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Democrazie dirette a confronto: il dibattito sull’istituto dell’iniziativa popolare

Parte II
Democrazie dirette
Democrazie dirette

Indice

1. Il modello svizzero

2. Il modello statunitense

3. L’iniziativa legislativa popolare in Italia: da controforza alla rappresentanza a possibile strumento di co-determinazione dell’indirizzo politico

4. Brevi cenni sulla e-democracy

 

1. Il modello svizzero

Un’adeguata combinazione di democrazia diretta e democrazia rappresentativa è necessaria per consolidare la democrazia costituzionale. Questo connubio rappresenta un elemento costitutivo nella Confederazione elvetica.

Fin dall’entrata in vigore della Costituzione federale nel 1848, l’ordinamento giuridico svizzero ha dato una notevole rilevanza agli istituti di democrazia diretta con un Parlamento (Assemblea federale), inoltre, non composto da politici professionisti. Infatti, le camere federali si riuniscono quattro volte all'anno per tre settimane.

Questo permette ai parlamentari di lavorare tra una sessione e l'altra. Nonostante i problemi che comporta il sistema dei politici “part-time”, vi è una forte opposizione popolare a una sua eventuale modifica, poiché è convinzione comune che nella situazione attuale i parlamentari siano più vicini ai problemi dei cittadini elettori e che, facendo anch'essi parte del mondo del lavoro, possano portare la loro esperienza professionale all'interno delle discussioni parlamentari.

Entrando nel merito della questione i cittadini svizzeri, oltre al diritto di voto e di eleggibilità, godono di “diritti popolari” (cioè quei diritti che permettono ai cittadini di entrambi i sessi di prendere una decisione definitiva su temi di carattere politico e costituiscono un elemento essenziale della democrazia diretta), potendo far valere le loro richieste mediante tre strumenti tipici della democrazia partecipativa: l’iniziativa popolare, il referendum obbligatorio e il referendum facoltativo.

Introdotto nel 1891 l’istituto dell’iniziativa popolare si fonda sul principio della supremazia delle decisioni popolari rispetto a quelle degli organi eletti come sanciscono chiaramente gli articoli 45 e 148 della Costituzione federale (co-partecipazione dei Cantoni ai processi decisionali e la riserva dei diritti del popolo).

Dalla sua entrata in vigore i cittadini svizzeri hanno fatto un largo ricorso all’istituto dell’iniziativa popolare gradualmente perfezionata e modernizzata (oggi, infatti, oltre il 90% dei voti è inviato per posta o in forma elettronica su internet).

Bisogna, tuttavia, ricordare che nonostante dalla fondazione dello Stato federale ci sia stata un’evoluzione notevole verso la democrazia diretta, in un primo momento anche in Svizzera molte riforme hanno incontrato resistenze da parte della classe politica.

È noto il caso dell’introduzione del suffragio universale: mentre i cittadini svizzeri maggiorenni hanno sempre potuto partecipare alle elezioni nel Paese, le donne hanno dovuto aspettare, dopo un lungo dibattito iniziato nel decennio precedente, il 1971 per esercitare il diritto di voto a livello federale e il 1990 a livello cantonale. Bisogna precisare che oltre alla classe dirigente anche la maggior parte dell’elettorato si mostrava scettico nei confronti di un’estensione del voto. 

L’istituto dell’iniziativa popolare svizzera, per la sua storia e per la sua disciplina, rappresenta un unicum nel panorama degli strumenti di partecipazione oggetto delle previsioni costituzionali degli altri Stati.

L’iniziativa popolare infatti può riguardare, ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione federale, sia la revisione totale o parziale della Costituzione federale sia la Costituzione cantonale e le leggi cantonali. L’Assemblea federale decide se l’iniziativa rispetta i principi di unità della forma e di unità della materia, nonché le disposizioni cogenti del diritto internazionale (articoli 193 comma 4 e 194 comma 3 della Costituzione federale). Se respinge l’iniziativa, la sottopone al Popolo. Se il Popolo approva l’iniziativa, l’Assemblea elabora il progetto proposto nell’iniziativa.

