N.G.M. Van Doornik: Caterina da Siena

Probabilmente i membri del governo Fiorentino ascoltarono con sincera meraviglia il lungo elenco di misfatti dei quali venivano accusati: Firenze aveva rotto l’alleanza col papa nella Lega, per stringerne un’altra (Lega toscana) contro di lui; beni della chiesa erano stati confiscati; un monaco, Niccolò, era stato assassinato a Prato; era stata rinfocolata la ribellione negli stati pontifici e Fiesole occupata (250 anni prima!); legati pontifici erano stati fatti prigionieri, e un altro di loro, l’abate Marmoutiers era stato gravemente offeso a Perugia, ecc. ecc..Come se non bastasse, tutti coloro che dal giugno 1375 in poi avevano preso parte al governo, venivano menzionati uno per uno e intimati a comparire in Avignone il 31 marzo seguente (1376). Erano in tutto 59. Non si può negare che molte accuse fossero fondate, e nemmeno la Signoria avrà creduto si trattasse di un ,gregge d’innocenti agnelli che il Pastore Supremo intendeva spaventare. Quei 59 non erano innocenti, e nemmeno erano agnelli. Un secolo prima molti di loro avrebbero preso quell’accusa come un verdetto del monarca universale in faccende spirituali e temporali. Ora erano abbastanza critici per scoprire in quel documento una certa labilità. In alcuni punti il papa parlava come primate della chiesa, in altri come re degli stati pontifici, e sullo sfondo risuonava ancor sempre qualcosa della massima potenza papale di un tempo.

La prima reazione dei fiorentini alle accuse papali non fu certamente di pentita sottomissione. Tuttavia, le accuse non vennero rigettate senz’altro. I membri del partito guelfo, che in quel momento facevano parte del governo fiorentino accanto ai ghibellini, dovettero esserne scossi nella coscienza, come lo fu certamente Niccolò Soderini, amico di Caterina, il quale aveva ricevuto recentemente da lei una lettera nella quale si leggeva fra l’altro: «lo ti supplico, Niccolò, per l’indescrivibile amore col quale Dio ci ha creati e redenti, di adoperarti con tutte le tue forze a mettere la pace fra i tuoi cittadini e la santa chiesa, affinché né tu né tutta la Toscana vi perdiate».

La maggioranza decise però di continuare come cominciato. Durante il mese di marzo non soltanto si unirono, come abbiamo già visto, alla Lega Pisa e Lucca, ma con l’assistenza di Firenze fu conquistata anche Bologna e l’aiuto degli stati pontifici in rivolta continuò. Per Avignone Hawkwood combatteva con le sue truppe in un modo che non poteva rispondere alle intenzioni del papa. Al grido di «Viva la chiesa!» i mercenari invasero Faenza per saccheggiarla e abusare delle sue donne. Lo stesso Hawkwood non riuscendo a ristabilire l’ordine senza dare un esempio terrificante, vedendo due capitani azzuffarsi per la stessa ragazza, non esitò a impugnare una daga per uccidere di propria mano la fanciulla.

Intanto il mese di marzo stava per scadere. L’ultimo giorno, quello del processo nella sala del palazzo pontificio di Avignone, non v’era ombra dei 59 governanti fiorentini convocati. Presenti erano soltanto i tre ambasciatori, per annunziare che gli accusati non potevano essere presenti «trovandosi tutti quanti rinchiusi in qualche prigione! ».

Il motivo di quell’assenza, addotto per beffa, non interessava Gregorio, riconosciuto come uno dei più grandi giuristi del suo tempo, uomo d’ordine e di giustizia. La prontezza nel decidere non era il suo forte, ma quando dopo lungo esitare entrava in azione, allora colpiva forte. Senza preoccuparsi dell’assenza degli accusati; ordinò l’apertura del processo dando lettura dell’accusa. Ciò ebbe luogo in una sala del Palazzo che viene ancor oggi illustrata ai turisti dalle guide: al tavolo del tribunale seggono le imponenti figure dei giudici, con nel mezzo il pontefice. Davanti al tavolo i tre ambasciatori fiorentini nei loro sfarzosi costumi toscani, intelligenti dottori in legge, orgogliosi e ragguardevoli, consapevoli della propria influenza, tutti in tensione perché coinvolti in un processo nel quale era in giuoco la libertà della loro città-stato, ma non meno l’onore della chiesa.

