Luigi Pirandello (1867-1936): La patente

Stanza del Giudice istruttore D’Andrea. Grande scaffale che prende quasi tutta la parete di fondo, pieno di scatole verdi a casellario, che si suppongono zeppe d’incartarnenti. Scrivania, sovraccarica di fascicoli, a destra, in fondo e, accanto, addossato alla parete di destra, un altro palchetto. Un seggiolone di cuojo per il Giudice, davanti la scrivania. Altre seggiole antiche. Lo stanzone è squallido. La comune è nella parete di destra. A sinistra, un’ampia finestra, alta, con vetrata antica, scompartita. Davanti alla finestra, come un quadricello alto, che regge una grande gabbia. Lateralmente a, sinistra, un usciolino nascosto.
Il giudice D’Andrea entra per la comune col cappello in capo e il soprabito. Reca in mano una gabbiola poco più grossa d’un pugno. Va davanti alla gabbia grande sul quadricello, ne apre lo sportello, poi apre lo sportellino della gabbiola e fa passare da questa nella gabbia grande un cardellino. D’Andrea: Via, dentro! - E su, pigrone! - Oh! finalmente... - Zitto adesso, al solito, e lasciami amministrare la giustizia a questi poveri piccoli uomini feroci.

Si leva il soprabito e lo appende insieme col cappello all’attaccapanni. Siede alla scrivania, prende il fascicolo del processo che deve istruire, lo scuote in aria con impazienza, sbuffa:

Benedett’uomo!

Resta un po’ assorto a pensare, poi suona il campanello e dalla comune si presenta l’usciere Marranca.

Marranca: Comandi, signor cavaliere!

D’Andrea: Ecco, Marranca: andate al vicolo del Forno, qua vicino; a casa del Chiàrchiaro.

Marranca (con un balzo indietro, facendo le corna): Per amor di Dio, non lo nomini, signor cavaliere!

D’Andrea (irritatissimo, dando un pugno sulla scrivania): Basta, perdio! Vi proibisco di manifestare così, davanti a me, la vostra bestialità, a danno d’un pover’uomo. E sia detto una volta per sempre.

Marranca: Mi scusi, signor cavaliere. L’ho detto anche per il suo bene!

D’Andrea: Ah, seguitate?

Marranca: Non parlo più. Che vuole che vada a fare in casa di... di questo... di questo galantuomo?

D’Andrea: Gli direte che il giudice istruttore ha da parlargli, e lo introdurrete subito da me.

Marranca: Subito, va bene, signor cavaliere. Ha altri comandi?

D’Andrea: Nient’altro. Andate.

Marranca esce, tenendo la porta per dar passo ai tre Giudici colleghi, che entrano con le toghe e i tocchi in capo e scambiano i saluti col D’Andrea, poi vanno tutti e tre a guardare il cardellino nella gabbia.

Primo giudice: Che dice eh, questo signor cardellino?

Secondo giudice: Ma sai che sei davvero curioso con codesto cardellino che ti porti appresso?

Terzo giudice: Tutto il paese ti chiama: il Giudice Cardello.

Primo giudice: Dov’è, dov’è la gabbiolina con cui te lo porti?

Secondo giudice (prendendola dalla scrivania a cui s’è accostato): Eccola qua! Signori miei, guardate: cose da bambini! Un uomo serio...

D’Andrea: Ah, io, cose da bambini, per codesta gabbiola? E voi, allora, parati così?

Terzo giudice: Ohè, ohè, rispettiamo la toga!

D’Andrea: Ma andate là, non scherziamo! siamo in "camera caritatis". Ragazzo, giocavo coi miei compagni «al tribunale». Uno faceva da imputato; uno, da presidente; poi, altri da giudici, da avvocati... Ci avrete giocato anche voi. Vi assicuro, che eravamo più serii allora!

Primo giudice: Eh, altro!

Secondo giudice: Finiva sempre a legnate!

Terzo giudice (mostrando una vecchia cicatrice alla fronte): Ecco qua: cicatrice d’una pietrata che mi tirò un avvocato difensore mentre fungevo da regio procuratore!

D’Andrea: Tutto il bello era nella toga con cui ci paravamo. Nella toga era la grandezza, e dentro di essa noi eravamo bambini. Ora è al contrario: noi, grandi, e la toga, il giuoco di quand’eravamo bambini. Ci vuole un gran coraggio a prenderla sul serio! Ecco qua, signori miei,

prende dalla scrivania il fascicolo del processo Chiàrchiaro

io debbo istruire questo processo. Niente di più iniquo di questo processo. Iniquo, perché include la più spietata ingiustizia contro alla quale un pover’uomo tenta disperatamente di ribellarsi, senza nessuna probabilità di scampo. C’è una vittima qua, che non può prendersela con nessuno! Ha voluto, in questo processo, prendersela con due, coi primi due che gli sono capitati sotto mano, e - sissignori - la giustizia deve dargli torto, torto, torto, senza remissione, ribadendo così, ferocemente, la iniquità di cui questo pover’uomo è vittima.