L’iniziativa viene quindi sottoposta al voto del popolo e dei cantoni (articolo 139, comma 4 della Costituzione federale). Per essere accettata deve ricevere l’approvazione della maggioranza del corpo elettorale e dei cantoni (cosiddetta “doppia maggioranza”).

La Costituzione federale interamente o parzialmente riveduta entra in vigore con l’accettazione del Popolo e dei Cantoni (articolo 195 della Costituzione federale). Creando, quindi, un precedente normativo il diritto di iniziativa esiste non solo a livello federale, ma anche a livello cantonale e comunale. La portata di queste iniziative è spesso più ampia di quanto non lo sia a livello federale, dove l’iniziativa permette unicamente la modifica della Costituzione.

Infatti diversi Cantoni, tra cui la Repubblica e Cantone Ticino, Cantone dei Grigioni, Cantone di Vaud, prevedono anche l’iniziativa legislativa, che consente di chiedere l'introduzione o la modifica di una legge. I limiti posti a questo tipo di iniziative riguardano sia quelli derivanti dalla Costituzione cantonale sia quelli derivanti dal diritto federale. Inoltre, rappresentativa della lunga e consolidata storia di partecipazione popolare alla res publica è la Landsgemeinde: un’istituzione e un processo partecipativo che viene tutt'oggi ancora utilizzata nei cantoni svizzeri dell'Appenzello Interno e di Glarona, in cui tutti i cittadini della comunità rurale che godono del diritto di voto si riuniscono in assemblea in una piazza e votano per alzata di mano per eleggere gli amministratori e deliberare leggi locali.

Anche se nella Confederazione elvetica la democrazia diretta è praticata nel modo più ampio e da più tempo, più precisamente il sistema svizzero è misto, anche detto di democrazia semidiretta: vale a dire che la democrazia diretta affianca quella rappresentativa, dimostrando la buona riuscita del 

connubio tra le due forme di democrazia attraverso, ad esempio, uno strumento interno al procedimento dell’iniziativa popolare: il controprogetto.

L’articolo 139, comma 5 della Costituzione federale stabilisce che l’Assemblea federale può contrapporre al progetto elaborato tramite l’iniziativa un controprogetto che sarà votato dal Popolo e dai Cantoni insieme all’iniziativa. In questo caso ai cittadini svizzeri verrà posta anche una terza domanda definita “risolutiva” alla quale dovranno rispondere indicando la preferenza tra i due progetti.

Entrerà in vigore il progetto che avrà ricevuto più preferenze.

Il motivo dell’introduzione del controprogetto risiede nella ricerca da parte dell’Assemblea federale e quindi della classe politica in generale, di una mediazione con il contenuto dell’iniziativa popolare.

Sotto questo profilo il ruolo del controprogetto risulta significativo poiché permette la negoziazione legislativa e la possibilità di informare con maggiori elementi coloro che si apprestano alla votazione. L’iniziativa ha avuto e continua ad avere la funzione di creare nuovi oggetti politici spesso trascurati dalla classe dirigente alla quale viene richiesto di studiare il problema e di proporre il proprio punto di vista sulla questione.

Tuttavia, l’istituto di cui agli articoli 138 e 139 della Costituzione federale non è esente da critiche; il dibattito nasce dalla mancata possibilità di ricorrere all’iniziativa legislativa a livello federale (le leggi federali possono essere oggetto solo di referendum facoltativo ai sensi dell’articolo 141 Costituzione federale), dimostrando implicitamente che anche in Svizzera solo il Parlamento è il dominus della legge.

Sta di fatto che dal momento che l’iniziativa popolare è prevista e tutelata dalla Costituzione svizzera e dato il suo largo ricorso che la rende elemento imprescindibile dall’ordinamento giuridico elvetico, essa è stata ed è oggetto di continua attenzione da parte della politica, perfezionandola in modo tale da essere strumento di collaborazione tra governanti e governati.

