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Le leggi giuste e le parole giuste. La comprensibilità e l’accessibilità delle leggi: una mera chimera?

The right laws and the right words. The comprehensibility and accessibility of laws: a "mera chimera"?
Independence Day, l'astratto a fuoco
Ph. Giacomo Porro / Independence Day, l'astratto a fuoco

Articolo pubblicato nella sezione Il linguaggio del diritto del numero 1/2020 della Rivista "Percorsi penali".

 

Abstract:

Con questo scritto ci proponiamo, in via preliminare, di argomentare sulla necessità di comprensibilità del linguaggio giuridico e della struttura della norma indirizzata ai cittadini; per poi soffermarci sulle diverse tipologie di testi scritti e riportare, in sintesi, le molteplici attività di studio e di ricerca in merito alla accessibilità dei testi scritti.

With this paper we propose, as a preliminary, to argue on the need for comprehensibility of legal language and the structure of the law addressed to citizens; to then dwell on the different types of written texts and summarize the multiple study and research activities regarding the accessibility of written texts.

 

Sommario:

1.Introduzione e stato delle cose nell’ambito legislativo

2. Linguaggio del giudice e dell’avvocato

3. Le tipologie dei testi scritti

4. Accessibilità dei testi

5. Buone prassi per la redazione della norma

6. Una riflessione conclusiva: linguaggio e democrazia

 

Summary:

1. Introduction and state of affairs in the legislative field

2. Language of the judge and lawyer

3. Types of written texts

4. Accessibility of texts

5. Best practices for drafting the standard

6. A final reflection: language and democracy

 

1. Introduzione e stato delle cose nell’ambito legislativo

L’esigenza, diremmo la necessità, di scrivere la legge in maniera chiara e concisa ma soprattutto comprensibile a tutti, è stata sempre avvertita ma raramente è stata soddisfatta nella nostra legislazione.

Secondo le parole del costituzionalista Gaetano Silvestri[1]la norma non esiste indipendentemente dalla proposizione che la descrive”, vale a dire dalla sua “formulazione linguistica”. Ciò significa che un precetto normativo chiaro non può prescindere da un tenore letterale e da una formulazione linguistica priva di ambiguità.

Questo, d’altronde, è il primo criterio interpretativo prescritto dall’art. 12 c. 1 delle Disposizioni sulla legge in generale del codice civile, secondo il quale “nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse […]”. Parametro la cui praticabilità risulta purtroppo ostruita dalla natura complessa e oscura del linguaggio normativo.

La questione del complesso rapporto tra linguaggio e produzione normativa è stata affrontata nel tempo da filosofi del diritto e da linguisti. Ci piace ricordare l’ammonimento di Quintiliano: “Il pregio più grande dei nostri discorsi sia la “chiarezza”[2].

Sulla stessa linea dopo millenni, Norberto Bobbio, il quale nel celebre saggio “Scienza del diritto e analisi del linguaggio” evidenziava che l’interpretazione della legge è “l’analisi del linguaggio del legislatore”, e che la “scientificità di un discorso” consiste “nel rigore del suo linguaggio, cioè nella coerenza di un enunciato con tutti gli altri enunciati[3].

Il tema di fondo si colloca all’interno del diritto alla informazione e, più in generale, nell’ambito dell’accessibilità culturale alle norme giuridiche che dovrebbero essere scritte:” in uno stile rapido, calzante, conciso, che non lasci pretesto all’interpretazione delle parole, osservando che assai giureconsulti grandi anni e assai tomi spesero per commentare leggi confusamente scritte. Si baderà ancora a una religiosa esattezza della lingua italiana”. Questi erano gli intenti di Ugo Foscolo, quando ricevette l’incarico di scrivere il Codice penale militare per la Repubblica Cisalpina[4].

L’auspicio di Foscolo non è stato certamente recepito dai contemporanei estensori di leggi. La scrittura dei testi normativi in maniera comprensibile e chiara non è una priorità, anzi si può affermare che “l’abitudine a esprimere con incastri di subordinate la densità e la tortuosità delle precisazioni relative alle varietà delle situazioni possibili persiste nel tempo. Sembra anzi più marcata … nel nuovo codice di procedura penale[5].

Il legislatore persiste nel dimenticare gli auspici e gli ammonimenti che si susseguono nel tempo.

La recente produzione legislativa abbonda di esempi negativi: nell’ambito penalistico lart. 586-bis c.p., il reato di “utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”, introdotto dall’art, 2, comma 1, lettera c), d.lgs. 21/2018.

Norma redatta in maniera “complessa”, secondo la definizione di Cristina de Maglie[6]: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da euro 2.582,00 a euro 51.645,00 chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste dalla legge, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze”.

Altro esempio di scuola è il codice degli appalti.

Entrato in vigore nell’aprile del 2016, dopo pochi mesi aveva subito 180 correzioni formali legate alle imprecisioni del testo. Nel 2017 si sono rese necessarie una settantina di modifiche sostanziali per rendere il testo comprensibile e applicabile concretamente.

Non ci soffermeremo sulla tecnica utilizzata per la redazione del testo, è sufficiente sottolineare che l’art. 3 del codice degli appalti prevedeva ben 51 commi.

L’esame del testo del codice degli appalti, purtroppo fa emergere la carenza di chiarezza e comprensibilità delle norme.

Inoltre, la proliferazione e sovrapproduzione delle leggi con la conseguente creazione di procedure farraginose determina l’elefantiasi della burocrazia ed un sostanziale e diffuso scadimento della buona amministrazione. Tale assunto è riconosciuto dalla stessa pubblica amministrazione, al riguardo citiamo il lavoro di Basilica e Sepe, “Il linguaggio delle istituzioni pubbliche, ove si riconosce: “Il <burocratese>, cioè il ricorso dell’amministrazione ad un linguaggio oscuro e inaccessibile, è una realtà con cui i cittadini sono stati spesso e sono ancora costretti a misurarsi. A ciò si aggiunga che, come rilevano anche gli operatori economici, l’uso di un linguaggio astruso è motivo di ritardi, di inefficienze e di costi, che, a ben vedere, diminuiscono la competitività del sistema complessivo. Oggi lo scenario è mutato profondamente. Già a partire dagli anni Ottanta si hanno i primi studi del problema, che però rimangono ancora limitati al solo mondo universitario e scientifico. In anni più recenti si sono cominciati a realizzare importanti cambiamenti nel modo in cui le Pubbliche amministrazioni si confrontano con i cittadini … Da qui una crescente sensibilità delle stesse amministrazioni pubbliche verso le cosiddette attività di servizio.