Primo giudice: Ma che processo è?

D’Andrea: Quello intentato da Rosario Chiàrchiaro.

Subito, al nome i tre Giudici, come già Marranca, danno un balzo indietro, facendo scongiuri, atti di spavento, e gridando.

Tutti e tre: Per la Madonna Santissima! - Tocca ferro! - Ti vuoi star zitto?

D’Andrea: Ecco, vedete? E dovreste proprio voi rendere giustizia a questo pover’uomo!

Primo giudice: Ma che giustizia! È un pazzo!

D’Andrea: Un disgraziato!

Secondo giudice: Sarà magari un disgraziato! ma scusa, è pure un pazzo! Ha sporto querela per diffamazione, contro il figlio del sindaco, nientemeno, e anche -

D’Andrea: - contro l’assessore Fazio -

Terzo giudice: - per diffamazione? -

Primo giudice: - già, capisci? perché dice, li sorprese nell’atto che facevano gli scongiuri al suo passaggio.

Secondo giudice: Ma che diffamazione se in tutto il paese, da almeno due anni, è diffusissima la sua fama di jettatore?

D’Andrea: E innumerevoli testimonii possono venire in tribunale a giurare che in tante e tante occasioni ha dato segno di conoscere questa sua fama, ribellandosi con proteste violente!

Primo giudice: Ah, vedi? Lo dici tu stesso!

Secondo giudice: Come condannare, in coscienza, il figliuolo del sindaco e l’assessore Fazio quali diffamatori per aver fatto, vedendolo passare, il gesto che da tempo sogliono fare apertamente tutti?

D’Andrea: E primi fra tutti vojaltri?

Tutti e tre: Ma certo! - È terribile, sai? - Dio ne liberi e scampi!

D’Andrea: E poi vi fate meraviglia, amici miei, che io mi porti qua il cardellino... Eppure, me lo porto - voi lo sapete - perché sono rimasto solo da un anno. Era di mia madre quel cardellino; e per me è il ricordo vivo di lei: non me ne so staccare. Gli parlo, imitando, così, col fischio, il suo verso, e lui mi risponde. Io non so che gli dico; ma lui, se mi risponde, è segno che coglie qualche senso nei suoni che gli faccio. Tale e quale come noi, amici miei, quando crediamo che la natura ci parli con la poesia dei suoi fiori, o con le stelle del cielo, mentre la natura forse non sa neppure che noi esistiamo.

Primo giudice: Séguita, séguita, mio caro, con codesta filosofia, e vedrai come finirai contento!

Stanza del Giudice istruttore D’Andrea. Grande scaffale che prende quasi tutta la parete di fondo, pieno di scatole verdi a casellario, che si suppongono zeppe d’incartarnenti. Scrivania, sovraccarica di fascicoli, a destra, in fondo e, accanto, addossato alla parete di destra, un altro palchetto. Un seggiolone di cuojo per il Giudice, davanti la scrivania. Altre seggiole antiche. Lo stanzone è squallido. La comune è nella parete di destra. A sinistra, un’ampia finestra, alta, con vetrata antica, scompartita. Davanti alla finestra, come un quadricello alto, che regge una grande gabbia. Lateralmente a, sinistra, un usciolino nascosto.
Il giudice D’Andrea entra per la comune col cappello in capo e il soprabito. Reca in mano una gabbiola poco più grossa d’un pugno. Va davanti alla gabbia grande sul quadricello, ne apre lo sportello, poi apre lo sportellino della gabbiola e fa passare da questa nella gabbia grande un cardellino. D’Andrea: Via, dentro! - E su, pigrone! - Oh! finalmente... - Zitto adesso, al solito, e lasciami amministrare la giustizia a questi poveri piccoli uomini feroci.

Si leva il soprabito e lo appende insieme col cappello all’attaccapanni. Siede alla scrivania, prende il fascicolo del processo che deve istruire, lo scuote in aria con impazienza, sbuffa:

Benedett’uomo!

Resta un po’ assorto a pensare, poi suona il campanello e dalla comune si presenta l’usciere Marranca.

Marranca: Comandi, signor cavaliere!

D’Andrea: Ecco, Marranca: andate al vicolo del Forno, qua vicino; a casa del Chiàrchiaro.

Marranca (con un balzo indietro, facendo le corna): Per amor di Dio, non lo nomini, signor cavaliere!

D’Andrea (irritatissimo, dando un pugno sulla scrivania): Basta, perdio! Vi proibisco di manifestare così, davanti a me, la vostra bestialità, a danno d’un pover’uomo. E sia detto una volta per sempre.

Marranca: Mi scusi, signor cavaliere. L’ho detto anche per il suo bene!

D’Andrea: Ah, seguitate?

Marranca: Non parlo più. Che vuole che vada a fare in casa di... di questo... di questo galantuomo?

D’Andrea: Gli direte che il giudice istruttore ha da parlargli, e lo introdurrete subito da me.

Marranca: Subito, va bene, signor cavaliere. Ha altri comandi?