 

2. Il modello statunitense

L’iniziativa legislativa è praticata con una certa larghezza tradizionalmente anche negli Stati Uniti. Le proposte di democrazia diretta risalgono agli ultimi decenni del XIX secolo, quando apparvero libri e articoli che promuovevano il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini nella definizione dell’agenda politica.

Nel 1882 fu pubblicato “Direct Legislation by the People” di Nathan Cree, che definiva il referendum nazionale come il passo necessario verso un ulteriore sviluppo del governo. Cree pensava che l’unico modo per insegnare l’autogoverno fosse quello di praticarlo e propugnava l’idea di un governo basato sulla discussione, perché era convinto che la maggioranza della gente fosse saggia. Il libro di Cree e le opere di altri scrittori e studiosi, tra cui Sullivan J. W. e la sua “Direct Legislation by the Citizenship through the Initiative and Referendum” (1893), innescarono un processo di lotta per l’introduzione di strumenti di democrazia diretta da parte di categorie tra di loro eterogenee: populisti, socialisti, democratici e conservatori; essi si battevano per ottenere la partecipazione attiva dei cittadini nella gestione delle questioni politiche cruciali.

Con gli strumenti di democrazia diretta, la sfera politica di ogni cittadino si sarebbe allargata; ciascuno avrebbe acquisito un’educazione adeguata al suo ruolo e sviluppato un vivo interesse negli affari pubblici. Attualmente a livello federale gli Stati Uniti non hanno strumenti di democrazia diretta ma in più della metà dei singoli Stati della Federazione le rispettive Costituzioni prevedono o l’iniziativa popolare (initiative) o il referendum o entrambi gli istituti. Sebbene l’istituto dell’initiative segua sostanzialmente lo stesso iter procedimentale, dei 22 Stati federali che consentono ai cittadini di avviare una petizione d’iniziativa, diversi sono intervenuti per regolamentare la portata e il contenuto delle proposte avviate. Regole rigide regolamentano l’istituto nello Stato del Colorado la cui Costituzione (sezione 1, 5.5, articolo 5) prevede che la petizione abbia ad oggetto un solo argomento, la trasparenza dei finanziamenti alle petizioni e l’obbligatorietà dei firmatari a risiedere nello Stato.

La raccolta delle firme deve avvenire entro sei mesi dalla votazione e la sezione 111, articolo 40 della Costituzione statale impone che le firme siano raccolte di persona (dal momento che le firme elettroniche sono una tecnologia emergente, la questione è stata affrontata da pochi Stati dell’Unione).

Inoltre, se un'iniziativa non rispetta le leggi o i regolamenti federali, è possibile presentare un reclamo presso la Corte distrettuale federale; se un elettore desidera contestare una petizione, può presentare una protesta al tribunale distrettuale di stato con giurisdizione sulla contea in cui è stata presentata la petizione (sezione 107, articolo 40, Titolo I della Costituzione statale).

Invece, Stati come la Florida e il Massachusetts non impongono l’obbligo di residenza nello Stato per i firmatari e consentono tempi più lunghi (due anni) per la raccolta delle firme.

Possono essere proposte più petizioni relative alla stessa materia purché non contrastanti tra loro o una sola petizione avente più di un oggetto, ad eccezione di quelle che limitano il potere del governo ad aumentare le entrate e che per costituzione statale devono contenere un solo argomento e materia direttamente connessa con ciò. 

Un caso “di scuola” di democrazia diretta è quello della California. Nel più popoloso Stato della Federazione oltre al referendum, distinto tra obbligatorio o facoltativo “dall’alto” (cioè indette da un organo politico-rappresentativo ed esperite in caso di modifica delle costituzioni statali) e facoltativo “dal basso (le consultazioni consentono agli elettori, in via opzionale, di bloccare una legge approvata dall’organo legislativo, in esercizio di un potere di veto attribuito al corpo elettorale.

