione del portafoglio titoli affidata all’imputato dalla seconda SPA; la società emittente di un titolo non ha interesse diretto al valore dello stesso; era irrilevante l’eventuale interesse della quarta SPA, controllante, non estendendosi la responsabilità degli enti per illecito amministrativo derivante da reato all’interno dei gruppi di società. Il ricorso è stato rigettato perché ritenuto infondato.

Premesso che, ai fini dell’affermazione di responsabilità degli enti, è sufficiente che il soggetto autore del reato abbia agito per un interesse non esclusivamente proprio o di terzi, ma riconducibile anche alla società della quale lo stesso è esponente (Sez. 6, 3608/2009), si è, in questo caso, osservato, sulla scia del preesistente e dichiaratamente condiviso orientamento di questa Corte (Sez. 5, 24583/2011), che, «contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, siffatto titolo di responsabilità è individuabile anche all’interno di un gruppo di società, potendo la società capogruppo rispondere per il reato commesso nell’ambito dell’attività di una società controllata laddove il soggetto agente abbia perseguito anche un interesse riconducibile alla prima».

Nella fattispecie concreta in esame si discuteva, peraltro, del fenomeno opposto, ovvero della possibilità o meno di estendere alla controllata la responsabilità da reato ex D. Lgs. 231/2001 configurabile nei confronti della capogruppo.

È stata poi ritenuta irrilevante la circostanza dell’avere l’imputato agito nell’ambito di un incarico affidatogli dalla seconda SPA, laddove tale azione potesse essere ricollegata ad un interesse della prima SPA, della cui responsabilità da reato si discuteva, evidenziando che «la ravvisabilità di tale interesse veniva adeguatamente motivata nella sentenza impugnata con riferimento non, come lamentato dalla ricorrente, all’emissione da parte della [prima SPA] del titolo oggetto delle contrattazioni contestate, ma alla posizione della società all’interno del gruppo ed al vantaggio che per la stessa ne derivava dall’incremento del valore del titolo».

Il vantaggio conseguente alla commissione del reato presupposto accertato era stato, pertanto, immediatamente conseguito dalla società controllante, ma doveva ritenersi congrua la motivazione dei giudici di merito, secondo i quali anche la controllata aveva tratto vantaggio dall’incremento di valore del proprio titolo direttamente e materialmente rivoltosi a vantaggio della controllante in considerazione della propria posizione all’interno del gruppo interessato, potendo quindi ritenersi che il soggetto-persona fisica autore del reato presupposto avesse agito anche nell’interesse della controllata de qua.

Nonostante le premesse teoriche dalle quali la sentenza 4324/2013 ha dichiarato di voler partire, sembrerebbe, in realtà, in tal modo avere implicitamente riassunto vigore e rilevanza quel concetto di “interesse di gruppo” che la dottrina più recente e la stessa giurisprudenza di questa Corte (il riferimento è sempre alla sentenza 24583/2011) avevano mostrato di voler ridimensionare.

Il collegio condivide e ribadisce l’orientamento espresso da Sez. 5, 24583/2011, ovvero che, in tema di responsabilità da reato od altro illecito degli enti, la società capogruppo (la c.d. holding) o altre società facenti parte di un “gruppo” possono essere chiamate a rispondere, ai sensi del D. Lgs. 231/2001, del reato commesso nell’ambito dell’attività di una società controllata appartenente al medesimo gruppo, purché nella consumazione del reato presupposto concorra anche almeno una persona fisica che agisca per conto della “holding” stessa o dell’altra società facente parte del gruppo, perseguendo anche l’interesse di queste ultime, non essendo sufficiente per legittimare un’affermazione di responsabilità ai sensi del D. Lgs. 231/2001 della holding o di altra società appartenente ad un medesimo gruppo l’enucleazione di un generico riferimento al gruppo, ovvero ad un c.d. generale «interesse di gruppo».

Invero, l’affermata necessità di prendere in considerazione i rapporti concretamente sussistenti tra più società e le effettive ricadute in favore di una o più di esse della commissione di un reato formalmente nell’interesse od a vantaggio di una soltanto di esse risponde all’interrogativo in esame, quanto alla configurabilità, o meno, della responsabilità ex D. Lgs. 231/2001 della capogruppo in riferimento ad un reato commesso nell’interesse od a vantaggio immediato di una società controllata. L’orientamento accolto non restringe (alle sole imprese facenti formalmente parte del gruppo, in presenza di un «interesse di gruppo»), bensì amplia (anche fuori dai casi in cui sia formalmente configurabile la sussistenza del fenomeno del gruppo di imprese, civilisticamente inteso) l’ambito della responsabilità da reato alle società anche solo sostanzialmente collegate, in tutti i casi nei quali in concreto all’interesse o vantaggio di una società si accompagni anche quello concorrente di altra (od altre) società, ed il soggetto-persona fisica autore del reato presupposto sia in possesso della qualifica soggettiva necessaria, ex art. 5, ai fini della comune imputazione dell’illecito amministrativo da reato de quo.

