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Art. 2 - Principio di legalità

1. L’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto.

Stralcio della relazione ministeriale di accompagnamento al D. Lgs. 231/2001

Un sistema siffatto non poteva che replicare da entrambi i modelli, quello penale e quello amministrativo, il fondamentale principio di legalità (nelle sue accezioni di riserva di legge, tassatività e irretroattività), ovviamente plasmandone la formulazione sulla peculiarità della materia (art. 2).

È appena il caso di richiamare l’attenzione sulla circostanza che la legalità qui investe un duplice profilo: l’affermazione della responsabilità amministrativa dell’ente e  a monte – l’assetto penale di disciplina in conseguenza del quale tale responsabilità è prevista.

Quanto al primo aspetto, si noti inoltre come la norma curi espressamente l’estensione del principio, oltre che all’affermazione della responsabilità, altresì alle sanzioni che ne discendono.

Si anticipa sin d’ora che la scelta trova una fedele rispondenza nelle restanti norme dell’articolato laddove reca una disciplina puntuale dei presupposti applicativi di ciascun tipo di sanzione, sia nella parte generale in tema di scelta e di commisurazione delle stesse, sia nelle disposizioni dedicate alla previsione della responsabilità amministrativa in conseguenza della commissione dei singoli reati.

 

Rassegna di giurisprudenza

Il criterio di imputazione, che permette l’addebito della condotta della persona fisica all’organismo, nel cui interesse/vantaggio questa ha agito, suppone la commissione di illecito (non necessariamente a rilievo penale (ad esempio, art. 25-sexies che prevede  secondo autorevole dottrina  un’ulteriore responsabilità, modulata su quella discendente da reato, conseguente alla commissione non già di reato, bensì di violazione amministrativa proprio della disciplina sugli abusi di informazioni privilegiate e sulla manipolazione) nell’ambito di ipotesi tassativamente previste dal legislatore (ed elencate dalle previsioni della Sezione III del Capo I del Decreto 231), secondo una cernita che rinviene la sua filigrana nelle Direttive delle convenzioni internazionali e che si articola in un quadro contrassegnato dal principio di legalità (art. 2).

Principio che, pertanto, coinvolge, per il tramite di una legge, non soltanto la fattispecie costitutiva dell’illecito (e le sanzioni per essa previste), ma anche il collegamento tra la condotta della persona fisica e la speciale responsabilità para-penale dell’ente. Sinora l’esperienza normativa ha favorito nel nostro ordinamento l’espansione della tipologia degli illeciti forieri della responsabilità amministrativa degli enti ma, per la prima volta, con il D. Lgs. 39/2010, essa ha conosciuto l’abrogazione di una di queste fattispecie, senza che il legislatore abbia voluto intervenire direttamente sul catalogo, fonte della responsabilità medesima, cioè, l’art. 25- ter.

Opzione che contraddice anche la legislazione sulle violazioni penali a sfondo economico, ove evidente è apparsa, sino ad oggi, la volontà del legislatore di accompagnare la risposta prettamente penalistica, a quella speciale, nei confronti dell’organismo che si ritiene abbia tratto vantaggio. Il D. Lgs. 39/2010 ha, quindi, incrinato l’omogeneità del complessivo disegno normativo, con un mutamento del tratto repressivo, anche se, in tema di tutela del risparmio, la pur recente L. 262/2005 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari) ha apprestato un inasprimento sanzionatorio.

Tanto giustifica l’incertezza dell’interprete davanti al segno di forte discontinuità (non compiutamente palesato, mancando  come si è detto – un esplicito intervento sul quadro dell’art. 25-ter) relativamente alla responsabilità amministrativa della società di revisione (permanendo quella penale a carico dei suoi esponenti). Ma ogni perplessità viene fugata quando dal quadro sistematico si scende alla diretta lettura della novella.