In tal contesto, sempre più importante diventa rimuovere le barriere costituite dal linguaggio burocratico oscuro e farraginoso: si deve rendere cioè sistematico l’uso di un linguaggio chiaro, anche attraverso l’introduzione di regole e di criteri. Informazioni complete e comunicate con un linguaggio comprensibile non solo garantiscono una piena attuazione del principio di uguaglianza fra i cittadini, ma favoriscono anche il rispetto delle leggi. La trasparenza comunicativa consente di limitare l’arbitrarietà nell’interpretazione e nell’attuazione delle norme”[7].

Sintomatico è il caso segnalato dall’Osservatorio Conti Pubblici Italiani[8] in merito alle “Procedure eccessive”: si tratta di casi in cui gli utenti sottolineano la complessità degli adempimenti necessari per esigenze piuttosto semplici. Tra i più lampanti episodi c’è il racconto di un cittadino che ha segnalato le difficoltà nell’accedere alle detrazioni di imposta spettanti per l’installazione di impianti per il risparmio energetico: alcuni passaggi della procedura risultano complicati al punto da rendere necessaria la consulenza di un professionista; richiedere tale intervento ha, però, un costo che elimina la convenienza della detrazione d’imposta. Dunque, l’eccessiva complessità burocratica rende inefficace quello che dovrebbe essere un incentivo al risparmio energetico (normativa sull’ecobonus, Legge di bilancio n. 145 del 30.12.2018).

Anche l’ecobonus al 110% introdotto di recente presenta circa 190 adempimenti a carico del cittadino e della ditta che dovrà eseguire i lavori.

Il paradosso segnalato è indicativo della distanza siderale che sussiste tra il fine che dovrebbe avere la norma (chiarezza, fruibilità, applicabilità, comprensibilità e semplicità) e la sua concreta realizzazione nella pratica quotidiana.

Tale “distanza” è dovuta alle modalità di redazione delle norme, farcite da commi, incisi e subordinate e al groviglio legislativo determinato da una sovrapproduzione di leggi e regolamenti.

La normativa penale sull’ambiente e quella penale comunitaria sono esempi inarrivabili di “abuso di sigle e di rinvii[9].

Prendiamo ad esempio, l’art. 137, 1, 2, 3 “Sanzioni penali” del d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (T.U. ambientale): “1. Fuori dai casi sanzionati ai sensi dell’articolo 29 quattuordecies, comma 1, chiunque apra o comunque effettui nuovi scarichi di acque reflue industriali, senza autorizzazione, oppure continui ad effettuare o mantenere detti scarichi dopo che l’autorizzazione sia stata sospesa o revocata, è punito con l’arresto da due mesi a due anni o con l’ammenda da millecinquecento euro a diecimila euro [318 bis e ss., 129 att. c.p.p.].

2. Quando le condotte descritte al comma 1 riguardano gli scarichi di acque reflue industriali contenenti le sostanze pericolose comprese nelle famiglie e nei gruppi di sostanze indicate nelle tabelle 5 e 3/A dell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto, la pena è l’arresto da tre mesi a tre anni e dell’ammenda da 5.000 euro a 52.000 euro [318 bis e ss., 129 att. c.p.p.].

3. Chiunque, al di fuori delle ipotesi di cui al comma 5, o di cui all’articolo 29 quattuordecies, comma 3, effettui uno scarico di acque reflue industriali contenenti le sostanze pericolose comprese nelle famiglie e nei gruppi di sostanze indicate nelle tabelle 5 e 3/a dell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto senza osservare le prescrizioni dell’autorizzazione, o le altre prescrizioni dell’autorità competente a norma degli articoli 107, comma 1, e 108, comma 4, è punito con l’arresto fino a due anni [318 bis e ss., 129 att. c.p.p.].”

Sempre a proposito di tecniche legislative farraginose, indichiamo il decreto Cura Italia che il Governo Conte ha redatto nel seguente modo: all’articolo 68, comma 2 si legge: “Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche agli atti di cui all'articolo 9, commi da 3-bis a 3-sexies, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, e alle ingiunzioni di cui al regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, emesse dagli enti territoriali, nonché agli atti di cui all'articolo 1, comma 792, della legge 27 dicembre 2019, n. 160”.

Notiamo il rimando addirittura a un regio decreto del 1910, ovvero 110 anni fa, ma anche uno al 1931 e un altro al 1942.

L’uso reiterato di rinvii a decreti, regolamenti e leggi precedenti crea un ginepraio inestricabile. Tutto ciò, nonostante i continui proclami alla semplificazione e chiarezza ma soprattutto in spregio di una legge dello Stato (l. 69/2009 il cui art. 3 prevede: “ogni rinvio ad altra norma contenente disposizioni legislative” deve indicare “in forma integrale o sintetica”, ma prima di tutto “di chiara comprensione” la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento).

La redazione di norme oscure con continui riferimenti a norme precedenti, commi e virgole sono indici di improprietà compositive e tecnicismi che complicano ed oscurano i modi di esprimersi del nostro legislatore. Da ultimo, si veda il d.p.c.m. del 17 maggio 2020 che consta di 11 articoli con commi composti da periodi lunghi e dalla scarna punteggiatura, interi alfabeti di lettere e una struttura confusionaria.  

Alle difficoltà di comprensione dovute alle ambiguità nella redazione delle norme (sia in riferimento all’uso delle parole che alla struttura del testo) si aggiunge - ad aggravare il quadro - una difficoltà in tema di fonti normative: un mare magnum di richiami a decreti, ordinanze, linee guida, protocolli[10].

