Robert Badinter L'ABOLIZIONE
[Per gentile concessione della casa editrice Spirali]
Il 22 settembre 1971, nel carcere di Clairvaux, due detenuti, Claude Buffet, condannato all’ergastolo per assassinio, e Roger Bontems, condannatoa vent’anni di reclusione per furto aggravato, presero in ostaggio un’infermiera e una guardia. Esigevano di essere liberati. Nell’assalto sferrato dalle forze dell’ordine, i due ostaggi furono sgozzati da Buffet. Nel giugno 1972, Buffet e Bontems comparvero davanti alla corte d’assise di Troyes. Furono condannati a morte entrambi, sebbene la corte d’assise avesse scartato l’accusa di assassinio per Bontems. Poiché il presidente Pompidou rifiutò la grazia, i due uomini furono giustiziati nella casa circondariale della Santé, il 28 novembre 1972.
Cfr. R. Badinter, L’Exécution, Grasset, 1973, ried. Fayard, 1998; trad. it. L’esecuzione, Spirali, Milano 2008.
Seduto nello scompartimento quasi vuoto, mentre guardavo scivolare via il paesaggio familiare, riflettevo sulla decisione del presidente della Repubblica di fare giustiziare Buffet e Bontems. Se la convinzione abolizionistica che avevo prestato, come molti altri, a Georges Pompidou era stata fermamente interrotta, la grazia a Buffet avrebbe significato la fine della pena di morte in Francia. Buffet era già stato condannato all’ergastolo per avere assassinato una donna. Era stato recidivo nello stesso carcere di Clairvaux. Con Bontems aveva concepito di prendere in ostaggio un’infermiera e una guardia. Nell’assalto, aveva sgozzato entrambe. Buffet stesso chiedeva di essere giustiziato. Aveva fatto sapere al presidente che, se gli fosse stata concessa la grazia, avrebbe ucciso di nuovo nella sua prigione. Tutto ne comandava dunque l’esecuzione. Tranne l’essenziale: il rifiuto della pena di morte.
Nel suo orgoglio, Buffet aveva auspicato che, dopo di lui, la pena di morte fosse abolita. Si voleva eccezionale sotto tutti i riguardi. Con lui doveva chiudersi la lunga catena dei criminali morti sulla ghigliottina. Ma, nel suo morboso delirio, Buffet misconosceva l’evidenza. Mandandolo al patibolo, il presidente s’interdiceva di chiedere al Parlamento la soppressione della pena capitale. L’esecuzione di Buffet ne comandava
il mantenimento, proprio come la grazia ne avrebbe implicato l’abolizione… La scelta presidenziale era fatta. Era la scelta della pena di morte.
Di portata ancora più pesante mi pareva l’esecuzione di Bontems. Non aveva ucciso, lui. La corte d’assise lo aveva riconosciuto, nel verdetto. Era stato solo complice di Buffet. In precedenza, Bontems non aveva mai commesso delitti di sangue. Con la pena di morte
commutata in ergastolo, avrebbe raggiunto nella notte carceraria la truppa anonima dei suoi simili. La condizione penitenziaria di Bontems sarebbe stata senza dubbio crudele. In lui si sarebbe visto sempre il complice di Buffet nell’assassinio dell’infermiera e della guardia. Ma Bontems aveva ventisette anni. Voleva vivere e, quali che fossero i rigori che l’attendevano, la sua vita poteva ancora prendere un senso.
In un moto di pietà, Buffet aveva chiesto al presidente della Repubblica di graziare Bontems nel momento stesso in cui avrebbe mandato lui, Buffet, alla ghigliottina. Ma il presidente aveva trattato nello stesso modo quello che aveva ucciso e quello che non aveva
sangue sulle mani. L’esecuzione di Bontems apriva così la strada all’esecuzione di altri criminali colpevoli di delitti ancora più terribili. Avvertivo chiaramente che, da quel momento, la battaglia contro la pena di morte si sarebbe svolta su due fronti: un fronte politico, perché mai l’abolizione sarebbe intervenuta senza una ferma volontà presidenziale, fondata su una maggioranza parlamentare risoluta, e un fronte giudiziario,
perché ci sarebbero stati ancora molti processi in cui sarebbe stata in gioco la vita dell’imputato.
Già sapevo che la giustizia poteva uccidere. L’avevo vista all’opera. Ero stato incapace di impedirlo. Ero come posseduto da quel pensiero. L’angoscia di morte della notte precedente, rimossa dalle abitudini e dagli obblighi del giorno, m’invadeva di nuovo in quel treno che correva nella notte. Chiusi gli occhi e avvertii, con intensità maggiore che all’alba, che da quel momento, finché in Francia non fosse stata abolita la pena di morte, io l’avrei combattuta con tutte le mie forze. Ero cosciente che quella lotta sarebbe stata per me un impegno primario, totale, senza peraltro riuscire a distinguere quanto, nella sua intensità, dipendesse dal senso di colpa che provavo nei confronti di Bontems o dal fatto che già conoscevo la realtà della pena di morte. Fino allora ero stato un sostenitore dell’abolizione. Da quel momento sarei stato un irriducibile avversario della pena di morte. Ero passato dalla convinzione intellettuale alla passione militante.