Nel rispetto del principio di legalità a cui si è già fatto cenno e seguendo l’arresto di questa Corte  per cui “qualora il reato commesso nell’interesse o a vantaggio di un ente non rientri tra quelli che fondano la responsabilità ex D. Lgs. 231/2001 di quest’ultimo, ma la relativa fattispecie ne contenga o assorba altra che invece è inserita nei cataloghi dei reati presupposto della stessa, non è possibile procedere alla scomposizione del reato complesso o di quello assorbente al fine di configurare la responsabilità della persona giuridica” (Sez. 2, 41488/2009)  non si offrono possibilità interpretative incerte. In particolare, non vi è spazio per appellarsi ad ipotesi di integrazione normativa della fattispecie, a mezzo di un possibile rinvio cd. “mobile”, poiché – al di là di qualsiasi quesito coinvolgente questa delicata materia – la volontà legislativa risulta evidente, senza postulare ulteriori apporti ermeneutici, quando sia inquadrata nella complessiva operazione riformatrice disposta dal legislatore mediante il D. Lgs. 39/2010.

A ben vedere la presente vicenda consente un percorso argomentativo del tutto semplice e lineare per giungere alla soluzione del quesito giuridico.

È sufficiente, infatti, focalizzare l’attenzione sulla effettiva contestazione mossa dal PM per accorgersi che la norma su cui si fonda l’accusa non appartiene al novero di quelle che consentono l’applicazione della disciplina para-penale verso gli enti. Invero, la pubblica accusa, dopo una qualche oscillazione, ha puntualizzato l’addebito nella violazione dell’art. 174-bis del TUF.

È pertanto questa norma il cardine che qualifica l’accusa e delimita l’ambito del giudizio, posto che il giudice deve in essa inquadrare l’esatta normativa giuridica che regola la fattispecie ascritta all’ente: anche in questa speciale procedura la contestazione dell’addebito è il referente (che espleta la stessa funzione assegnata, nel processo penale, all’art. 417 CPP, verso la persona fisica) mediante cui impostare il sillogismo interpretativo per valutare la condotta oggetto di giudizio. Orbene, siffatta disposizione può ritenersi del tutto estranea al meccanismo attributivo della speciale responsabilità amministrativa di cui si tratta. Infatti, la violazione dell’art. 174-bis TUF è estranea al peculiare paradigma che collega l’azione della persona fisica all’ente per cui essa agisce.

Pertanto, ogni richiamo che evochi l’art. 174-bis risulta incapace di fornire contenuto precettivo al proposito: è carente di sostegno giuridico ogni integrazione mediante il rinvio ad una disposizione che non è mai esistita nel quadro normativo di riferimento. Invero, la norma non fa parte del codice civile, appartenenza richiesta dalla generale previsione di cui all’art. 25-ter, comma 1.

Inoltre, essa non è mai stata annoverata tra i cd. “reati-presupposto” idonei ad ascrivere la responsabilità dell’ente: non lo fu al momento della formulazione del testo fondamentale in materia, l’art. 25-ter, né nel contesto del D. Lgs. 61/2002 (che, riformulando l’intera legislazione penale societaria, abbinò al rilievo penale delle violazioni proprie dei revisori anche quello amministrativo a carico degli enti deputati alla revisione), né in epoca successiva, segnatamente quando l’art. 174-bis fu introdotto dall’art. 35 della L. 262/2005, che intervenne direttamente sulla disciplina in esame.

Si deve dunque formulare il seguente principio di diritto: “il D. LGS. 39/2010, nell’abrogare e riformulare il contenuto precettivo dell’art. 174-bis TUF, non ha influenzato in alcun modo la disciplina propria della responsabilità amministrativa da reato dettata dall’art- 25-ter, poiché le relative fattispecie non sono richiamate da questo testo normativo e non possono conseguentemente costituire fondamento di siffatta responsabilità” (SU, 34476/2011).

Il principio di legalità subordina l’applicazione delle misure sanzionatorie ad una previsione legislativa espressa, sia in ordine all’illecito sia in relazione al tipo di sanzione, precisando che debba essere entrata in vigore prima della commissione del fatto. 