Il processo è stato accuratamente descritto da un cronista anonimo che annota di giorno in giorno le fasi dell’azione giuridica. Ne risulta che portavoce degli ambasciatori era un certo Donato Barbadori, avvocato arguto ed eloquente. Già all’inizio del processo, mentre si stava incominciando a leggere l’accusa e a un membro della corte papale venne un improvviso attacco di epilessia, il Barbadori scattò in piedi esclamando: «Sdraiatelo per terra, lì nel mezzo, affinché sua santità possa vederlo ». E subito dopo a Gregorio: «Guardate, Signore! Uomini della vostra corte già perdono i sensi prima ancora che l’ingiusta sentenza venga letta. Che mai accadrà quando sarà stata emessa? In nome di Dio, non pronunciate una sentenza così ingiusta! ».

Quando in situazioni del genere sono presenti degl’italiani, ci si può aspettare anche un dramma. Il Barbadori difende con linguaggio violento l’innocenza della Repubblica, descrive i misfatti dei legati pontifici e chiede infine il rinvio del processo affinché i capi del governo ora prigionieri «possano più tardi giustificarsi ». Chiunque lo interrompa, il Barbadori non si lascia togliere la parola. Per ora, gesticola, quasi impugna la spada dichiarando che gli sarebbe più caro morire che tacere davanti all’ingiustizia. Egli è peraltro abbastanza diplomatico per stimare a dovere l’atmosfera che regna nella sala. Sa benissimo che il giurista Gregorio è ferrato contro le arringhe più appassionate. Sa inoltre che la sua posizione va facendosi sempre più instabile e teme che fra poco il papa faccia la mosse di cui lui, Barbadori, e tutto il governo fiorentino hanno una paura da morire. E del resto il motivo dell’ambasceria era unicamente quello di sventare appunto quella mossa.

Ma la mossa arriva. Gregorio si alza. Ormai ha deciso. In quel momento è l’uomo dall’arma irresistibile: la scomunica! Scomunica per gli otto commissari e; per i 51 governanti. Interdetto per tutta Firenze e per tutti i fiorentini fuori della città. Come termine per riflettere e per tornare pentiti ad Avignone, come a nuova Canossa: due mesi. Altrimenti ...

Qui il papa agisce da potente universale del medioevo. Per la scomunica il credente veniva a trovarsi estromesso dalla comunità (ex-communitate). Ma dato che in questo caso si pensava secondo lo spirito dell’unico sacro romano impero, nel quale chiesa e mondo erano assunti entrambi, il fedele scomunicato non veniva a trovarsi soltanto fuori dalla chiesa, ma anche fuori dallo stato. Non veniva escluso soltanto dai sacramenti, salvo che in pericolo di morte, ma era morto anche civilmente, cosi da non poter più compiere alcuna azione giuridica valida. Era come un lebbroso, dal quale si doveva tenersi lontani.

L’interdetto sopra una città era ancora più grave. Poteva escludere un dato territorio dal resto del mondo in campo sociale ed economico. La minaccia di Gregorio comprendeva la confisca di tutti i beni dei fiorentini, il divieto a tutti i governi e a tutte le persone non fiorentine di prendere contatto con fiorentini, la revoca di tutti i privilegi, la rottura di tutti i contatti e il condono di tutti i debiti contratti con fiorentini.

Ci troviamo dunque davanti a provvedimenti che oggi non possiamo più capire. Che il capo della chiesa di Cristo ritenesse di poter prendere misure del genere per costringere all’obbedienza, è atteggiamento accettabile soltanto da chi è cresciuto al tempo dei papi-re, e nel loro ambiente.

Nel 1376, quell’ambiente aveva già perduto importanza. Il re di Francia, tanto per portare un esempio, ben poco si curava di evitare contatti con scomunicati. Molti fiorentini non riconoscevano già più l’autorità del papa in simili questioni, e gli stati pontifici rifiutavano ben altri doveri che quelli verso le città colpite da interdetto. Tuttavia la situazione poteva farsi gravissima, peggiorata dal fatto che nel porto di Marsiglia la flotta papale era pronta a salpare. Non fu dunque soltanto per teatralità che dopo la condanna pontificia l’ambasciatore fiorentino si diresse a braccia alzate verso il crocifisso e, andando in cassazione da Gregorio a Cristo, esclamò: «Rivolgi lo sguardo su di me, Dio della mia salvezza, e sii il mio Salvatore », soggiungendo poi a compimento del salmo: «Non mi abbandonare ora che mio padre e mia madre mi abbandonano ». Alludendo evidentemente al pontefice e alla chiesa.