Ricordiamo la battuta di Francesco Carnelutti: “In Italia ci saranno duecentomila leggi diverse. Per fortuna sono temperate da una generale inosservanza”.

 

2. Linguaggio del giudice e dell’avvocato

Nella parte introduttiva ci siamo soffermati sul linguaggio scritto del legislatore, ora vogliamo occuparci dei giudici e degli avvocati che non sono esenti da colpe nel rendere il lessico giuridico astratto e involuto.

Quando la vita vissuta entra in una aula di giustizia viene trasformata da una lingua che ne altera i contenuti.

Questo breve estratto di una motivazione della Suprema Corte, risulta più calzante di mille citazioni: “… Lo sciatore che si trovi a monte, nello spostarsi sulle piste, data la sua posizione dominante con possibilità di visione del luogo sottostante, deve regolare la propria condotta in modo da evitare interferenze del proprio movimento con la traiettoria dello sciatore che si trovi a valle[11].

La Cassazione ci costringe a scomodare Calvino e la verbalizzazione tragicomica di un furto di fiaschi di vino[12].

Vengono in mente le parole usate da un collegio del riesame in un’ordinanza:” Orbene il Collegio è tenuto ad accertare se fra le due citate ordinanze restrittive, quella del 21 maggio 2007 e quella del 16 marzo 2009, sia o meno riscontrabile un’artificiosa diluizione delle imputazioni attraverso l’emissione di plurime ordinanze in tempi diversi. Cioè se sussistono o meno le condizioni indicate dall’art. 297.3 c.p.p. (anteriorità dei fatti, loro identità o connessione e desumibilità dagli atti) per l’unificazione dei termini custodiali relativi ai due predetti titoli cautelari e la conseguente retrodatazione del termine fasico dell’ultima ordinanza coercitiva”.

Nel leggere il passaggio motivazionale del tribunale, ci rendiamo conto della fuga operata dalla concretezza della parola con l’uso di un linguaggio apparentemente tecnico ma in realtà formato da parole o locuzioni usate per donare una formalità e sacralità vuota e priva di chiarezza all’enunciato.

Il tribunale avrebbe potuto scrivere:” La questione da risolvere è la seguente: se ricorrano le condizioni indicate dall’art. 297.3 c.p.p. e dunque se i termini della custodia cautelare vadano fatti decorrere dall’esecuzione della prima ordinanza”.

Siamo così assuefatti alla trasformazione del parlato che nella prassi giudiziaria si arriva addirittura ad inventarsi delle parole: “endoprocedimentale”. Termine che non troverete in alcun vocabolario e sarebbe meglio sostituire con “interno al procedimento”.

Anche noi avvocati ci mettiamo del nostro per rendere oscuro il linguaggio e lo scritto giuridico. Citiamo degli esempi che sentiamo quotidianamente in una aula di giustizia: “nella denegata ipotesi, reiezione della domanda, proceduto all’escussione di un teste, retrodatazione del termine fasico”. Sono tutti pseudotecnicismi che ostacolano la comprensibilità e circoscrivono la comunicazione ai soli “specialisti”.

Una sorta di lingua esclusiva, condita da arcaismi, stereotipi, opacità che si insegna sin dall’Università agli “iniziati”.

Come acutamente scritto da un ex magistrato: “Ci sono giudici o avvocati con i quali non puoi evitare di parlare in modo orribile. Se in un’arringa o una requisitoria parli in italiano corretto, non ti riconoscono come uno del mestiere. Sei uno a cui non dare credito. Il gergo dei giuristi è la lingua straniera che si impara già dall’Università per essere ammessi nella corporazione. È una lingua tanto più apprezzata quanto più è capace di escludere i non addetti ai lavori dalla comprensione di quello che avviene nelle aule di giustizia e di quello che si scrive negli atti giudiziari[13].

Tutto questo determina un senso di ostilità ed estraneità dal “legalese”, da parte dei cittadini, che dovrebbero invece rivendicare il loro diritto di essere messi in grado di capire le leggi e le parole e gli scritti di chi le applica. Perché l’applicazione della legge incide sulla carne viva delle persone.

La chiarezza del diritto non è meno importante della sua certezza. “Un idea non può essere giuridica se non quando sia chiara, perché il diritto è arte di tracciare limiti; ed un limite non esiste se non quando sia chiaro”, scriveva il giurista Vittorio Scialoja[14].

   

3. Tipologie dei testi scritti

Secondo i linguisti, il testo scritto può essere classificato sulla base di diversi criteri che pervengono a classificazioni su base funzionale, interpretativa e relativa al canale di trasmissione utilizzato.

Citiamo in particolare il Modello funzionalista di Egon Werlich (1976) nel quale sono considerati parametri di tipo cognitivo-pragmatico quali: lo scopo che l'emittente si prefigge, il destinatario a cui intende rivolgersi e le circostanze in cui avviene lo scambio comunicativo. Questi parametri influenzano direttamente le caratteristiche linguistiche del testo (le scelte lessicali, le caratteristiche della morfo-sintassi, l’uso dei tempi verbali etc.).

In questo modello si distinguono testi narrativi (racconti, novelle, romanzi…), testi descrittivi (parti di opere letterarie, resoconti di viaggio, di guide turistiche…), testi informativi (orari, avvisi scritti e orali, saggi…), testi argomentativi (discorsi politici, articoli di fondo, slogan pubblicitari…) e testi regolativi (istruzioni per l’uso, statuti, regolamenti…).

Facciamo l’esempio di un testo giuridico: la sua funzione è quella di indicare delle norme da rispettare e di imporre obblighi e divieti, secondo criteri di impersonalità e concisione e conseguentemente la scrittura si muove all’interno di formalismi e vincoli che debbono essere sostanzialmente rispettati.

