Dal panopticon al post: l'era del postare e segnalare

Dal panopticon al post: l'era del postare e segnalare
Viviamo in un'epoca singolare, dove le mura del Panopticon descritto da Michel Foucault – quella prigione ideale in cui un sorvegliante centrale poteva, potenzialmente, osservare ogni detenuto, inducendo così un'autodisciplina costante – sembrano essersi dissolte, o meglio, espanse fino a coincidere con lo spazio stesso della nostra esistenza digitale. La formula incisiva "Sorvegliare e Punire", che condensava la logica del potere disciplinare moderno, sta subendo una metamorfosi sottile ma pervasiva. Oggi, potremmo dire, siamo entrati nell'era del "Postare e Segnalare".
Se il Panopticon si fondava sull'asimmetria dello sguardo – uno che vede senza essere visto, molti che sono visti senza sapere quando – la società digitale attuale ha introdotto una nuova architettura del controllo, apparentemente più democratica, ma non per questo meno efficace. Non è più primariamente l'istituzione a sorvegliare dall'alto, ma è la moltitudine stessa che, attraverso l'atto quotidiano del "postare", si offre volontariamente allo sguardo altrui e, contemporaneamente, si erge a giudice attraverso il meccanismo del "segnalare".
L'atto del postare, nella sua innocenza apparente, è diventato il nuovo confessionale, il nuovo diario pubblico. Ogni immagine, ogni pensiero, ogni emozione condivisa si trasforma in un frammento di sé esposto nella vetrina globale della rete. Questa trasparenza autoimposta, lungi dall'essere un semplice esercizio di libertà espressiva, si configura come una forma di autodisciplina interiorizzata. Ci si modella, consciamente o inconsciamente, in funzione dello sguardo potenziale dell'Altro digitale: il datore di lavoro, l'amico, lo sconosciuto. La performance dell'identità online diventa un lavoro incessante, una curatela meticolosa del proprio sé digitale, dove l'autenticità cede spesso il passo alla desiderabilità sociale. Il confine tra sfera pubblica e privata si fa labile, poroso, fino quasi a svanire nell'ininterrotto flusso di dati che noi stessi alimentiamo.
Parallelamente a questa esposizione volontaria, emerge con forza il dispositivo del "segnalare". Non si tratta più della punizione erogata da un'autorità costituita, ma di una forma di sanzione sociale diffusa, orizzontale, immediata. Un commento, un'immagine, un'opinione ritenuta deviante dalla norma percepita dalla comunità online può scatenare un processo sommario, una gogna mediatica digitale. La segnalazione diventa lo strumento di una nuova polizia morale, spesso anonima, che opera con la velocità del click. Questo "tribunale permanente dei social media" non necessita di codici né di procedure formali; il verdetto è spesso emotivo, la pena è l'esclusione, la cancel culture, il linciaggio virtuale.
La paura del giudizio, dell'essere "segnalati", induce una forma di autocensura preventiva. Si ponderano le parole, si smussano gli angoli, si evitano i terreni scivolosi per timore di finire nel girone degli "esclusi". È una disciplina sottile, che non opera attraverso la coercizione fisica, ma attraverso la pressione psicologica del conformismo e la minaccia della reputazione digitale. La libertà di espressione, in questo contesto, rischia di diventare la libertà di esprimere solo ciò che è consensuale, ciò che non disturba la sensibilità effimera della rete.
Questa dinamica del "postare e segnalare" non è un fenomeno isolato, ma si inscrive perfettamente nelle logiche di quello che alcuni pensatori contemporanei definiscono il "capitalismo della sorveglianza" o la "psicopolitica digitale". Ogni post, ogni like, ogni segnalazione, oltre a definire le coordinate della nostra identità sociale, si trasforma in un dato prezioso. Dati che alimentano algoritmi sempre più sofisticati, capaci di profilare i nostri desideri, anticipare i nostri comportamenti, influenzare le nostre scelte – dal consumo all'orientamento politico. La sorveglianza non è più solo disciplinare, ma diventa predittiva ed estrattiva.
Siamo passati da un potere che disciplinava i corpi nello spazio chiuso delle istituzioni a un potere che modella le psiche nello spazio aperto, e apparentemente libero, della rete. Un potere che non si impone con la forza, ma seduce con la promessa della visibilità, della connessione, della partecipazione.
La sfida, oggi, non è tanto quella di sfuggire allo sguardo – un'impresa forse impossibile nell'attuale infosfera – quanto quella di sviluppare una consapevolezza critica dei meccanismi che ci governano. Comprendere che ogni nostro "post" è un mattone nella costruzione del nostro Panopticon digitale e che ogni "segnalazione" affrettata può contribuire a erodere gli spazi del dissenso e della complessità. Forse, la vera resistenza non risiede nell'illusione di un'invisibilità perduta, ma nella coltivazione di un pensiero autonomo, capace di navigare la trasparenza senza annegare nel conformismo, e di esercitare il giudizio senza cedere alla tentazione della condanna immediata. Si tratta di riscoprire il valore del dubbio, della riflessione e, perché no, di un fecondo, talvolta necessario, silenzio digitale.
Vincenzo Candido Renna