L’appello al Cristo dopo essere stati condannati dal pontefice è stato lanciato altre volte nel medioevo. Non era segno di rottura con la chiesa, ma un grido dell’anima cristiana che, disperando di poter trovare giustizia entro le strutture della chiesa, si rivolge direttamente al suo Signore. Simili invocazioni ’mettevano i segnali al rosso: che forse le strutture della chiesa non funzionavano più? Sarebbe però trascorso un altro secolo e mezzo prima che questo appello arrivasse a corrodere come un irresistibile maroso le fondamenta della chiesa medioevale.

Non c’è dubbio che dopo aver pronunciato con garbo e grazia la sua perorazione, il Barbadori fosse profondamente turbato quando assieme ai suoi colleghi ambasciatori usci dal palazzo pontificio. La sentenza non comportava soltanto conseguenze di carattere economico. La città avrebbe subito la morte religiosa, néll’atmosfera di un Venerdì Santo: niente messa, niente sacramenti, niente campane ...

La minaccia - infatti per ora altro che minaccia non era -la minaccia di un simile castigo offendeva l’onore di tutto un popolo, in ogni caso l’onore di un popolo che da poco tempo aveva preso ad espandersi in ’senso umanistico, consapevolmente a capo di una lega di città, e inoltre - non va dimenticato - animato da profonda avversione per l’apparato governativo francese, che trattava l’Italia come una colonia. La lotta continuò: scontri, trattative iniziate e interrotte, nuovi ricorsi alle armi, intrighi, accuse.

Quale sarebbe stata fra due mesi la risposta per Avignone, che in cuor suo anelava tuttavia alla pace?

La risposta fu: no! Così l’11 maggio 1376 scomunica e interdetto entrarono in vigore. Quel giorno il cronista fiorentino annotava: «In città e nei dintorni non si legge più la messa, e il Corpo del Signore non viene più distribuito. Noi però lo vediamo con il nostro cuore, e Dio sa che non siamo né saraceni né pagani. Siamo - e sempre rimarremo - cristiani fedeli, prediletti da Dio. Amen ».

[Cittadella Editrice, Assisi, 1980, pagine 120-124]

Probabilmente i membri del governo Fiorentino ascoltarono con sincera meraviglia il lungo elenco di misfatti dei quali venivano accusati: Firenze aveva rotto l’alleanza col papa nella Lega, per stringerne un’altra (Lega toscana) contro di lui; beni della chiesa erano stati confiscati; un monaco, Niccolò, era stato assassinato a Prato; era stata rinfocolata la ribellione negli stati pontifici e Fiesole occupata (250 anni prima!); legati pontifici erano stati fatti prigionieri, e un altro di loro, l’abate Marmoutiers era stato gravemente offeso a Perugia, ecc. ecc..Come se non bastasse, tutti coloro che dal giugno 1375 in poi avevano preso parte al governo, venivano menzionati uno per uno e intimati a comparire in Avignone il 31 marzo seguente (1376). Erano in tutto 59. Non si può negare che molte accuse fossero fondate, e nemmeno la Signoria avrà creduto si trattasse di un ,gregge d’innocenti agnelli che il Pastore Supremo intendeva spaventare. Quei 59 non erano innocenti, e nemmeno erano agnelli. Un secolo prima molti di loro avrebbero preso quell’accusa come un verdetto del monarca universale in faccende spirituali e temporali. Ora erano abbastanza critici per scoprire in quel documento una certa labilità. In alcuni punti il papa parlava come primate della chiesa, in altri come re degli stati pontifici, e sullo sfondo risuonava ancor sempre qualcosa della massima potenza papale di un tempo.

La prima reazione dei fiorentini alle accuse papali non fu certamente di pentita sottomissione. Tuttavia, le accuse non vennero rigettate senz’altro. I membri del partito guelfo, che in quel momento facevano parte del governo fiorentino accanto ai ghibellini, dovettero esserne scossi nella coscienza, come lo fu certamente Niccolò Soderini, amico di Caterina, il quale aveva ricevuto recentemente da lei una lettera nella quale si leggeva fra l’altro: «lo ti supplico, Niccolò, per l’indescrivibile amore col quale Dio ci ha creati e redenti, di adoperarti con tutte le tue forze a mettere la pace fra i tuoi cittadini e la santa chiesa, affinché né tu né tutta la Toscana vi perdiate».