È la commissione del fatto che deve essere presa in considerazione al fine di accertare l’applicabilità della sanzione. È il momento consumativo del reato che rileva ai fini dell’applicazione delle sanzioni previste dal D. Lgs. 231/2001. Il momento di realizzazione del profitto è del tutto irrilevante a questi fini, in quanto esso costituisce solo l’oggetto della sanzione-confisca, che ha il suo presupposto nell’esistenza, appunto, del reato accertato con sentenza (Sez. 6, 14564/2011).

Qualora il reato commesso nell’interesse o a vantaggio di un ente non rientri tra quelli che fondano la responsabilità ex D. Lgs. 231/2001 di quest’ultimo, ma la relativa fattispecie ne contenga o assorba altra che invece è inserita nei cataloghi dei reati presupposto della stessa, non è possibile procedere alla scomposizione del reato complesso o di quello assorbente al fine di configurare la responsabilità della persona giuridica (Sez. 2, 41488/2009).

Relativamente al reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis CP), quando le somme siano erogate in più rate si verte in ipotesi di reato a consumazione prolungata, che inizia con la percezione della prima rata e si conclude con la ricezione dell’ultima rata del finanziamento.

Tale ricostruzione, peraltro, può rilevare ai fini della prescrizione del reato, ma non anche per consentire di applicare la confisca per equivalente (e, quindi, il sequestro preventivo a tale confisca finalizzato), introdotta a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 19, anche in relazione alle somme percepite anteriormente a tale entrata in vigore, ostandovi una lettura costituzionalmente orientata del divieto di retroattività della norma penale e di quella che introduce violazioni amministrative (del resto, sul punto, il disposto dell’art. 2, che prevede il principio di legalità in materia di responsabilità amministrativa degli enti, con divieto di retroattività della norma che introduce illeciti o sanzioni (Sez. 2, 316/2007).

In tema di responsabilità da reato degli enti, la sanzione della confisca del profitto del reato presupposto è applicabile esclusivamente quando la data di consumazione di quest’ultimo è successiva a quella dell’entrata in vigore del D. Lgs. 231/2001, risultando invece irrilevante il momento in cui il suddetto profitto è stato in tutto in parte effettivamente conseguito (Sez. 3, 14564/2011).  

Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di cose non pertinenti al reato non è applicabile, in ragione della natura sanzionatoria di tale forma di confisca, nei confronti delle persone giuridiche per fatti-reato commessi in data anteriore all’entrata in vigore della normativa sulla responsabilità amministrativa da reato (Sez. 2, 3629/2007).

Il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, previsto dall’art. 19, comma 2, non può essere disposto sui beni immobili appartenenti alla persona giuridica ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, atteso che gli artt. 24 e ss. non prevedono i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l’adozione del provvedimento, con esclusione dell’ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo per commettere gli illeciti (Sez. 3, 25774/2012).

Desta perplessità il D. Lgs. 107/2018 (entrato in vigore il 29 settembre 2018), emanato dal Governo in attuazione alla Legge delega 163/2017,  allo scopo di adeguare la disciplina nazionale in tema di abuso del mercato alle disposizioni contenute nel Regolamento UE 596/2014, e che prevede che sia configurabile una possibile violazione del divieto di doppia sanzione anche nel caso in cui il soggetto giuridico nei cui confronti sia diretta la pena sia - non una persona fisica, ma - una persona giuridica cui sia applicata una sanzione per l’illecito amministrativo ed una sanzione, ai sensi del D. Lgs. 231/2001, per il reato commesso da una persona fisica che abbia agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente collettivo medesimo.

Infatti il novellato art. 187-terdecies TUF prevede che “Quando per lo stesso fatto è stata applicata, a carico del reo, dell’autore della violazione o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’articolo 187-septies, ovvero una sanzione penale o una sanzione amministrativa dipendente da reato [...] l’autorità giudiziaria o la CONSOB tengono conto, al momento dell’irrogazione delle sanzioni di propria competenza, delle misure punitive già irrogate”.

Tale normativa, facendo riferimento a sanzioni penali o sanzioni amministrative dipendenti da reato, ove sia riconosciuta alle stesse natura penale, trova il limite della retroattività della sanzione più favorevole ai fatti verificatisi prima dell’entrata in vigore della nuova normativa.

