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Art. 6 - Reati commessi nel territorio dello Stato

1. Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana.

2. Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione.

Rassegna di giurisprudenza

A mente dell’art. 6, che è diretto ad affermare il principio di territorialità del diritto penale e a privilegiare la giurisdizione italiana, è sufficiente, perché il reato si consideri commesso nel territorio dello Stato, che quivi si sia verificato anche solo un frammento della condotta, intesa in senso naturalistico, e, quindi, un qualsiasi atto dell’iter criminis (Sez. 5, 873/1997, richiamata adesivamente da Sez. 5, 34483/2018).

In tema di trasporto di migranti, sia pure con primario riferimento a navi senza bandiera, la giurisdizione italiana è stata già affermata sulla scorta del disposto di cui all’art. 6, ispirato al criterio definito dell’ubiquità. Si è affermata la giurisdizione nazionale anche nel caso in cui il trasporto dei migranti, avvenuto in violazione dell’art. 12 DLGS 286/1998 a bordo di una imbarcazione priva di bandiera e, quindi, non appartenente ad alcuno Stato, secondo la previsione dell’art. 110 della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare sia stato accertato in acque extraterritoriali, ma, successivamente, nelle acque interne e sul territorio nazionale si siano verificati, come evento del reato, l’ingresso e lo sbarco dei cittadini extracomunitari per l’intervento dei soccorritori, quale esito causalmente collegato all’azione e previsto in considerazione delle condizioni del natante (fra le altre, Sez. 1, 11165/2016).

Medesime conclusioni si sono peraltro raggiunte, attraverso il ragionamento svolto nei sensi che precedono, per affermare la sussistenza della giurisdizione nazionale in ipotesi di reato similare compiuto muovendo da nave battente determinata bandiera (peraltro di Stato, l’Egitto, che aveva aderito alla Convenzione di Montego Bay (Sez. 1, 9816/2013).

La connotazione del delitto di cui all’art. 12 DLGS 286/1998 come reato a consumazione anticipata non elide certo l’antigiuridicità della condotta ulteriore e dell’evento che si determina con l’illegale perfezionamento del trasporto al momento dell’arrivo dei cittadini extracomunitari nel territorio italiano (la norma incriminatrice, infatti, punisce chiunque in violazione delle disposizioni del testo unico promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato).

In secondo luogo, a prescindere dal dirimente rilievo svolto, è da aggiungere che le norme della Convenzione non paiono escludere in modo assoluto, anche in alto mare, l’esercizio della giurisdizione da parte di Stati diversi da quello di bandiera, quando non si tratti di navi da guerra (per le stesse disponendo in tal senso l’art. 95) e delle navi da ritenersi di proprietà o al servizio governativo, non commerciale, di un altro Stato (in tal senso disponendo l’art. 96). Le navi di natura privata, destinate a uso commerciale o equiparato, al lume dell’art. 97 della Convenzione, appaiono immuni dalla giurisdizione di Stato diverso da quello di bandiera limitatamente al caso di abbordo o di qualunque altro incidente di navigazione nell’alto mare, tale da implicare la responsabilità penale del comandante della nave o di qualunque altro membro dell’equipaggio.

Per questo preciso e circoscritto ambito, nei confronti delle suddette persone non possono essere intraprese, con riguardo a situazione determinatesi in alto mare, azioni penali o disciplinari se non da parte delle autorità giurisdizionali o amministrative dello Stato di bandiera o dello Stato di cui tali persone hanno la cittadinanza. Epperò, siccome per le navi private, l’immunità è delimitata ai soli casi di abbordo e, in generale, di incidenti di navigazione, non potrebbe ritenersi – anche a voler collocare l’azione rilevante soltanto in alto mare – che il reato di favoreggiamento dell’immigrazione illegale di cui all’art. 12 DLGS 286/1998, rientri nel relativo novero (Sez. 1, 56138/2018).

In tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta (SU, 40986/2018).

Nell’ipotesi di concorso di più persone nel reato, alcune delle quali abbiano realizzato una parte della condotta in Italia e una parte all’estero, oppure totalmente all’estero alcune e totalmente in Italia altre, coloro che attuarono una collaborazione nella esecuzione del fatto in territorio estero, risponderanno del reato come se commesso in Italia, perché la loro condotta costituisce la frazione di un tutto che ha trovato la sua attuazione anche nel territorio dello Stato, con quel che ne deriva ex art. 6, suscita l’interesse punitivo (Sez. 6, 7478/1993).