La maggioranza decise però di continuare come cominciato. Durante il mese di marzo non soltanto si unirono, come abbiamo già visto, alla Lega Pisa e Lucca, ma con l’assistenza di Firenze fu conquistata anche Bologna e l’aiuto degli stati pontifici in rivolta continuò. Per Avignone Hawkwood combatteva con le sue truppe in un modo che non poteva rispondere alle intenzioni del papa. Al grido di «Viva la chiesa!» i mercenari invasero Faenza per saccheggiarla e abusare delle sue donne. Lo stesso Hawkwood non riuscendo a ristabilire l’ordine senza dare un esempio terrificante, vedendo due capitani azzuffarsi per la stessa ragazza, non esitò a impugnare una daga per uccidere di propria mano la fanciulla.

Intanto il mese di marzo stava per scadere. L’ultimo giorno, quello del processo nella sala del palazzo pontificio di Avignone, non v’era ombra dei 59 governanti fiorentini convocati. Presenti erano soltanto i tre ambasciatori, per annunziare che gli accusati non potevano essere presenti «trovandosi tutti quanti rinchiusi in qualche prigione! ».

Il motivo di quell’assenza, addotto per beffa, non interessava Gregorio, riconosciuto come uno dei più grandi giuristi del suo tempo, uomo d’ordine e di giustizia. La prontezza nel decidere non era il suo forte, ma quando dopo lungo esitare entrava in azione, allora colpiva forte. Senza preoccuparsi dell’assenza degli accusati; ordinò l’apertura del processo dando lettura dell’accusa. Ciò ebbe luogo in una sala del Palazzo che viene ancor oggi illustrata ai turisti dalle guide: al tavolo del tribunale seggono le imponenti figure dei giudici, con nel mezzo il pontefice. Davanti al tavolo i tre ambasciatori fiorentini nei loro sfarzosi costumi toscani, intelligenti dottori in legge, orgogliosi e ragguardevoli, consapevoli della propria influenza, tutti in tensione perché coinvolti in un processo nel quale era in giuoco la libertà della loro città-stato, ma non meno l’onore della chiesa.

Il processo è stato accuratamente descritto da un cronista anonimo che annota di giorno in giorno le fasi dell’azione giuridica. Ne risulta che portavoce degli ambasciatori era un certo Donato Barbadori, avvocato arguto ed eloquente. Già all’inizio del processo, mentre si stava incominciando a leggere l’accusa e a un membro della corte papale venne un improvviso attacco di epilessia, il Barbadori scattò in piedi esclamando: «Sdraiatelo per terra, lì nel mezzo, affinché sua santità possa vederlo ». E subito dopo a Gregorio: «Guardate, Signore! Uomini della vostra corte già perdono i sensi prima ancora che l’ingiusta sentenza venga letta. Che mai accadrà quando sarà stata emessa? In nome di Dio, non pronunciate una sentenza così ingiusta! ».

Quando in situazioni del genere sono presenti degl’italiani, ci si può aspettare anche un dramma. Il Barbadori difende con linguaggio violento l’innocenza della Repubblica, descrive i misfatti dei legati pontifici e chiede infine il rinvio del processo affinché i capi del governo ora prigionieri «possano più tardi giustificarsi ». Chiunque lo interrompa, il Barbadori non si lascia togliere la parola. Per ora, gesticola, quasi impugna la spada dichiarando che gli sarebbe più caro morire che tacere davanti all’ingiustizia. Egli è peraltro abbastanza diplomatico per stimare a dovere l’atmosfera che regna nella sala. Sa benissimo che il giurista Gregorio è ferrato contro le arringhe più appassionate. Sa inoltre che la sua posizione va facendosi sempre più instabile e teme che fra poco il papa faccia la mosse di cui lui, Barbadori, e tutto il governo fiorentino hanno una paura da morire. E del resto il motivo dell’ambasceria era unicamente quello di sventare appunto quella mossa.

Ma la mossa arriva. Gregorio si alza. Ormai ha deciso. In quel momento è l’uomo dall’arma irresistibile: la scomunica! Scomunica per gli otto commissari e; per i 51 governanti. Interdetto per tutta Firenze e per tutti i fiorentini fuori della città. Come termine per riflettere e per tornare pentiti ad Avignone, come a nuova Canossa: due mesi. Altrimenti ...