Inoltre in California è previsto anche un particolare tipo di referendum “approvativo” per determinate leggi approvate dall’Assemblea legislativa come le leggi di spesa), convivono due istituti radicati nell’esperienza storico-giuridica californiana: l’iniziativa propositiva (proposition) e la revoca (recall). Introdotto nel 1911 dalla Costituzione californiana, l’istituto della proposition (iniziativa propositiva) è una proposta di legge (ordinaria o costituzionale) di iniziativa popolare presentata sulla base una raccolta di firme tra gli elettori e, a seguito di tale pubblica sottoscrizione, sottoposta all’approvazione del corpo elettorale.

L’articolo 2, sezione 10, lettera d della Costituzione statale, stabilisce che la formula della proposta d’iniziativa popolare è sottoposta all’esame dell’autorità giurisdizionale che provvede a redigerne la sintesi e ad assegnare il titolo, destinati a figurare sull’opuscolo informativo ufficiale da predisporre per la consultazione referendaria. Tale pubblicazione, inviata per tempo a tutti gli elettori, oltre alla sintesi riporta il testo integrale della proposta nonché gli argomenti dei sostenitori e degli oppositori. Successivamente per un periodo massimo di 150 giorni  il quesito è aperto alla pubblica sottoscrizione  e necessita di un quorum di adesioni pari al 5% degli elettori votanti alle precedenti elezioni per il governatore dello Stato ove si tratti di iniziative di legge statutaria (ovvero ordinaria), e dell’8% per le iniziative di modifica costituzionale. Ottenuta la convalida (qualification) attraverso un numero sufficiente di sottoscrizioni, la proposta è infine sottoposta al giudizio degli elettori (di norma in abbinamento alle elezioni per il Governatore dello Stato o alle primarie) ed è approvata con la maggioranza dei voti espressi.

La proposta approvata è, in ogni caso, sindacabile in sede giurisdizionale e può essere annullata, inducendo alcuni osservatori a sostenere l’opportunità di un vaglio preliminare da parte della Corte Suprema dello Stato onde evitare di vanificare il procedimento d’iniziativa popolare appena concluso.

Molto più antico dell’istituto della proposition, il recall (chiamato anche “referendum di richiamo” o “revoca del mandato”) è una procedura con la quale gli elettori possono rimuovere un politico o un altro funzionario eletto in un pubblico ufficio attraverso una votazione diretta, prima che il suo mandato elettorale sia terminato.

I prodromi del recall vanno ricercati nell’assetto istituzionale delle colonie inglesi dove si elaborò una mediazione tra l’idea di delegare il potere a pochi “semplicemente per evitare la confusione tra un eccessivo numero di consociati” [Pole J. R. (1966), Political representation in England and the origins of the American Republic] e la convinzione che i poteri derivanti dalla delega avessero la loro origine nella volontà popolare, volontà che poteva, in ogni momento, revocare la delega all’eletto nel caso in cui questo non avesse perseguito il reale volere della collettività.

Nonostante fosse imprescindibile il principio della rappresentatività e l’irrealizzabilità di una democrazia diretta “pura”, l’obiettivo principale fu la “democratizzazione della politica” (Formison R.) e il contrasto ai grandi monopoli nati a seguito della Guerra civile. Pioniera di queste battaglie e delle prime petitions for recall fu proprio la città di Los Angeles contro il primo cittadino Arthur C. Harper, accusato di corruzione nello scandalo della società Souther Pacific Railroad. Diffusosi ben presto anche nelle altre città californiane e previsto nel 1908 dalla Costituzione dell’Oregon, la California è stata il secondo Stato a introdurre nella propria Costituzione l’istituto del recall (1911).

L’istituto della revoca degli eletti è il contrarius actus del momento elettivo e al pari dell’initiative è consentito solo a livello statale ed è praticato in 18 Stati dell’Unione. Dal punto di vista procedurale l’esercizio del Recall richiede la sottoscrizione di una petizione popolare firmata, di norma, dal 20-25% dei votanti effettivi dell’ultima tornata elettorale, vale a dire da coloro che hanno partecipato all’elezione del revocando (in qualche raro caso questa percentuale è più bassa: per esempio, in California è sufficiente il 12%).

