Silvana Balbi De Caro LA BANCA A ROMA

Il deposito

Uno dei più antichi servizi forniti dagli argentari consisteva nell’accettare in deposito e custodire somme di denaro per conto dei propri clienti.

Sul valore giuridico che l’istituto del deposito ebbe nel mondo romano e sulle modifiche subite dallo stesso nel corso del tempo è aperto oggi il dibattito in campo specialistico. La dottrina giuridica moderna infatti, partendo da una distinzione di base tra deposito regolare e deposito irregolare, tende a negare che il secondo tipo di obbligazione trovasse nella legislazione romana, almeno per l’età repubblicana, un riconoscimento formale sul piano giuridico.

A Roma il contratto di deposito infatti appare, sulla base della testimonianza fornita dalle fonti antiche, specie giuridiche, caratterizzato dall’obbligo del depositario di custodire il bene depositato senza farne uso e di restituire lo stesso dietro richiesta del depositante o alla scadenza del contratto, senza ricavarne alcun utile. «Altra cosa è dare in prestito, altra depositare», scrive Ulpiano, giurista degli inizi del Il sec. d.C., in un passo riportato nel Digesto di età giustinianea.

Da questo tipo di contratto venivano al depositante precisi vantaggi nell’eventualità di un fallimento del banchiere, poiché in tal caso la somma veniva iscritta automaticamente in un elenco privilegiato.

Ancora da Ulpiano apprendiamo infatti che, quando falliva un nummularius, era prassi (solet) stilare un elenco di coloro che avevano depositato denari presso di lui (ratio haberi depositariorum). «Questo si intende per coloro i quali hanno dato denaro in deposito - scrive il giurista - e non per quanti ne ricavavano un interesse, dopo averlo depositato presso i banchieri per utilizzarlo sia in società con i banchieri, sia per tramite degli stessi». Anche «coloro che hanno percepito interessi solo in un secondo momento (vel postea) non devono entrare in elenco»; nei loro confronti infatti ci si deve comportare «come se avessero rinunciato al deposito» dal primo dei due passi di Ulpiano sopra ricordati viene una ulteriore conferma alla netta contrapposizione esistente, secondo il giurista, tra il «deposito» improduttivo e il «prestito» produttivo di frutti. «Coloro che hanno ricevuto dal banchiere degli interessi per le monete depositate» infatti «non devono essere distinti dagli altri creditori» e non possono, pertanto, essere iscritti tra quelli privilegiati. «Qualora invece - precisa Ulpiano - si trovino le monete di un qualche creditore ancora numerate (chiuse, cioè, evidentemente entro un sacco che ne rendesse possibile l’identificazione), il credito di costui passerà tra quelli privilegiati». In quest’ultimo caso il deposito verrebbe quindi ad assumere le caratteristiche di un «deposito regolare»: gratuità del contratto, conservazione della cosa da parte del depositario, divieto di fame uso. Cessando tali condizioni, però, cessava automaticamente ogni privilegio per il depositante.

[Roma, Edizioni Quasar di Severino Tognon, 1989, pp. 38-39]

Il deposito

Uno dei più antichi servizi forniti dagli argentari consisteva nell’accettare in deposito e custodire somme di denaro per conto dei propri clienti.

Sul valore giuridico che l’istituto del deposito ebbe nel mondo romano e sulle modifiche subite dallo stesso nel corso del tempo è aperto oggi il dibattito in campo specialistico. La dottrina giuridica moderna infatti, partendo da una distinzione di base tra deposito regolare e deposito irregolare, tende a negare che il secondo tipo di obbligazione trovasse nella legislazione romana, almeno per l’età repubblicana, un riconoscimento formale sul piano giuridico.

A Roma il contratto di deposito infatti appare, sulla base della testimonianza fornita dalle fonti antiche, specie giuridiche, caratterizzato dall’obbligo del depositario di custodire il bene depositato senza farne uso e di restituire lo stesso dietro richiesta del depositante o alla scadenza del contratto, senza ricavarne alcun utile. «Altra cosa è dare in prestito, altra depositare», scrive Ulpiano, giurista degli inizi del Il sec. d.C., in un passo riportato nel Digesto di età giustinianea.

Da questo tipo di contratto venivano al depositante precisi vantaggi nell’eventualità di un fallimento del banchiere, poiché in tal caso la somma veniva iscritta automaticamente in un elenco privilegiato.

Ancora da Ulpiano apprendiamo infatti che, quando falliva un nummularius, era prassi (solet) stilare un elenco di coloro che avevano depositato denari presso di lui (ratio haberi depositariorum). «Questo si intende per coloro i quali hanno dato denaro in deposito - scrive il giurista - e non per quanti ne ricavavano un interesse, dopo averlo depositato presso i banchieri per utilizzarlo sia in società con i banchieri, sia per tramite degli stessi». Anche «coloro che hanno percepito interessi solo in un secondo momento (vel postea) non devono entrare in elenco»; nei loro confronti infatti ci si deve comportare «come se avessero rinunciato al deposito» dal primo dei due passi di Ulpiano sopra ricordati viene una ulteriore conferma alla netta contrapposizione esistente, secondo il giurista, tra il «deposito» improduttivo e il «prestito» produttivo di frutti. «Coloro che hanno ricevuto dal banchiere degli interessi per le monete depositate» infatti «non devono essere distinti dagli altri creditori» e non possono, pertanto, essere iscritti tra quelli privilegiati. «Qualora invece - precisa Ulpiano - si trovino le monete di un qualche creditore ancora numerate (chiuse, cioè, evidentemente entro un sacco che ne rendesse possibile l’identificazione), il credito di costui passerà tra quelli privilegiati». In quest’ultimo caso il deposito verrebbe quindi ad assumere le caratteristiche di un «deposito regolare»: gratuità del contratto, conservazione della cosa da parte del depositario, divieto di fame uso. Cessando tali condizioni, però, cessava automaticamente ogni privilegio per il depositante.

[Roma, Edizioni Quasar di Severino Tognon, 1989, pp. 38-39]