Ne conseguono precise caratteristiche morfosintattiche (l’uso delle forme passive, del “si” impersonale, dell’imperfetto narrativo, degli incisi e delle apposizioni nominali) e da un punto di vista lessicale il ricorso a terminologie settoriali e lessici altamente tecnici. Tali caratteristiche linguistiche dei testi giuridici determinano un alto grado di condensazione semantica, con significativo distanziamento dalla lingua comune: per un non addetto ai lavori, un testo giuridico come anche un testo amministrativo appare un insieme indifferenziato e molto complesso in cui è difficile orientarsi per recuperare le informazioni ed i significati sottostanti.

Un ulteriore e pregnante contributo in merito alle tipologie dei testi, è fornito da Francesco Sabatini, il quale introduce una particolare differenziazione delle varie tipologie testuali, alla luce della maggiore o minore elasticità del rapporto che lega produttore e ricevente testuale.

Nell’ambito di questo modello, infatti, il criterio distintivo tra le tipologie si fonda sulla circostanza che il mittente e il destinatario del messaggio sono i poli della comunicazione: il produttore del testo deve porsi la questione se quest'ultimo verrà adeguatamente compreso dal fruitore, mentre il destinatario deve domandarsi quale sia la intenzione del mittente. Per alcune tipologie testuali, come ad esempio le leggi o i testi scientifici, l’interpretazione degli stessi è altamente vincolata, mentre per altri testi, come quelli poetici e i romanzi, l'interpretazione può essere plurima e differenziata. Sabatini parla di “patto comunicativo” tra creatore e fruitore del testo, espressione che sottolinea proprio il rapporto si instaura tra i due poli della comunicazione. In tal modo, superando la partizione generale stabilita da Werlich, Sabatini distingue testi con discorso molto vincolante (testi scientifici, tecnici, normativi, giuridici), testi con discorso mediamente vincolanti (testi espositivi, educativi, divulgativi) e testi con discorso poco vincolante (testi letterari prosastici e poetici).

In sostanza il testo giuridico si presenta come un tipo di scrittura molto vincolante, dove sono robuste le restrizioni alle interpretazioni e la strutturazione linguistica, sia da un punto di vista formale che funzionale, risponde a stabili e precisi schemi altamente codificati, ciò in quanto ella scala di vincolatività dei testi, quelli giuridico-normativi si trovano al vertice in ragione degli alti compiti civili e istituzionali propri[15].

Di contro, ad esempio, i libri scolastici dei nostri bambini sono considerati testi mediamente vincolanti, perché presentano solo alcune caratteristiche dei testi molto vincolanti: ordine di costruzione rigoroso, accurata suddivisione del testo in unità gerarchiche, frequenza di legamenti sintattici, dichiarazione esplicita di assiomi, principi, ipotesi, assenza di definizioni personali e soggettive, uso di formule, tabelle e grafici, uso di lessico nella sua funzione denotativa.

Ma i testi scolastici sono meno rigidi dei testi giuridici, poiché prevedono: molte ripetizioni e sinonimi, un uso contenuto del lessico specialistico, l’uso di parafrasi, esempi e frasi incidentali e un largo ricorso ad artifici tipografici per la messa in rilievo dei concetti salienti del testo (immagini, illustrazioni, schemi grafici).

 

4. Accessibilità dei testi

Le prime ricerche sulla accessibilità dei testi scritti nascono intorno agli anni ’20 e ‘30 e si propongono di indagare la comprensibilità di varie tipologie di testi in relazione alle possibilità di lettori diversi. Conseguentemente vengono prodotte numerose Liste di frequenze di parole (The Teacher’s Word Book, 1921, Basic English, 1923-1934, French word book, 1929, A basic list of spanish words, 1933) e numerosi Indici di leggibilità, ovvero formule matematiche per il calcolo della facilità di lettura di un testo (readability), in relazione alla lunghezza delle parole e delle frasi (Indice di Flesch, di Kincaid, di Gunning’s Fog).

Sarà il filosofo Paul Grice a dare un enorme contributo all’uso delle parole in un discorso in relazione ai significati di un testo ed alla comunicazione orale e scritta, fissando secondo un Principio di Cooperazione, quattro regole fondamentali alla conversazione fra individui:

Massima di Quantità: “Fornisci l’informazione necessaria”.

Massima di Qualità: “Sii sincero”.

Massima di Relazione: “Sii pertinente”.

Massima di Modalità: “Sii chiaro”.

Le quattro regole di Grice sono state completamente ignorate dal nostro legislatore in tema di tortura.

L’art. 613 bis c.p., recita: “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Se i fatti al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni. Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti. Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà. Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo”.

La lettura dell’articolo lascia un senso di frastornamento, la norma risulta nebulosa, opaca e Tullio Padovani arriva a definirla: “ La Convenzione internazionale contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984, entrata in vigore per l’Italia l’11 febbraio 1985, impone (art. 4) ad ogni Stato-parte di vigilare «affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressione nei confronti del suo diritto penale» e di rendere «tali trasgressioni passibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità». Il nostro – si sa – è un paese ad alto tasso di ponderazione, lesto nel promettere e cauto nel mantenere, pronto all’impegno e riluttante all’adempimento: tanto riflessivo da risultare meditabondo. Più di ventott’anni son trascorsi, ed alla fine, il patrio legislatore, dopo un andirivieni mortificante tra legislature ed esami parlamentari, ha inteso rendere ossequio e prestare osservanza all’obbligo internazionale assunto prima ancora della caduta del muro di Berlino. Meglio tardi che mai, verrebbe fatto di dire; e così si direbbe in effetti, se ci si limitasse alla lettura della rubrica dell’art. 613 bis c.p. introdotto dall’art. 1, c.1, l. 14 luglio 2017, n. 110: un icastico «Tortura». Ma la lettura del testo induce ad un più desolato giudizio: meglio mai. Meglio il bollo della vergogna per lo sconcio inadempimento, che la vergogna di un adempimento apparente, ipocrita nella forma, dissennato nei contenuti, miserando nella finalità. La lista delle improntitudini è tanto lunga che ad esporla in tutti i punti col dovuto rigore serve un saggio, se non una monografia: le fattispecie ‘capovolte’ che sono, in qualche modo, il simmetrico contrario di principi, regole, norme su cui si erge il sistema, lo evocano, scuotendolo in ogni sua parte; sì che su di esse dovrebbe riversarsi la reazione del sistema tutto, così come, in presenza di una cellula cancerosa, si mobilita, per eliminare l’intrusa pericolosa, l’intero sistema immunitario: quando è efficiente, però; altrimenti è il cancro che si sviluppa[16].