In California, inoltre, la petizione può essere finalizzata esclusivamente alla revoca, oppure alla revoca e, contestualmente, all’elezione di colui che prenderà il posto del revocato, nel caso in cui il referendum risulti favorevole ai promotori. Rispetto ad atri Stati dell’Unione l’ordinamento californiano, interpretando estensivamente l’inciso “Recall is the power of the electors to remove an elective officer” dell’articolo 2 della Costituzione statale, prevede il ricorso al recall in ordine a varie cariche pubbliche.

Infatti oltre a interessare i componenti degli organi esecutivi e legislativi, talora il recall include la stessa magistratura, non solo inquirente – che notoriamente è elettiva negli Stati Uniti – ma anche giudicante, sollevando non poche perplessità da parte degli studiosi. Questo particolare è una conseguenza di una specifica interpretazione che alcuni stati offrono del recall, applicandolo non solo agli eletti – come nel caso della costituzione californiana – ma a tutti i funzionari pubblici (il lessico giuridico usa l’espressione “public officer”) in ragione della loro particolare collocazione nei confronti della comunità che è beneficiaria dei servizi pubblici a cui attendono [Zimmerman J. F., The Recall. Tribunal of the People, Westport]. Sotto questo profilo anche l’Oregon, il North Dakota, il Wisconsin, il Colorado, l’Arizona e la Georgia non pongono limiti all’utilizzo del recall, mentre Stati come il Rhode Island, il New Jersey e il Michigan prevedono l’applicabilità dell’istituto solo nei confronti dei vertici dell’amministrazione statale. In conclusione si può affermare che la democrazia diretta costituisca negli Stati Uniti tuttora oggetto di analisi critica e di discussione tra gli studiosi.

È diffusamente riconosciuto, infatti, il ruolo assolto dagli istituti di partecipazione nel contrastare l’influenza esercitata da particolari gruppi d’interesse sulle politiche pubbliche e nell’assicurare il controllo sugli amministratori pubblici.

In virtù di questa ragione in vari Stati, tra cui la California, nessuna materia è esclusa dall’ initiative, neanche quella delle tasse e delle imposte. Tuttavia nel corso del tempo si sono verificate anche ricadute negative ricondotte proprio alla deroga che detti strumenti partecipativi rappresentano rispetto al tradizionale principio della rappresentanza democratica.

Anzi, si ritiene che lo strumento della proposition, in particolare, sia stato utilizzato proprio da quei soggetti che, elargendo enormi finanziamenti per le campagne elettorali che condizionano, implicitamente, le intenzioni di voto, avrebbero dovuto essere sottoposti al pubblico e trasparente controllo. Inoltre, l’eccessiva frequenza della loro indizione produrrebbe, secondo varie inchieste, una disaffezione dell’elettore, rappresentando un motivo di scarsa affluenza alle urne e determinerebbe finanziamenti poco trasparenti sul piano della funzionalità delle istituzioni, favorendo un indebolimento delle cariche della capacità dei cittadini di selezionare validi rappresentanti: si pensi al caso di recall del Governatore della California Davis Gray nel 2003, revocato dal corpo elettorale e che contestualmente venne chiamato a votare per l’elezione di quello nuovo.

Il momento di democrazia diretta messo in atto dal recall aveva portato al vertice dello stato una star di Hollywood (Arnold Schwarzenegger) senza alcuna esperienza politica, e con esso si sarebbe aperto un lungo dibattito sulla possibilità di disciplinare, in maniera più restrittiva, l’istituto della revoca e di colmare giuridicamente la mancanza del diritto delle Assemblee legislative, previsto costituzionalmente in Svizzera, di poter proporre una controproposta da portare in votazione referendaria.

 

3. L’iniziativa legislativa popolare in Italia: da controforza alla rappresentanza a possibile strumento di co-determinazione dell’indirizzo politico

“Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli

(Articolo 71, Sezione II, Titolo I, Parte II della Costituzione)

L’attuale iter parlamentare del disegno di legge costituzionale modificante gli articoli 71 e 75 della Costituzione ha riacceso nel nostro Paese il dibattito politico sulla questione della democrazia diretta.

