Ubaldo Villani-Lubelli: Sangue d'accusa
A tale proposito, è opportuno ricordare come la Chiesa, almeno a partire dal XII secolo, si sia sempre schierata contro tutte le diverse pratiche ordaliche in quanto erano considerate un misto di invocazioni mistiche e anatemi di carattere liturgico che poco avevano a che fare con la fede piu autentica. La convinzione era che il morto stesso si sarebbe «occupato» del ritrovamento del colpevole, per vendicarsi e per far uccidere o comunque far incolpare l’assassino. Pensiamo, del resto, alla scena de I Nibelunghi, poema tedesco del XIII secolo, in cui quando Hagen si avvicina alla bara di Sigfrido, il cadavere di quest’ultimo inizia a emanare sangue, che,
sgorgando dalle ferite, è il principale indizio di colpevolezza.
Nella letteratura storico-giudiziaria è altrettanto famosa la leggenda del cane di un nobile viennese che, durante una partita di caccia, dissotterrò alcune ossa. Portate
a un artigiano, le ossa iniziarono a sanguinare appena furono toccate dall’uomo, il quale, terrorizzato, confessò di avere ucciso anni prima un amico e di aveme sepolto il cadavere nel bosco. Le ossa hanno dunque assunto nella storia giudiziaria il ruolo di accusatore, poiché indicavano il colpevole, come visto anche dai primi tre casi riportati all’inizio. Le formalità del giudizio variavano molto, ma il concetto rimase sempre lo stesso: alla presenza o al contatto dell’uccisore, le ferite dell’ucciso dovevano sanguinare di nuovo o dovevano comunque apparire nel cadavere altri segni evidenti, come, per esempio, bava dalla bocca o fremito. E non era sempre necessario l’intero cadavere, ma era sufficiente anche solo un ossicino.
[Estratto da "Sangue d’accusa", In Medioevo, Anno XV n.6 (173), Giugno 2011, pp.72 e 73]