A proposito di opacità e vaghezza come vogliamo definire gli esempi relativi alla legittimazione del concorso esterno in associazione mafiosa o quando la giurisprudenza della Cassazione ha creato la “mafia silente” e definizioni quanto mai vaghe e sfuggenti “organizzazioni inerti” o “riscontro di un clima di assoggettamento all’interno di uno o più contesti di vita sociale”. Quando il legislatore eleva a 22 anni e sei mesi di reclusione la pena massima per l’ipotesi aggravata del delitto di scambio elettorale politico-mafioso (cioè ad un livello prossimo alla pena per l’omicidio), questo cambiamento nella piramide valoriale dei beni considerati primari ai fini della tutela penale è stato spiegato con chiarezza e sincerità ai cittadini?

In Italia, nel 1987 un gruppo di linguisti dell’Università La Sapienza di Roma si riunisce attorno a Tullio De Mauro per costituire il GULP (Gruppo Universitario Linguistico Pedagogico), che studia la comprensibilità di un corpus di testi in diversi lettori. Nasce l’indice GULPEASE che considera: la leggibilità di un testo rispetto al livello di scolarizzazione del lettore e il numero di lettere per parola e il numero di parole per frase.

I lettori con istruzione elementare leggono facilmente i testi che presentano un indice superiore a 80.

I lettori che hanno un’istruzione media leggono facilmente i testi che presentano un indice superiore a 60.

I lettori che hanno un’istruzione superiore leggono facilmente i testi che presentano un indice superiore a 40.

Così, ad esempio, l’ordinamento scolastico prevede che un testo scolastico dovrebbe avere un indice Gulpease di valore numerico superiore a 60, per garantirne una buona leggibilità.

Intanto, nasce anche il Vocabolario di base della lingua italiana (VdB) di De Mauro (1980) che valuta la complessità lessicale di un testo. Comprende oltre 7000 parole suddivise in vocabolario Fondamentale (2000 parole), vocabolario di alto uso (2750 ca.), vocabolario di alta disponibilità (2300 ca.).

Sappiamo che l’accessibilità dei testi dipende in gran parte da due aspetti: la leggibilità e la comprensibilità.

La leggibilità si riferisce agli aspetti formali, prettamente linguistici del testo: il lessico, la morfologia, la sintassi. Dipende dalla struttura delle frasi, dalla loro lunghezza e da quella delle parole che le compongono, cioè dipende da fattori quantitativi ed è pertanto misurabile, consentendo di confrontare la leggibilità di testi differenti. 

La comprensibilità si riferisce alle caratteristiche funzionali e linguistiche dei contenuti ed alla organizzazione logico-contestuale delle informazioni.  Dipende dai criteri di scrittura e di riscrittura dei testi, dalla scelta dei contenuti e dalla loro presentazione in unità informative coerenti. Risente della vicinanza o meno dei contenuti alle conoscenze del lettore.

La comprensibilità non è misurabile e un testo si considera comprensibile quando:

  • è ben tematizzato, quando cioè tema centrale e informazioni di ampliamento sono ben collegati
  • non è troppo denso sotto il profilo informativo
  • le inferenze sono adeguate alle conoscenze dei lettori
  • le intenzioni comunicative sono ben segnalate. (Zambelli 2014)

Un contributo fondante viene offerto dai principi della scrittura controllata.

Affinchè un materiale sia facile da leggere occorre scriverlo in modo semplice e chiaro.

Chiamata anche Easy to read, plane writing, scrittura piana, scrittura semplice, la scrittura controllata promuove il diritto alla informazione per tutti. È un tipo di scrittura facilmente leggibile anche da persone con problemi cognitivi, di lingua diversa, da persone con un basso titolo di studio.

Essa si muove dall’assunto che leggere ed informarsi sia un diritto inconfutabile e che per poter essere dei buoni cittadini, ma anche per sapersi orientare nell’amministrazione, abbiamo bisogno che questo diritto venga rispettato.

Ma a che punto siamo con la lingua del diritto?

La scarsa accessibilità della lingua del diritto è stata spesso oggetto di critiche mosse da prospettive diverse (i giuristi stessi, i linguisti, e soprattutto i cittadini comuni)[17].

Nella direzione di una semplificazione dei testi giuridici, in alcuni paesi europei sono stati raggiunti alcuni risultati concreti già da molti anni.

Un esempio su tutti è quello della Svezia, che già dagli anni Settanta ha istituito la figura del “tutore della lingua”, un esperto di questioni linguistiche e di aspetti della semplificazione che affianca i tecnici delle materie da legiferare e partecipa alle riunioni del Consiglio dei Ministri, nella direzione di vigilare sulla comprensibilità dei testi e delle proposte di legge finali.

Anche negli Stati Uniti il problema della accessibilità dei testi scritti è in evidenza da più di un secolo: 29 stati hanno firmato il “Plan Language Act”, una “Legge sul parlar chiaro” che impone alle aziende di scrivere con linguaggio chiaro e comprensibile qualsiasi tipo di messaggio.

Questa normativa stabilisce di usare come criterio di leggibilità il sopradetto indice di Flesch: tutti i documenti pubblici devono avere un indice di leggibilità non inferiore a 45.

L’accessibilità e la comprensione del linguaggio istituzionale sono prese molto sul serio negli Stati Uniti. Nel 2010 il presidente Obama ha firmato il Plain Writing Act, in cui si ribadisce l’obbligo per le agenzie governative, di esprimersi in una lingua comprensibile a tutti.