Per il principio di territorialità della legge penale di cui all’art. 6, comma secondo, il reato si considera commesso nel territorio dello Stato anche quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è stata ivi realizzata soltanto in parte (fattispecie in cui la Corte di cassazione ha ritenuto la procedibilità nel caso di un imputato che aveva organizzato la ricezione di sostanza stupefacente procacciata in Pakistan da altri e che aveva procurato il biglietto di viaggio per il corriere, ritenendo irrilevante l’arresto di quest’ultimo ancor prima della partenza) (Sez. 3, 30153/2018).

La giurisprudenza di legittimità è ampiamente consolidata nell’affermazione della giurisdizione italiana in relazione a reati commessi in parte all’estero, ritenendo sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, anche se privo dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, purché apprezzabile in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero (Sez. 4, 6376/2017; Sez. 3, 35165/2017; Sez. 5, 570/2017; Sez. 1, 41093/2014; Sez. 4, 44837/2012). In particolare, la pronuncia della Sez. 6, 40287/2008, in applicazione del richiamato principio, ha ritenuto commesso in parte nello Stato il reato di partecipazione al reato associativo contestato ad alcuni correi che dall’Italia avevano mantenuto contatti telefonici con l’organizzazione criminosa la cui struttura e operatività erano radicate all’estero.

Lo stesso principio è stato espresso in numerosi arresti giurisprudenziali, relativi al tema collegato del MAE e al motivo di rifiuto della consegna di cui all’art. 18, comma 1, lett. p), L. 69/2005, previsto per il caso in cui il mandato d’arresto europeo riguardi reati che dalla legge italiana sono considerati reati commessi in tutto o in parte nel suo territorio, o in luogo assimilato al suo territorio. La Corte di Cassazione anche a tali fini ha considerato commesso in Italia il reato, quando in Italia sia stata commessa una parte della condotta, anche minima e consistente in frammenti privi dei requisiti di idoneità e inequivocità richiesti per il tentativo, purché preordinata al raggiungimento dell’obiettivo criminoso, si sia verificata in territorio italiano (Sez. 6, 5548/2018 ed altre).

A tal proposito, la Corte di cassazione ha affermato, con riferimento alle strutture organizzative «cellulari» o «a rete», caratterizzate da estrema flessibilità e in grado di rimodularsi secondo le pratiche esigenze che di volta in volta si presentano, in condizione di operare contemporaneamente in più Paesi, anche in tempi diversi e con contatti (fisici, telefonici, informatici) anche discontinui o sporadici tra i vari gruppi in rete, che la fattispecie delittuosa di cui all’art. 270-bis deve ritenersi integrata – in presenza del necessario elemento soggettivo – anche da un sodalizio che realizza condotte di supporto all’azione terroristica di organizzazioni riconosciute e operanti come tali: quali quelle volte al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda, all’assistenza agli associati, al finanziamento, alla predisposizione o acquisizione di armi, alla predisposizione o acquisizione di documenti falsi, all’arruolamento, all’addestramento, ecc.; con l’affermazione in proposito della giurisdizione italiana in caso di "cellula" operante in Italia per il perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base dell’attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio di nuovi adepti, da inviare all’occorrenza nelle zone teatro di guerra, e della raccolta di denaro destinato al sostegno economico dei combattenti del Jihad all’estero (Sez. 1, 47489/2015; Sez. 6, 46308/2012).

Né vale obiettare che il frammento di reato non deve costituire un reato autonomo ma deve essere parte di una più ampia condotta finalizzata al perfezionamento dell’ipotesi associativa, allorché sia valorizzata la persistenza del vincolo associativo criminoso, di natura permanente, desunta sia dal difetto di qualsiasi elemento a supporto della recisione del nesso, sia dal possesso di materiali idonei ad attività di proselitismo, sia dalle modalità clandestine, antigiuridiche e penalmente illecite, con le quali taluno faccia ingresso in Italia e vi si trattenga (Sez. 5, 57018/2018).

Sebbene ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana, in relazione a reati commessi in parte all’estero, sia sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, intesa in senso naturalistico, e, quindi, un qualsiasi atto dell’iter criminoso, seppur privo dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, tuttavia tale connotazione non può essere riconosciuta ad un generico proposito, privo di concretezza e specificità, di commettere all’estero fatti delittuosi, anche se poi effettivamente realizzati (Sez. 3, 35165/2017).