Qui il papa agisce da potente universale del medioevo. Per la scomunica il credente veniva a trovarsi estromesso dalla comunità (ex-communitate). Ma dato che in questo caso si pensava secondo lo spirito dell’unico sacro romano impero, nel quale chiesa e mondo erano assunti entrambi, il fedele scomunicato non veniva a trovarsi soltanto fuori dalla chiesa, ma anche fuori dallo stato. Non veniva escluso soltanto dai sacramenti, salvo che in pericolo di morte, ma era morto anche civilmente, cosi da non poter più compiere alcuna azione giuridica valida. Era come un lebbroso, dal quale si doveva tenersi lontani.

L’interdetto sopra una città era ancora più grave. Poteva escludere un dato territorio dal resto del mondo in campo sociale ed economico. La minaccia di Gregorio comprendeva la confisca di tutti i beni dei fiorentini, il divieto a tutti i governi e a tutte le persone non fiorentine di prendere contatto con fiorentini, la revoca di tutti i privilegi, la rottura di tutti i contatti e il condono di tutti i debiti contratti con fiorentini.

Ci troviamo dunque davanti a provvedimenti che oggi non possiamo più capire. Che il capo della chiesa di Cristo ritenesse di poter prendere misure del genere per costringere all’obbedienza, è atteggiamento accettabile soltanto da chi è cresciuto al tempo dei papi-re, e nel loro ambiente.

Nel 1376, quell’ambiente aveva già perduto importanza. Il re di Francia, tanto per portare un esempio, ben poco si curava di evitare contatti con scomunicati. Molti fiorentini non riconoscevano già più l’autorità del papa in simili questioni, e gli stati pontifici rifiutavano ben altri doveri che quelli verso le città colpite da interdetto. Tuttavia la situazione poteva farsi gravissima, peggiorata dal fatto che nel porto di Marsiglia la flotta papale era pronta a salpare. Non fu dunque soltanto per teatralità che dopo la condanna pontificia l’ambasciatore fiorentino si diresse a braccia alzate verso il crocifisso e, andando in cassazione da Gregorio a Cristo, esclamò: «Rivolgi lo sguardo su di me, Dio della mia salvezza, e sii il mio Salvatore », soggiungendo poi a compimento del salmo: «Non mi abbandonare ora che mio padre e mia madre mi abbandonano ». Alludendo evidentemente al pontefice e alla chiesa.

L’appello al Cristo dopo essere stati condannati dal pontefice è stato lanciato altre volte nel medioevo. Non era segno di rottura con la chiesa, ma un grido dell’anima cristiana che, disperando di poter trovare giustizia entro le strutture della chiesa, si rivolge direttamente al suo Signore. Simili invocazioni ’mettevano i segnali al rosso: che forse le strutture della chiesa non funzionavano più? Sarebbe però trascorso un altro secolo e mezzo prima che questo appello arrivasse a corrodere come un irresistibile maroso le fondamenta della chiesa medioevale.

Non c’è dubbio che dopo aver pronunciato con garbo e grazia la sua perorazione, il Barbadori fosse profondamente turbato quando assieme ai suoi colleghi ambasciatori usci dal palazzo pontificio. La sentenza non comportava soltanto conseguenze di carattere economico. La città avrebbe subito la morte religiosa, néll’atmosfera di un Venerdì Santo: niente messa, niente sacramenti, niente campane ...

La minaccia - infatti per ora altro che minaccia non era -la minaccia di un simile castigo offendeva l’onore di tutto un popolo, in ogni caso l’onore di un popolo che da poco tempo aveva preso ad espandersi in ’senso umanistico, consapevolmente a capo di una lega di città, e inoltre - non va dimenticato - animato da profonda avversione per l’apparato governativo francese, che trattava l’Italia come una colonia. La lotta continuò: scontri, trattative iniziate e interrotte, nuovi ricorsi alle armi, intrighi, accuse.

Quale sarebbe stata fra due mesi la risposta per Avignone, che in cuor suo anelava tuttavia alla pace?

La risposta fu: no! Così l’11 maggio 1376 scomunica e interdetto entrarono in vigore. Quel giorno il cronista fiorentino annotava: «In città e nei dintorni non si legge più la messa, e il Corpo del Signore non viene più distribuito. Noi però lo vediamo con il nostro cuore, e Dio sa che non siamo né saraceni né pagani. Siamo - e sempre rimarremo - cristiani fedeli, prediletti da Dio. Amen ».

[Cittadella Editrice, Assisi, 1980, pagine 120-124]