In Italia il dibattito in materia di miglioramento dell’accessibilità di testi giuridici sembra essere più impegnativo ma a partire dagli anni Novanta la consapevolezza per una maggiore attenzione alla redazione di testi giuridici scritti in un linguaggio chiaro e comprensibile sta determinando lo sviluppo di un dibattito che vede al centro il legislatore, il quale all’atto di creare la norma debba tener conto del modo in cui viene espressa e ricevuta.

Una sentenza (n. 364 del 23 marzo 1988) della Corte Costituzionale ammette che il cittadino possa ignorare la legge se formulata in modo incomprensibile.

La sentenza merita di essere letta per intero e pur con tutti i limiti al tema del presente scritto si riporta uno stralcio della stessa: “… a questo proposito, sottolineato che non è stato sufficientemente posto l'accento sulla diversità di due accezioni del termine colpevolezza. La prima, tradizionale, fa riferimento ai requisiti subiettivi della fattispecie penalmente rilevante (ed eventualmente anche alla valutazione di tali requisiti ed alla rimproverabilità del soggetto agente); la seconda, fuori dalla sistematica degli elementi del reato, denota il principio costituzionale, garantista (relativo alla personalità dell'illecito penale, ai presupposti della responsabilità penale personale ecc.) in base al quale si pone un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario nell'incriminazione dei fatti penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente indicati i necessari requisiti subiettivi minimi d'imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può legittimamente essere sottoposto a pena. Qui si userà il termine colpevolezza soprattutto in quest'ultima accezione mentre lo stesso termine, all'infuori della prospettiva costituzionale (nell'impossibilità di ritenere "costituzionalizzata", come si preciserà fra breve, una delle tante concezioni della colpevolezza proposte dalla dottrina) verrà riferito al vigente sistema ordinario di cui agli artt. 42, 43, 47, 59 ecc. c.p.: questo sistema verrà, infatti, posto in raffronto con l'art. 27, primo e terzo comma e con i fondamentali principi dell'intera Costituzione, al fine di chiarire come l'art. 5 c.p., incidendo negativamente sul sistema ordinario della colpevolezza (attraverso l'esclusione d'ogni rilievo della conoscenza della legge penale) fa sì che lo stesso sistema non si riveli adeguato alle direttive costituzionali in tema di requisiti subiettivi minimi d'imputazione.

Va, a questo punto, precisato, per quanto, forse, superfluo, che la colpevolezza costituzionalmente richiesta, come avvertito dalla più recente dottrina penalistica, non costituisce elemento tale da poter esser, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o paradossalmente eliminato. Limpidamente testimonia ciò la stessa recente, particolare accentuazione della funzione di garanzia (limite al potere statale di punire) che le moderne concezioni sulla pena attribuiscono alla colpevolezza. Sia nella concezione che considera quest'ultima "fondamento", titolo giustificativo dell'intervento punitivo dello Stato sia nella concezione che ne accentua particolarmente la sua funzione di limite allo stesso intervento (garanzia del singolo e del funzionamento del sistema) inalterato permane il "valore" della colpevolezza, la sua insostituibilità.

Per precisare ancor meglio l'indispensabilità della colpevolezza quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale vale ricordare non solo che tal sistema pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo stesso sistema, allo scopo d'attuare compiutamente la funzione di garanzia assolta dal principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su "congrui" elementi subiettivi. La strutturale "ambiguità" della tecnica penalistica conduce il diritto penale ad essere insieme titolo idoneo d'intervento contro la criminalità e garanzia dei c.d. destinatari della legge penale. Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento. Il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d'azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella "non colpevole" e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto”.

 

5. Buone prassi per la redazione della norma

Dunque, per quanto sia innegabile che la lingua giuridica ed i testi ad essa correlata presentino vincoli e formalismi insormontabili per complessità, settorialità ed eterogeneità dei contenuti trasmessi, appare attualmente consolidata la necessità di migliorarne la comprensibilità in relazione al vasto pubblico, quanto mai eterogeneo cui ci si rivolge.

Comprensibilità che deriva direttamente dall’intelligibilità della scrittura della norma e dalla sua chiarezza e accessibilità a tutti i cittadini e dal rispetto delle regole di struttura della norma[18].

Scrive Bice Mortata Garavelli: “Per quanto riguarda la struttura delle norme, una delle regole principali che governano la stesura delle leggi fa un riferimento esplicito alla distribuzione delle parti costitutive”, che sono la fattispecie e il comando.

Secondo Cassese: “bisogna determinare il caso presupposto poi dettare le conseguenze. In Italia, nella maggior parte delle norme, la prima parte non è ben definita”, perché “l’attenzione è concentrata sulla seconda parte; non ci si rende conto che la definizione fa parte anch’essa della norma, perché questa non consiste soltanto nella prescrizione, ma anche nella definizione dell’area a cui la prescrizione si applica[19]”.

In questo breve scritto abbiamo rappresentato la situazione di evidente “degrado” nelle tecniche redazionali delle norme che le rendono incomprensibili ai più.

La situazione sembra incancrenita nonostante proclami di semplificazione che sono previsti dalla legge n. 69 del 18 giugno 2009.

Abbondano anche raccomandazioni, decreti, manuali che prevedono indicazioni, regole e suggerimenti su come redigere testi e sentenze. In Cassazione il Presidente della Corte Giovanni Canzio il 28 aprile del 2016 ha emesso un decreto “sulla motivazione semplificata di sentenze penali”. 

Tutto ciò è encomiabile ma non può bastare per modificare una sedimentazione verbosa di stili paludati ed incomprensibili, come argutamente scrive Nicola Triggiani: “D’altronde, se, come poc’anzi sottolineato, non è verosimile che lo stile delle sentenze possa mutare “per decreto”, è altrettanto improbabile che possa mutare spontaneamente. È necessario, quindi, incidere alla radice del fenomeno, intervenendo sulla formazione linguistica degli studenti dei corsi di laurea magistrale in «Giurisprudenza».