[L’abolizione, Spirali, 2009, pp. 14-17; "L’Abolition" de Maître Robert Badinter. World copyright © LIBRAIRIE ARTHÈME FAYARD, 2000]
[Per gentile concessione della casa editrice Spirali]
Il 22 settembre 1971, nel carcere di Clairvaux, due detenuti, Claude Buffet, condannato all’ergastolo per assassinio, e Roger Bontems, condannatoa vent’anni di reclusione per furto aggravato, presero in ostaggio un’infermiera e una guardia. Esigevano di essere liberati. Nell’assalto sferrato dalle forze dell’ordine, i due ostaggi furono sgozzati da Buffet. Nel giugno 1972, Buffet e Bontems comparvero davanti alla corte d’assise di Troyes. Furono condannati a morte entrambi, sebbene la corte d’assise avesse scartato l’accusa di assassinio per Bontems. Poiché il presidente Pompidou rifiutò la grazia, i due uomini furono giustiziati nella casa circondariale della Santé, il 28 novembre 1972.
Cfr. R. Badinter, L’Exécution, Grasset, 1973, ried. Fayard, 1998; trad. it. L’esecuzione, Spirali, Milano 2008.
Seduto nello scompartimento quasi vuoto, mentre guardavo scivolare via il paesaggio familiare, riflettevo sulla decisione del presidente della Repubblica di fare giustiziare Buffet e Bontems. Se la convinzione abolizionistica che avevo prestato, come molti altri, a Georges Pompidou era stata fermamente interrotta, la grazia a Buffet avrebbe significato la fine della pena di morte in Francia. Buffet era già stato condannato all’ergastolo per avere assassinato una donna. Era stato recidivo nello stesso carcere di Clairvaux. Con Bontems aveva concepito di prendere in ostaggio un’infermiera e una guardia. Nell’assalto, aveva sgozzato entrambe. Buffet stesso chiedeva di essere giustiziato. Aveva fatto sapere al presidente che, se gli fosse stata concessa la grazia, avrebbe ucciso di nuovo nella sua prigione. Tutto ne comandava dunque l’esecuzione. Tranne l’essenziale: il rifiuto della pena di morte.
Nel suo orgoglio, Buffet aveva auspicato che, dopo di lui, la pena di morte fosse abolita. Si voleva eccezionale sotto tutti i riguardi. Con lui doveva chiudersi la lunga catena dei criminali morti sulla ghigliottina. Ma, nel suo morboso delirio, Buffet misconosceva l’evidenza. Mandandolo al patibolo, il presidente s’interdiceva di chiedere al Parlamento la soppressione della pena capitale. L’esecuzione di Buffet ne comandava
il mantenimento, proprio come la grazia ne avrebbe implicato l’abolizione… La scelta presidenziale era fatta. Era la scelta della pena di morte.
Di portata ancora più pesante mi pareva l’esecuzione di Bontems. Non aveva ucciso, lui. La corte d’assise lo aveva riconosciuto, nel verdetto. Era stato solo complice di Buffet. In precedenza, Bontems non aveva mai commesso delitti di sangue. Con la pena di morte
commutata in ergastolo, avrebbe raggiunto nella notte carceraria la truppa anonima dei suoi simili. La condizione penitenziaria di Bontems sarebbe stata senza dubbio crudele. In lui si sarebbe visto sempre il complice di Buffet nell’assassinio dell’infermiera e della guardia. Ma Bontems aveva ventisette anni. Voleva vivere e, quali che fossero i rigori che l’attendevano, la sua vita poteva ancora prendere un senso.
In un moto di pietà, Buffet aveva chiesto al presidente della Repubblica di graziare Bontems nel momento stesso in cui avrebbe mandato lui, Buffet, alla ghigliottina. Ma il presidente aveva trattato nello stesso modo quello che aveva ucciso e quello che non aveva
sangue sulle mani. L’esecuzione di Bontems apriva così la strada all’esecuzione di altri criminali colpevoli di delitti ancora più terribili. Avvertivo chiaramente che, da quel momento, la battaglia contro la pena di morte si sarebbe svolta su due fronti: un fronte politico, perché mai l’abolizione sarebbe intervenuta senza una ferma volontà presidenziale, fondata su una maggioranza parlamentare risoluta, e un fronte giudiziario,
perché ci sarebbero stati ancora molti processi in cui sarebbe stata in gioco la vita dell’imputato.
Già sapevo che la giustizia poteva uccidere. L’avevo vista all’opera. Ero stato incapace di impedirlo. Ero come posseduto da quel pensiero. L’angoscia di morte della notte precedente, rimossa dalle abitudini e dagli obblighi del giorno, m’invadeva di nuovo in quel treno che correva nella notte. Chiusi gli occhi e avvertii, con intensità maggiore che all’alba, che da quel momento, finché in Francia non fosse stata abolita la pena di morte, io l’avrei combattuta con tutte le mie forze. Ero cosciente che quella lotta sarebbe stata per me un impegno primario, totale, senza peraltro riuscire a distinguere quanto, nella sua intensità, dipendesse dal senso di colpa che provavo nei confronti di Bontems o dal fatto che già conoscevo la realtà della pena di morte. Fino allora ero stato un sostenitore dell’abolizione. Da quel momento sarei stato un irriducibile avversario della pena di morte. Ero passato dalla convinzione intellettuale alla passione militante.
[L’abolizione, Spirali, 2009, pp. 14-17; "L’Abolition" de Maître Robert Badinter. World copyright © LIBRAIRIE ARTHÈME FAYARD, 2000]