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Art. 5 - Ignoranza della legge penale

1. Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale (1).

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 364/1988, ha dichiarato la illegittimità dell’art. 5, nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile.

Rassegna di giurisprudenza

L’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale può essere ravvisata ogniqualvolta il cittadino abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al suo dovere di informazione, attraverso l’espletamento di qualsiasi accertamento utile per conseguire la conoscenza della normativa vigente (Sez. 5, 41423/2018).

L’errore inevitabile sulla legge penale, di cui alla sentenza della Corte costituzionale 368/1988 ed ai successivi sviluppi giurisprudenziali fino all’arresto delle Sezioni unite di questa Corte, sussiste per il comune cittadino ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto "dovere di informazione", attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia e la sua ignoranza derivi da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, da cui l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (Sez. 1, 25912/2004).

L’errore di diritto scusabile, in quanto dovuto ad ignoranza inevitabile della legge penale nella sua esatta delimitazione e nel suo preciso significato (alla stregua di quanto è stato affermato dalla sentenza della Corte costituzionale 364/1988, dichiarativa della parziale illegittimità costituzionale dell’art. 5), è configurabile soltanto quando emerga un’oggettiva e insuperabile oscurità della norma o del complesso di norme da cui deriva il precetto penalmente sanzionato: condizione, questa, che non si verifica nel caso di cui al combinato disposto degli artt. 11 e 23 L. 110/1975, per i quali costituisce delitto la detenzione di un’arma non sottoposta, entro il termine di legge, alle prescritte operazioni di immatricolazione (Sez. 1, 51609/2018).

Che sia necessario obbedire agli ordini di polizia legalmente dati, e sia contrario al diritto trasgredirli, è in grado di comprenderlo anche la persona (sana di mente) non acculturata, dotata di basso o nullo livello di istruzione. Il fondamento costituzionale della «scusa» della inevitabile ignoranza della legge penale vale per chi versa in condizioni soggettive di sicura inferiorità rispetto a condotte, attive od omissive, in relazione a lui per questo inesigibili e non può certo essere strumentalizzato per coprire atteggiamenti indifferenti, in situazioni in cui il fatto presenti un sicuro disvalore sociale e la persona potesse ragionevolmente rappresentarsi la possibilità che esso fosse antigiuridico; in tal caso non può ravvisarsi ignoranza inevitabile, discendente da incolpevole mancanza di formazione culturale o di socializzazione (Sez. 1, 50371/2018).

L’orientamento ondivago del legislatore regionale, delle strutture amministrative regionali, degli stessi organi giudiziari sia ordinari che amministrativi è elemento da cui potrebbe ricavarsi l’ignoranza scusabile della legge penale, ciò che anche la giurisprudenza di questa Corte ha successivamente ritenuto (quanto alla rilevanza della prassi amministrativa, si veda Sez. 3, 35314/2016; quanto alla rilevanza degli orientamenti giurisprudenziali, si veda Sez. 3, 4951/2000) (Sez. 3, 46214/2018).

La buona fede, tale essendo l’unico elemento idoneo ad escludere l’elemento soggettivo nei reati contravvenzionali attribuendo rilevanza all’errore sulla liceità del fatto, è configurabile solo quando il comportamento antigiuridico sia stato determinato da un fattore esterno che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole, ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa (competente alla tutela dell’interesse protetto) idoneo a determinare uno scusabile convincimento di liceità della condotta posta in essere (Sez. 3, 42021/2014).

Con precipuo riferimento alle contravvenzioni, la buona fede, che esclude nei relativi reati l’elemento soggettivo ben può essere determinata da un fattore positivo esterno ricollegabile a un comportamento dell’autorità amministrativa deputata alla tutela dell’interesse protetto dalla norma, che risulti idoneo a determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento della liceità della condotta (Sez. 1, 47712/2015).

L’errore che cade sulla fattispecie incriminatrice, ai sensi dell’art. 5 come risultante dalla sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte costituzionale, scusa solo nel caso in cui l’ignoranza della legge penale sia inevitabile. Come chiarito da questa Corte nel suo più alto consesso a proposito dei limiti di tale inevitabilità, per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto "dovere di informazione", attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una colpa lieve nello svolgimento dell’indagine giuridica.

Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto. Di conseguenza, chi svolge una data attività commerciale è gravato dell’obbligo di acquisire informazioni circa la specifica normativa applicabile in quel settore, sicché, qualora deduca la propria buona fede, non può limitarsi ad affermare di ignorare le previsioni di detta normativa – errore che non scusa perché cade sul precetto – ma deve dimostrare di aver compiuto tutto quanto poteva per osservare la disposizione violata (SU, 8154/1994, richiamata adesivamente da Sez. 3, 54703/2018).

Non è condivisibile la tesi secondo cui l’esistenza di un contrasto interpretativo o giurisprudenziale dovrebbe imporre di ritenere assente l’elemento soggettivo del reato per avere agito in presenza di una normativa oscura e contraddittoria. È vero il contrario: proprio l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale (e non di un orientamento pacifico) dovrebbe indurre a risolvere il dubbio attraverso l’esatta conoscenza della specifica norma o, in caso di soggettiva invincibilità di esso, astenersi dall’azione illecita. Il "dovere di informazione", attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia, è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una colpa lieve nello svolgimento dell’indagine giuridica (Sez. 3, 51843/2018).

L’elemento psicologico del reato di peculato è costituito dal dolo generico e cioè dalla coscienza e volontà di appropriarsi del danaro o della cosa mobile appartenente alla pubblica amministrazione che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio possiede per ragioni del proprio ufficio. L’intenzione di restituire, anche se seguita a breve distanza dall’effettiva restituzione, non esclude il dolo perché il peculato si perfeziona con l’appropriazione della somma di danaro di cui l’agente abbia la disponibilità a causa del suo ufficio, per cui sono irrilevanti la breve durata della sottrazione del denaro e l’intenzione di restituire o l’effettiva restituzione di quanto sottratto.

Poiché l’elemento psicologico consiste nel dolo generico, l’eventuale buona fede dell’agente, ovvero l’erroneo convincimento che si risolve in ignoranza della legge penale, resta inescusabile per il principio generale sancito dall’art. 5 (Sez. 1, 12911/2001). L’errore del pubblico ufficiale circa la propria facoltà di disposizione di un bene pubblico per fini diversi da quelli istituzionali non configura un errore di fatto su legge diversa da quella penale, atto ad escludere il dolo, ma costituisce errore o ignoranza della legge penale il cui contenuto è integrato dalla norma amministrativa che disciplina la destinazione del bene pubblico. La buona fede è configurabile solo se la mancata coscienza dell’illiceità del fatto deriva non dall’ignoranza dalla legge, ma da una circostanza che induce nella convinzione della liceità della condotta, come un provvedimento dell’autorità amministrativa, una precedente giurisprudenza assolutoria o contraddittoria, una equivoca formulazione del testo della norma (Sez. 3, 29080/2015) e la valutazione dell’inevitabilità dell’errore di diritto deve tenere conto delle conoscenze e delle capacità dell’agente  (Sez. 3, 8410/2018).

La norma amministrativa di riferimento deve intendersi come integratrice di quella penale per cui l’eventuale errore va valutato non ex art. 47, comma 3, ma ex art. 5: l’organo di vertice di un ente locale – dovendo avere piena conoscenza dei principi costituzionali in tema di spesa e dell’inesistenza di un diritto di agire uti princeps – avrebbe dovuto attivarsi per disattivare ogni precedente prassi illecita, interrompendola immediatamente, e non perseverare nell’ingiustificato utilizzo dei fondi riservati. Pertanto, integra il delitto di peculato l’utilizzazione di denaro pubblico accreditato su un capitolo di bilancio intestato a "spese riservate", quando non si fornisce una giustificazione certa e puntuale del suo impiego per finalità strettamente corrispondenti alle specifiche attribuzioni e competenze istituzionali del soggetto che ne dispone, tenuto conto delle norme generali della contabilità pubblica, o di quelle specificamente previste dalla legge (Sez. 6, 756/2019).