In effetti, se si analizzano la struttura e l’articolazione di tali corsi, ci si rende conto che essi sono pervicacemente ancorati all’oralità: sono rarissimi i casi in cui gli studenti vengono chiamati a redigere un testo scritto; anche gli esami si svolgono nella forma del colloquio orale20. Sembra paradossale, ma nonostante agli operatori del diritto sia richiesta una competenza linguistica elevata e variegata, non è assolutamente prevista una formazione specifica e mirata alla redazione di atti e provvedimenti giudiziari. D’altra parte, molti sostengono che l’Università non debba avere una funzione professionalizzante, avendo come obiettivo soprattutto la formazione culturale in senso ampio dello studente. Questa impostazione potrebbe essere condivisibile, se ci fosse, però, poi un momento di raccordo in cui il laureato in giurisprudenza, che si affaccia al mondo delle professioni legali, venga avviato a redigere correttamente, in forma chiara e comprensibile per la maggior parte delle persone, atti e provvedimenti. In realtà questo momento non sussiste, né per gli aspiranti avvocati, né per gli aspiranti magistrati: nell’ambito delle Scuole di Specializzazione per le Professioni Legali, ad esempio, l’approfondimento finora si è concentrato soprattutto su “cosa” scrivere per il superamento dell’esame di abilitazione forense o per il concorso di accesso alla magistratura – ovvero sulle novità legislative e giurisprudenziali – e non su “come” scrivere. Insomma, durante il periodo degli studi universitari eventuali iniziative volte a far apprendere le abilità legali e le tecniche di redazione degli atti sono affidate alle scelte autonome dei singoli corsi di laurea – nei pochi spazi lasciati liberi nella griglia ministeriale degli insegnamenti curriculari – e soprattutto alla buona volontà dei singoli docenti, spesso sollecitati in tale direzione dagli stessi studenti. Dopo la laurea, tutto è lasciato alla pratica negli studi legali, ai corsi di formazione organizzati dalle scuole degli ordini professionali o delle associazioni forensi e, ancora, al tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari. L’assenza di una formazione linguistica istituzionale genera una conseguenza importante: la tendenziale aderenza alla ripetizione inerziale di modelli e moduli linguistici “sbagliati”, ma ormai consolidati dalla tradizione. Il risultato è che aspiranti avvocati e magistrati imparano a scrivere atti e provvedimenti in uno stile paludato, verboso, oscuro, ricco di latinismi, di frasi fatte, di pseudotecnicismi e, soprattutto, di tante parole ed espressioni assolutamente superflue e inutili[20].

Nel campo dell’insegnamento giuridico, l’Università di Pavia ha avvertito la necessità di istituire nel 2017 un Master universitario di primo livello, a docenza congiunta, dal titolo “La lingua del diritto. Comprensione, elaborazione e applicazioni professionali”.

Al centro delle attività di redazione il Master metterà proprio la chiarezza degli atti giuridici e quindi la funzione comunicativa delle norme verso i cittadini, un aspetto centrale per la democraticità degli ordinamenti contemporanei caratterizzati da molteplici livelli di produzione normativa. Nell’era infatti della digitalizzazione, migliorare l’accesso all’informazione dei testi legislativi sta diventato una questione fondamentale.

L’Unione europea ha posto tra i suoi obiettivi più ambiziosi quello di provvedere ad una «smart, sustainable and inclusive growth» grazie alla quale l’informazione sia facilmente accessibile, lo scopo è quello “di mettere a punto metodi per ridurre le inutili complessità create dalle burocrazie di tutta Europa, complessità che non fanno altro che rallentare lo sviluppo nazionale e internazionale. Al contrario, attività di semplificazione burocratico-legislativa consentirebbero agli Stati, e ai privati, di risparmiare tempo, impegno e risorse finanziarie[21].

 

6. Una riflessione conclusiva: linguaggio e democrazia

Un tema si intravede sul fondo di queste nostre brevi considerazioni ed è quello che riguarda il rapporto tra linguaggio e democrazia.

Nel 1977, in occasione della lezione inaugurale Collège de France, Barthes disse che il linguaggio stesso è una legislazione, di cui la lingua è il codice[22].

In termini analoghi, il linguista Roman Jakobson ha sottolineato come la lingua consenta di realizzare una molteplicità di funzioni: una funzione conoscitiva, di conoscenza degli oggetti del mondo; una funzione emotiva o espressiva, deputata a esprimere il nostro atteggiamento individuale; una funzione conativa, che ci consente di agire sul destinatario delle nostre parole; una funzione fatica, con cui creiamo contatto e relazione con l’altro; una funzione metalinguistica, che parla sul linguaggio stesso; una funzione poetica, cioè funzionale alla creazione mediante parole[23].  Si tratta di funzioni che possono essere esercitate solo entro determinati perimetri (la grammatica, il sistema dei fonemi, la sintassi, il lessico, le regole retoriche e argomentative). Dunque, la lingua ci consente di dire, ma in un certo modo.

Non solo: la lingua determina anche la nostra esperienza, perché ci fornisce classificazioni e ripartizioni già pronte, vale a dire un ordine del mondo. Parlando una lingua, confermiamo in fondo la nostra appartenenza a una cultura e a uno stile di vita determinato.

Ecco perché per Barthes nel linguaggio si nasconde il principio primo del potere: perché il potere, che diffuso, è ubiquamente presente "nei più delicati meccanismi dello scambio sociale: non solo nello Stato, nelle classi, nei gruppi, ma anche nelle mode, nelle opinioni comuni, negli spettacoli, nei giochi, negli sport, nelle informazioni, nei rapporti familiari e privati, e persino nelle spinte liberatrici che cercano di contestarlo"[24], agisce attraverso la lingua che parliamo. Quando parliamo, lungi dall'essere creatori dei nostri segni linguistici, siamo in realtà condizionati da quel potere che si annida nei nostri discorsi.

Dunque, se il potere della lingua è un dominio diffuso nel corpo sociale risulta fondamentale per la convivenza civile la trasparenza e la comprensibilità del linguaggio della legge.

Il motivo potrebbe apparire banale se non fosse spesso dimenticato: la legge è uno dei linguaggi specialistici socialmente più rilevanti, in quanto presiede alla regolamentazione delle manifestazioni e degli aspetti dei rapporti intersoggettivi, e quindi della nostra vita comune nella polis[25].