D’Andrea: Nient’altro. Andate.

Marranca esce, tenendo la porta per dar passo ai tre Giudici colleghi, che entrano con le toghe e i tocchi in capo e scambiano i saluti col D’Andrea, poi vanno tutti e tre a guardare il cardellino nella gabbia.

Primo giudice: Che dice eh, questo signor cardellino?

Secondo giudice: Ma sai che sei davvero curioso con codesto cardellino che ti porti appresso?

Terzo giudice: Tutto il paese ti chiama: il Giudice Cardello.

Primo giudice: Dov’è, dov’è la gabbiolina con cui te lo porti?

Secondo giudice (prendendola dalla scrivania a cui s’è accostato): Eccola qua! Signori miei, guardate: cose da bambini! Un uomo serio...

D’Andrea: Ah, io, cose da bambini, per codesta gabbiola? E voi, allora, parati così?

Terzo giudice: Ohè, ohè, rispettiamo la toga!

D’Andrea: Ma andate là, non scherziamo! siamo in "camera caritatis". Ragazzo, giocavo coi miei compagni «al tribunale». Uno faceva da imputato; uno, da presidente; poi, altri da giudici, da avvocati... Ci avrete giocato anche voi. Vi assicuro, che eravamo più serii allora!

Primo giudice: Eh, altro!

Secondo giudice: Finiva sempre a legnate!

Terzo giudice (mostrando una vecchia cicatrice alla fronte): Ecco qua: cicatrice d’una pietrata che mi tirò un avvocato difensore mentre fungevo da regio procuratore!

D’Andrea: Tutto il bello era nella toga con cui ci paravamo. Nella toga era la grandezza, e dentro di essa noi eravamo bambini. Ora è al contrario: noi, grandi, e la toga, il giuoco di quand’eravamo bambini. Ci vuole un gran coraggio a prenderla sul serio! Ecco qua, signori miei,

prende dalla scrivania il fascicolo del processo Chiàrchiaro

io debbo istruire questo processo. Niente di più iniquo di questo processo. Iniquo, perché include la più spietata ingiustizia contro alla quale un pover’uomo tenta disperatamente di ribellarsi, senza nessuna probabilità di scampo. C’è una vittima qua, che non può prendersela con nessuno! Ha voluto, in questo processo, prendersela con due, coi primi due che gli sono capitati sotto mano, e - sissignori - la giustizia deve dargli torto, torto, torto, senza remissione, ribadendo così, ferocemente, la iniquità di cui questo pover’uomo è vittima.

Primo giudice: Ma che processo è?

D’Andrea: Quello intentato da Rosario Chiàrchiaro.

Subito, al nome i tre Giudici, come già Marranca, danno un balzo indietro, facendo scongiuri, atti di spavento, e gridando.

Tutti e tre: Per la Madonna Santissima! - Tocca ferro! - Ti vuoi star zitto?

D’Andrea: Ecco, vedete? E dovreste proprio voi rendere giustizia a questo pover’uomo!

Primo giudice: Ma che giustizia! È un pazzo!

D’Andrea: Un disgraziato!

Secondo giudice: Sarà magari un disgraziato! ma scusa, è pure un pazzo! Ha sporto querela per diffamazione, contro il figlio del sindaco, nientemeno, e anche -

D’Andrea: - contro l’assessore Fazio -

Terzo giudice: - per diffamazione? -

Primo giudice: - già, capisci? perché dice, li sorprese nell’atto che facevano gli scongiuri al suo passaggio.

Secondo giudice: Ma che diffamazione se in tutto il paese, da almeno due anni, è diffusissima la sua fama di jettatore?

D’Andrea: E innumerevoli testimonii possono venire in tribunale a giurare che in tante e tante occasioni ha dato segno di conoscere questa sua fama, ribellandosi con proteste violente!

Primo giudice: Ah, vedi? Lo dici tu stesso!

Secondo giudice: Come condannare, in coscienza, il figliuolo del sindaco e l’assessore Fazio quali diffamatori per aver fatto, vedendolo passare, il gesto che da tempo sogliono fare apertamente tutti?

D’Andrea: E primi fra tutti vojaltri?

Tutti e tre: Ma certo! - È terribile, sai? - Dio ne liberi e scampi!

D’Andrea: E poi vi fate meraviglia, amici miei, che io mi porti qua il cardellino... Eppure, me lo porto - voi lo sapete - perché sono rimasto solo da un anno. Era di mia madre quel cardellino; e per me è il ricordo vivo di lei: non me ne so staccare. Gli parlo, imitando, così, col fischio, il suo verso, e lui mi risponde. Io non so che gli dico; ma lui, se mi risponde, è segno che coglie qualche senso nei suoni che gli faccio. Tale e quale come noi, amici miei, quando crediamo che la natura ci parli con la poesia dei suoi fiori, o con le stelle del cielo, mentre la natura forse non sa neppure che noi esistiamo.

Primo giudice: Séguita, séguita, mio caro, con codesta filosofia, e vedrai come finirai contento!