Omero ODISSEA Libro XII, 431-442

Zefiro a un tratto rallentò la rabbia: / Se non che sopraggiunse un Austro in fretta, / Che, noiandomi forte in ver Cariddi / Ricondur mi volea. L’intera notte / Scorsi su i flutti; e col novello Sole / Tra la grotta di Scilla, e la corrente / Mi ritrovai della fatal vorago, / Che in quel punto inghiottia le salse spume / Io, slanciandomi in alto, a quel selvaggio / M’aggrappai fico eccelso, e mi v’attenni, / Qual pipistrello: ché né dove i piedi / Fermar, né come ascendere, io sapea, / Tanto eran lungi le radici, e tanto / Remoti dalla mano i lunghi, immensi / Rami, che d’ombra ricoprìan Cariddi. / Là dunque io m’attenea bramando sempre, / Che rigettati dall’orrendo abisso / Fosser gli avanzi della nave. / Al fine / Dopo un lungo desìo vennero a galla. / Nella stagion che il giudicante, sciolte / Varie di caldi giovani contese, / Sorge dal foro, e per cenar s’avvìa, / Dell’onde usciro i sospirati avanzi. / Le braccia apersi allora, e mi lasciai / Giù piombar con gran tonfo all’onde in mezzo, / Non lunge da que’ legni, a cui m’assisi / Di sopra, e delle man remi io mi feci.

[Pindemonte, 1822]