In base all’art 2, secondo capoverso, CP, se la legge del tempo in cui sono stati commessi i medesimi fatti aventi rilevanza o natura penale e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, attuandosi in tal modo il principio della extrattività della norma più favorevole, extrattività che è retroattività se la norma più favorevole è quella successiva, ultrattività se la norma più favorevole e quella anteriore.

Ciò risponde ad una duplice esigenza: da un lato si vuole evitare una valutazione del fatto più severa di quella del tempo in cui fu commesso il reato, dall’altro, nel caso d’identificazione della norma più favorevole con quella successiva, si sancisce l’inapplicabilità della disciplina antecedente, il cui maggiore rigore non risponde più ai nuovi parametri di valutazione sociale e morale del fatto.

La normativa previgente (art. 187-ter: Manipolazione del mercato) faceva “salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato”, prevedendo il cumulo di sanzioni penali ed amministrative; il previgente art 187-terdecies (Esecuzione delle pene pecuniarie e delle sanzioni pecuniarie nel processo penale) recita “Quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico del reo o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi (dell’articolo 187-septies), la esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa dall’Autorità amministrativa”, facendo riferimento al solo cumulo di pene pecuniarie di natura amministrativa e sanzioni pecuniarie dipendenti da reato, lasciando fuori il cumulo tra sanzioni penali di natura detentiva e sanzioni amministrative di natura penale (applicabile nella fattispecie a favore dell’incolpato), riconosciute invece dall’interpretazione del novellato art. 187-terdecies.

II previgente art. 187-terdecies è quindi meno favorevole della nuova normativa che, invece, statuisce che giudiziaria o la CONSOB tengono conto, al momento dell’irrogazione delle sanzioni di propria competenza, delle misure punitive già irrogate (art. 187-terdecies).

Per misure punitive devono intendersi sia le pene detentive che la sanzioni pecuniarie sia di natura penale che amministrativa, con possibilità di cumulo anche tra pena detentiva e pena pecuniaria amministrativa ai fini della valutazione di proporzionalità demandata al giudice che applica la sanzione inflitta per ultima. In ogni caso il nuovo art. 187-terdecies è più favorevole nella parte in cui prevede il cumulo tra le sanzioni inflitte all’ente e alla persona fisica che lo rappresenta ai fini della valutazione di proporzionalità.

La nuova normativa (art. 187 terdecies) appare confliggente con i principi della Corte del Lussemburgo, nella parte in cui consente l’applicazione del principio del ne bis in idem anche nel caso di sanzioni inflitte a soggetti diversi (quali, ad esempio, la società e il suo legale rappresentante).

Trattandosi di principio contrastante con l’orientamento consolidato, al riguardo, sia della CEDU che della CGUE (cfr. §17), il giudice nazionale dovrà disapplicare la sola parte della norma (187-terdecies novellato) confliggente con i principi della CGUE (anche in forza del principio del favor rei), ove non abbia riflessi sulla applicazione della restante normativa ritenuta più favorevole, essendo possibile, in tali limiti, una disapplicazione parziale della norma confliggente con i principi della CGUE.

Nel caso di specie il principio nazionale ritenuto incompatibile con i principi unionali deve ritenersi autonomo e non essenziale all’applicazione della restante disposizione normative. La previsione della normativa nazionale in esame agevolerebbe, inoltre, condotte elusive con la comminatoria di pene nei confronti di persone fisiche che potrebbero essere adoperate come schermo (c.d. teste di legno) per salvaguardare il patrimonio di società o viceversa (Sez. 5 civile, 27564/2018).

Si cita infine, per la sua affinità al tema in trattazione la seguente decisione della Consulta: “È costituzionalmente illegittimo l’art. 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui stabilisce che la confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), si applica, allorché il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62 del 2005, quando il complessivo trattamento sanzionatorio conseguente all’intervento di depenalizzazione risulti in concreto più sfavorevole di quello applicabile in base alla disciplina previgente” (Corte costituzionale, sentenza 223/2018).