Invero, il riferimento al c.d. “interesse di gruppo” può risultare fuorviante: come correttamente osservato dalla dottrina, «è sufficiente evidenziare che in una situazione di aggregazione di imprese (indipendentemente dalla natura dei rapporti che la caratterizzano, che potrebbero anche risultare diversi da quelli presi in considerazione dalle norme in precedenza passate in rassegna) una di queste può attraverso la consumazione del reato perseguire un proprio interesse anche quando il risultato si traduca in un vantaggio per un’altra componente dell’aggregato o, nell’immediato, nel soddisfacimento di un interesse particolare di quest’ultima.

Ma la fattispecie descritta è tutt’altro che sconosciuta alla normativa sulla responsabilità degli enti, identificandosi proprio con quell’interesse “misto” (...) identificabile attraverso il combinato disposto degli artt. 5 comma 2, 12 comma 1 lett. a) e 13 ultimo comma.

Non dunque un indistinto “interesse di gruppo”, ma un coacervo di interessi che trovano semmai nella dinamica del gruppo una attuazione unitaria attraverso la consumazione del reato». A ben vedere, la soluzione del problema non potrebbe essere diversa.

Nulla, infatti, legittima la presunzione della coincidenza dell’interesse di gruppo con quello immediato delle singole società controllate: al contrario, all’uopo occorre sempre una attenta disamina delle circostanze del caso concreto, onde verificare se, effettivamente, la controllante abbia avuto interesse o tratto vantaggio dall’azione della singola controllata.

Richiamata la natura della responsabilità da reato degli enti (se non formalmente penale, quanto meno costituente tertium genus caratterizzato da accenti di afflittività di natura inequivocabilmente penale), nessun automatismo (in termini di ineludibile riferibilità alla holding dei reati-presupposto commessi nell’interesse od a vantaggio immediato di una società controllata) sarebbe ipotizzabile in difetto di una espressa previsione di legge, ostandovi i principi dettati dalla Costituzione in tema di responsabilità penale, ed in particolare la non configurabilità di ipotesi di responsabilità per fatto altrui.

Non appare inutile, a tal proposito, ricordare che questa Corte (Sez. 6, 27735/2010) ha già dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, sollevata proprio con riferimento all’art. 27 Cost., evidenziando che l’ente non è chiamato a rispondere di un fatto altrui, bensì proprio, atteso che il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti inseriti nella compagine della persona giuridica deve considerarsi tale in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega i primi alla seconda (la riassunzione si deve a Sez.  2, 52316/2016).

La responsabilità amministrativa degli enti in relazione alla commissione di fatti costituenti reato è stata introdotta nell’ordinamento italiano, con la L. 300/2000, a seguito della ratifica di alcune convenzioni internazionali, sottoscritte dall’Italia, contenenti l’espresso obbligo degli Stati aderenti di introdurre sul piano interno, in relazione a determinati reati, la responsabilità delle persone giuridiche.

Le suddette Convenzioni (segnatamente, la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali e la Convenzione UE relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’UE), secondo un trend che troverà costante applicazione in successive convenzioni internazionali dedicate a forme di criminalità che potevano essere connesse alle attività di impresa, imponevano infatti agli Stati Parte specifici obblighi di adattamento della normativa nazionale, nella prospettiva di rendere omogenee e quindi maggiormente effettive le risposte sanzionatorie offerte dalla comunità internazionale.

Le convenzioni ora citate, nel prevedere un certo margine di discrezionalità del legislatore nazionale nella scelta del modello sanzionatorio da adottare in relazione ai reati da esse previste (nell’ambito dell’UE l’opera di riavvicinamento delle normative penali deve pur sempre rispettare le differenze delle tradizioni giuridiche e degli ordinamenti giuridici degli Stati membri), stabilivano tuttavia le direttrici ineludibili entro le quali dare esecuzione agli obblighi assunti sul piano internazionale: prevedere sanzioni «efficaci, proporzionate e dissuasive».