La lettera p) dell’art. 18 della L. 69/2005 in tema di MAE prevede due distinte ipotesi di rifiuto obbligatorio della consegna, ispirate da differenti ratio: la prima, riguarda il caso in cui il mandato di arresto europeo sia stato emesso in relazione a «reati che dalla legge italiana sono considerati reati commessi in tutto o in parte nel suo territorio, o in luogo assimilato al suo territorio»; la seconda, attiene invece alla distinta fattispecie in cui i reati oggetto del mandato di arresto europeo «sono stati commessi al di fuori del territorio dello Stato membro di emissione» e «la legge italiana non consente l’azione penale per gli stessi reati commessi al di fuori del suo territorio». Entrambi i motivi ostativi corrispondono a tradizionali casi di rifiuto dell’estradizione, peraltro disciplinati in sede pattizia in chiave solamente facoltativa (cfr. art. 7 della Convezione europea di estradizione), che mirano alla tutela del principio di territorialità della legge penale secondo differenti angolature: il primo è funzionale alla riserva di giurisdizione a favore dello Stato di rifugio su fatti commessi sul suo territorio; il secondo, invece, risponde all’esigenza di alcune legislazioni che non perseguono i reati commessi in territorio estero.

Orbene, mentre quest’ultima ipotesi prevista dalla seconda parte della lett. p) dell’art. 18 appare non avere di fatto alcuna rilevanza nel sistema penale italiano che consente in via generale la punibilità di reati commessi all’estero, attraverso gli artt. 7 e ss., più problematica è risultata l’applicazione della prima delle suddette cause di rifiuto della consegna. Invero, nel regolare i rapporti tra l’ordinamento italiano e gli ordinamenti stranieri, l’art. 6, secondo comma, si ispira al principio della forza espansiva dell’applicazione della legge italiana, secondo cui è sufficiente che sia avvenuta in Italia anche una minima parte dell’azione o della omissione, pur se priva dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, per far ritenere commesso in Italia il reato che, considerando anche i collegati atti commessi all’estero, viene poi concretamente individuato nella sua unitaria fisionomia in un reato consumato o tentato (in senso conforme, tra le tante, Sez. 4, 6376/2017).

Come è stato più volte evidenziato dalla dottrina, questa interpretazione della citata disposizione del codice è funzionale ad evitare che l’applicazione del principio di territorialità della legge penale implichi una mutilazione dell’azione o dell’omissione delittuosa, a causa dell’esistenza delle frontiere internazionali, e quindi la sola punibilità di quella parte di un fatto eseguita al di qua dei confini nazionali. Il legislatore ha infatti considerato il reato un’entità indivisibile, avendo riguardo sia alla parte che si è verificata nel territorio nazionale sia a quella verificatasi all’estero. Nell’interpretazione quindi della norma codicistica in un’ottica soltanto funzionale alla punibilità di reati commessi in parte all’estero, la giurisprudenza, in assenza peraltro di disposizioni sul punto, si è preoccupata soltanto di ricercare un elemento di collegamento con il territorio dello Stato che giustificasse l’attrazione del fatto illecito nell’ambito della giurisdizione italiana, spesso individuato anche solo in un apprezzabile "frammento" della condotta in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero.

Il legislatore non si è invece curato di coordinare questa disposizione con la concorrente giurisdizione di altro Stato, il cui territorio sia stato parimenti interessato dall’iter criminoso (a differenza invece della ipotesi del reato commesso interamente all’estero, disciplinata dagli artt. 9 e 10, le cui previsioni, che se pur ispirate ad una tendenza universalistica della legge penale, ne condizionano il perseguimento nello Stato al bilanciamento tra le diverse esigenze del rispetto di impegni internazionali e della repressione penale).

Anzi, la prospettiva del codice relativamente ai reati commessi in parte sul territorio dello Stato, come dimostra plasticamente l’art. 11, è quella della irrilevanza giuridica dell’esercizio della concorrente giurisdizione. È evidente che questa interpretazione dell’art. 6, secondo comma, cod. pen. risulti inadeguata quando vengano in considerazione esigenze di cooperazione internazionale, ponendosi in frizione con il mutato quadro internazionale ed in particolare con il contesto dello spazio giudiziario europeo, nel quale la punibilità di taluni gravi reati, tipicamente transnazionali, costituisce un obiettivo "comune" delle politiche repressive degli Stati.

La soluzione più appropriata è che solo l’esistenza nello Stato di un procedimento penale parallelo per il fatto, oggetto del mandato di arresto europeo, commesso in tutto o in parte nel suo territorio, o in luogo assimilato al suo territorio, giustifica il rifiuto della consegna ai sensi della lettera p) dell’art. 18 cit., in quanto in tal caso la soluzione del conflitto (già esistente e non meramente potenziale) deve trovare necessaria soluzione nel meccanismo disciplinato dalla decisione quadro del 2009 e dal d.lgs. n. 29 del 2016. In tal caso il rifiuto della consegna viene effettivamente a tutelare le prerogative dello Stato di esecuzione in funzione della composizione del conflitto (non impedendo, è bene precisare, una successiva richiesta di consegna per il medesimo fatto, nel caso di accordo sulla concentrazione del procedimento nello Stato membro di emissione) (Sez. 6, 15866/2018).