Dunque le norme sono fondamentali strumenti al fine della convivenza sociale e il linguaggio che le forma deve essere il più possibile accessibile a tutti i cittadini, affinché possano esercitare quel diritto e quel dovere, previsti dalla Costituzione, di verificare l'operato dei rappresentanti in Parlamento, operato che si manifesta nell'attività normativa.

L'esigenza di chiarezza nei testi normativi appare ancora più urgente se consideriamo come, secondo quanto riferito da “Il Sole 24 Ore”, nel 2018 gli italiani classificati come “analfabeti funzionali” sarebbero più del 47% della popolazione (https://www.infodata.ilsole24ore.com/2018/03/21/anche-tu-un-analfabeta-funzionale/). Si tratta di coloro che sanno leggere e scrivere ma hanno difficoltà a comprendere testi semplici, come le istruzioni di un elettrodomestico.        

Fuori da un modello di chiarezza e di leggibilità (e intelligibilità) il testo normativo rischia di rimanere confinato in una dimensione esoterica, riservata a pochi alfabetizzati e oscura per colui che dovrebbe per primo comprenderlo, cioè il cittadino medio (probabilmente analfabeta funzionale).

Concludiamo il contributo, con un pensiero di Louis Brandeis (avvocato e giurista statunitense, componente della Corte Suprema): “Se vogliamo che la legge venga rispettata, per prima cosa dobbiamo fare leggi rispettabili”.

 

[1] Silvestri, G., Le parole giuste - Scrittura tecnica e cultura linguistica per il buon funzionamento della pubblica amministrazione e della giustizia - Atti del convegno di presentazione del progetto di ricerca e formazione, tenutosi nella Sala Koch di Palazzo Madama, il 14 aprile 2016 – p. 114

[2] Quintiliano, Institutio Oratorie, VIII, 2, 22, Einaudi.

[3] Saggio riedito in Scarpelli, U., Diritto e analisi del linguaggio, Milano, 1976, pagg 287-324; pregevoli sono anche gli studi di G. Conte, A., Filosofia dell’ordinamento normativo, Torino 1997; CORTELAZZO, M., voce “Linguaggio giuridico-amministrativo” in l’Enciclopedia dell’italiano Treccani 2010-2011, Roma, a cura di SIMONE, R., con la collaborazione di BERRUTO, G., e D’ACHILLE, P.,; SERIANI, L., Il linguaggio giuridico, in Italiani scritti, Bologna 2012, pp. 121-157; ROVERE, G., Capitoli di linguistica giuridica. Ricerche su corpora elettronici, Alessandria 2005; CIGNETTI, L., voce "Testi prescrittivi” in Enciclopedia dell’italiano, vol. II, 2011, pp. 1482-1485; GUALDO, R., Il linguaggio giuridico, Giuffré, 2011; BARBERA, M., CARMELLO, M., ORNESTI, C., Traiettorie sulla linguistica giuridica, Torino 2014.

[4] MORTARA GARAVELLI, B., Le parole e la giustizia, Einaudi, 2001, pp. 99 e ss.

[5] MORTARA GARAVELLI, B., op. cit., p. 100.

[6] DE MAGLIE, C., La lingua del diritto Penale, in disCrimen, 30.04.2019.

[7] BASILICA, F., SEPE, S., Il linguaggio delle istituzioni pubbliche, Dipartimento per la Funzione Pubblica e Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.

[8] PALOMBA, R., Deposito disavventure burocratiche, Osservatorio Conti Pubblici Italiano del 17.09.2020.

[9] DE MAGLIE, C., op. cit.

[10] LAFFUSA, K., Il drafting normativo: lingua e diritto nella Biblioteca di Babele, in Giustizia Insieme, giugno 2020.

[11] Cass. pen., Sez. IV, n. 1258, dicembre 1996, CED 1997.

[12] CALVINO, I., Per ora sommersi dall’antilingua, pubblicato il 3 febbraio 1965 dal quotidiano “Il Giorno”.

[13] CAROFIGLIO, G., Con parole precise breviario di scrittura civile, Editore Laterza, 2015.

[14] CAROFIGLIO, G., La regola dell’equilibrio, Einaudi, 2014.

[15] Viale, M., Quale italiano per le leggi?, pubblicato nella sezione “Lingua Italiana” del sito Treccani.

[16] PADOVANI, T., Tortura: adempimento apparentemente tardivo, inadempimento effettivamente persistente, in Criminalia 2016, Edizioni ETS, pp. 27 e ss.

[17] SABATINI, F., Analisi del linguaggio giuridico. Il testo normativo in una tipologia generale dei testi, in D’ANTONIO, M., (a cura di) Corso di studi superiori legislativi 1988-1989, Padova 1990, pp. 675-724.

[18] BRUNATO, D., VENTURI, G., Le tecnologie linguistico-computazionali nella misura della leggibilità di testi giuridici, Informatica e diritto, XL annata, Vol. XXIII, 2014, n. 1.

[19] CASSESE, S., Introduzione allo studio della normazione, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, N. 2.

[20] TRIGGIANI, N., Sentenze penali Italian style, in Quaderni del dipartimento Jonico, N. 6/2017.

[21] BRUNATO, D., op. cit.

[22] BARTHES, R., Lezione inaugurale della cattedra di Semiologia letteraria del Collège de France pronunciata il 7 gennaio 1977, trad. it., Torino, 1981, p. 9. 

[23] JAKOBSON, R., Linguistica e poetica, in HEILMANN, L., (a cura di), Saggi di linguistica generale (1963), trad. it., Milano, 1966, pp. 185-191.

[24] BARTHES, R., op. cit.

[25] OPPENHEIM, F., Political Concepts. A Reconstruction, Oxford 1981; CHOMSKY, N., Language and Politics, Montréal, 1988; BONATE, L., NESI. N., (a cura di), Democrazia e diritti nell’opera di Bobbio, Milano, 2009.

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