Una volta che la comunità internazionale aveva imposto l’introduzione di fattispecie penali uniformi, la risposta repressiva degli Stati doveva pertanto garantire l’effettività della tutela del bene giuridico leso: l’efficacia, la proporzionalità e il carattere dissuasivo della sanzione (ancorché non penale) dovevano essere i requisiti fondamentali affinché la normativa pattizia in questione venisse applicata appieno.

Dall’effettività della risposta sanzionatoria discende come ovvio corollario che il sistema punitivo deve essere in grado di contrastare le possibili elusioni nell’applicazione della normativa repressiva e conseguentemente del relativo regime sanzionatorio (cfr. sulla nozione di sanzioni «effettive, proporzionate e dissuasive», CGUE, Grande sezione, sentenza 8 settembre 2015, C-105/14: se il regime che disciplina l’estinzione dei reati per prescrizione nel determina l’impunità, si deve constatare che le misure previste dal diritto nazionale non possono essere considerate effettive e dissuasive).

Tale elusione nella materia della responsabilità delle persone giuridiche appare ancor più evidente là dove siano ritenuti sufficienti una mera riorganizzazione o la modifica della denominazione sociale per ostacolare la repressione di un illecito. Proprio in relazione all’ipotesi della fusione di società, la CGUE ha più volte richiamato il principio di «effettività» del sistema sanzionatorio per affermare che la normativa interna degli Stati deve assicurare l’imposizione di sanzioni nei confronti dell’ente che abbia incorporato quello che ha commesso l’infrazione, potendo altrimenti le imprese sfuggire alle sanzioni per il semplice fatto che la loro identità è stata modificata a seguito di ristrutturazioni, cessioni o altre modifiche di natura giuridica o organizzativa.

Basti ricordare, tra le tante, le pronunce della Corte del Lussemburgo in relazione alla normativa in tema di tutela della concorrenza. Si segnala in particolare, tra le ultime, CGUE, sentenza dell’11 dicembre 2007, C-280/06, relativa alla normativa italiana contenuta nella L. 287/1990, nella quale la Grande sezione della Corte ha affermato (CGUE, sentenza del 28 marzo 1984, cause riunite 29/83 e 30/83, Compagnie royale asturienne des mines e Rheinzink c. Commissione; CGUE, sentenza del 7 gennaio 2004, cause riunite C-204/00 P. e altri, Aalborg Portland e altri c. Commissione) che qualora un ente violi le regole della concorrenza incombe ad esso, secondo il principio della responsabilità personale, di rispondere di tale infrazione; tuttavia, qualora tale ente sia oggetto di una modifica di natura giuridica o organizzativa, «tale modifica non ha necessariamente l’effetto di creare una nuova impresa esente dalla responsabilità per i comportamenti anticoncorrenziali del precedente ente se, sotto l’aspetto economico, vi è identità fra i due enti».

Solo in tal modo ha aggiunto la CGUE le misure adottate a livello nazionale svolgono la funzione di «dissuadere» gli operatori economici dal tenere comportamenti anticoncorrenziali: «se nessun’altra possibilità di imposizione della sanzione ad un ente diverso da quello che ha commesso l’infrazione fosse prevista, alcune imprese potrebbero sfuggire alle sanzioni per il semplice fatto che la loro identità è stata modificata a seguito di ristrutturazioni, cessioni o altre modifiche di natura giuridica o organizzativa. Lo scopo di reprimere comportamenti contrari alle regole della concorrenza e di prevenirne la ripetizione mediante sanzioni dissuasive sarebbe pertanto compromesso».

Conclusivamente, la CGUE ha evidenziato i rischi di un’applicazione eccessivamente «formalistica» del principio della responsabilità personale nei confronti delle persone giuridiche: la ratio e la finalità delle sanzioni verrebbero eluse ed i gestori di imprese sarebbero incentivati a sottrarsi alla loro responsabilità mediante modifiche organizzative «mirate». L’orientamento assunto dalla CGUE è significativo, tenuto conto anche della natura «penale» delle sanzioni previste dalla L. 287/1990, secondo la Corte di Strasburgo (Corte EDU, sentenza del 7.9.2011, Menarini Diagnostics SRL c. Italia).

A medesime conclusioni è pervenuta la stessa Corte più in generale in materia di responsabilità amministrativa (CGUE, Sez. 5, sentenza del 5 marzo 2015, C343/13). La CGUE relativamente ad un caso di fusione con incorporazione della società responsabile di illeciti amministrativi ha osservato che il trasferimento della responsabilità amministrativa alla società incorporante discende dalla normativa contenuta nella Direttiva comunitaria 78/855 relativa alle fusioni delle società per azioni, alla quale i sistemi nazionali devono uniformarsi: in assenza di detto trasferimento ha sottolineato la Corte l’interesse dello Stato alla repressione non sarebbe protetto e la fusione costituirebbe il mezzo, per una società, di eludere le conseguenze delle infrazioni eventualmente commesse a danno dello Stato membro interessato.

La CGUE si è premurata di sottolineare che la suddetta interpretazione non si pone in contrasto con gli interessi dei creditori e degli azionisti della società incorporante, in quanto questi ultimi, prima della fusione, hanno la possibilità di ottenere adeguate garanzie. Quindi l’imputazione della responsabilità all’ente risultante dalla fusione per incorporazione discende ineludibilmente non solo dall’esigenza della effettività della risposta sanzionatoria pattiziamente imposta in tema di lotta alla criminalità d’impresa, ma anche dai principi comunitari in tema di riorganizzazione degli enti (Direttiva 78/855).

La L. 300/2000, nel dare esecuzione in Italia alle richiamate Convenzioni, ha ritenuto di far fronte agli obblighi di adattamento dalle stesse discendenti con il ricorso alla delegazione, indicando espressamente tra i principi e i criteri direttivi quello di «prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive» a carico delle persone giuridiche responsabili, in tal modo rafforzando l’attuazione degli obblighi pattizi.

Pertanto, con l’introduzione della normativa riguardante le «vicende modificative dell’ente» ed in particolare della previsione, secondo cui «nel caso di fusione, anche per incorporazione, l’ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione» (art. 29), il legislatore delegato ha inteso applicare i principi e i criteri direttivi derivanti dalla legge di delega. Tale conclusione appare ancor più indefettibile nei casi in cui le società coinvolte nell’operazione di fusione appartengano allo stesso gruppo e l’operazione sia pianificata dalla holding (Sez. 6, 11442/2016).

Ciò che pare mancare in capo alla holding ed a quanti la governano è proprio il dovere di impedire che le altre società presenti nel medesimo gruppo conformino la loro condotta ai dettami del diritto penale: la capogruppo, infatti, rispetto alle altre società, è un mero titolare di partecipazioni azionarie e “nessun obbligo di vigilanza ed intervento incombe sul socio come tale, indipendentemente dalla misura della sua partecipazione e dall’eventuale capacità di influenza dominante”.

Ne consegue che una eventuale responsabilità da reato della holding per fatti illeciti commessi da soggetti facenti capo alle società controllate potrà sostenersi in ipotesi assolutamente residuali, allorquando determinati indici oggettivi dimostrino come la condotta delittuosa sia stata tenuta in esecuzione di direttive e dettami provenienti dagli amministratori della capogruppo, i quali, non solo non hanno impedito la commissione di reati, ma hanno determinato altri soggetti alla violazione della legge penale, profittando della loro posizione di supremazia all’interno del raggruppamento societario. 

E’ onere della pubblica accusa una puntuale dimostrazione che dalla holding è pervenuta non una generica direttiva all’ottenimento di determinati risultati imprenditoriali, per il cui raggiungimento i gestori delle controllate hanno ritenuto di dover agire delittuosamente, quanto veri e propri suggerimenti penalmente illegittimi, sicché le direttrici generali del programma contengono già in nuce, sufficientemente predeterminati, almeno i tratti essenziali dei singoli comportamenti delittuosi poi realizzati dai compartecipi.

 Parimenti in maniera assolutamente rigorosa deve essere valutata la sussistenza del requisito del vantaggio o dell’interesse per la capogruppo della condotta illecita.

La circostanza, infatti, che il reato sia stato commesso eventualmente con il concorso degli amministratori della capogruppo, ma nell’ambito di una società controllata, rende l’interesse connesso all’azione delittuosa o il vantaggio che ne consegue non immediatamente riferibile alla società controllante, con la conseguenza che una responsabilità di quest’ultima per fatti di reato commessi nell’esercizio di attività imprenditoriali di altre società sussiste solo laddove sia possibile sulla base di un attento esame della vicenda concreta  sostenere che l’interesse perseguito dalla controllata o il vantaggio da questa ottenuto si riverbera in maniera significativa sul patrimonio o sulle disponibile della holding (GUP Tribunale di Milano, 17 novembre 2009).

 

Illeciti amministrativi commessi dagli enti

Il D. Lgs. 231/2001 disciplina la responsabilità amministrativa degli enti per i reati commessi nel loro interesse o vantaggio da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione. Gli sono invece estranee le ipotesi di illeciti amministrativi compiuti dagli enti (Sez. 2 civile, 24247/2018).