Sulla forma di governo parlamentare riposava un tradizionale orientamento dualistico a cui si ispiravano le costituzioni liberali della seconda metà del XIX secolo, cioè la contestuale attribuzione del potere d’iniziativa delle leggi all’esecutivo e al legislativo. Lo stesso Statuto Albertino, in chiave tipicamente dualistica, all’art. 10 riconosceva il potere di iniziativa delle leggi al Re, tramite l’azione del Governo e “a ciascuna delle due Camere”. Il dibattito sugli istituti di democrazia diretta sarebbe stato lungi dal venire, dal momento che soltanto dopo molti anni dall’Unità d’Italia si poté, almeno nella prassi, parlare di rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento.

Essendo l’Italia, quindi, sprovvista di una tradizione storico-giuridica di strumenti di partecipazione, i padri costituenti dibatterono per la prima volta su tale questione durante i lavori della Seconda Sottocommissione. In verità l’istituto dell’iniziativa legislativa popolare fu affrontato superficialmente, senza approfondire aspetti e potenzialità del suddetto; aspetti e potenzialità che vennero argomentate acutamente da Costantino Mortati.

Il testo presentato da Mortati (“L’iniziativa popolare si esercita mediante la presentazione di un progetto articolato da parte di un decimo o di un ventesimo degli elettori”) ebbe qualche consenso e tante critiche. Vi fu una generale diffidenza nei confronti di questi istituti, in quanto la preoccupazione maggiore dei costituenti era quella di affermare che l’attività legislativa fosse monopolizzata dagli istituti di democrazia rappresentativa. Autorevoli politici come Emilio Lussu e Luigi Einaudi obiettarono sull’introduzione dell’istituto dell’iniziativa legislativa popolare: il primo perché riteneva che l’istituzione delle Assemblee regionali avrebbe permesso ai cittadini di esprimere ulteriormente la loro volontà, mentre il futuro Capo dello Stato vi preferiva l’istituto del referendum quale vera espressione della volontà popolare.

Con la sua tesi l’economista riteneva che “se la corrente che si vale del diritto d’iniziativa è talmente larga da riuscire a far approvare la sua proposta, troverà sempre chi, in una delle due Camere o nel Governo stesso, si faccia iniziatore del progetto” [Atti dell’Assemblea costituente, Seconda Sottocommissione, seduta n36, 24 ottobre 1946].

Mortati, non condividendo la diffidenza verso gli istituti di democrazia diretta, considerati dallo stesso mezzi concreti attribuiti al popolo per “esprimere efficacemente un proprio orientamento anche in difformità con l’orientamento governativo” [Mortati C. (1972), Note introduttive ad uno studio sui partiti politici nell’ordinamento italiano (1957), in Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza costituzionale repubblicana, Raccolta di scritti, vol. III, Milano], volle dare al principio della sovranità popolare un proprio significato giuridico.

E per tale motivo occorreva, a suo parere, una valorizzazione sia della rappresentanza politica e, in primo luogo, dei partiti politici, sia degli istituti di democrazia partecipativa. Inoltre, per dare peso a tale istituto, egli proponeva che si sarebbe dovuto prevedere anche l’indizione di un referendum sul testo popolare nel caso in cui il Parlamento avesse respinto la proposta di iniziativa popolare.

Secondo Mortati, la sovranità è esercitata dalla maggioranza intesa come “un’entità complessa formata: dalla parte del corpo elettorale, che attribuendo il numero più elevato di voti ad un partito, abilita questo all’assunzione del potere; dal partito maggioritario visto nella sua organizzazione complessiva; dall’insieme dei titolari degli organi elettivi e di governo dello stesso partito maggioritario”.

In base a tale tesi Mortati configurava gli istituti di democrazia diretta come freno e limite all’arbitrio della maggioranza nel caso in cui quest’ultima non fosse più stata espressione della volontà popolare e come “pungolo”, secondo la tesi di Vincenzo La Rocca, all’azione di governo. In questo contesto, si delineava un particolare concetto riguardo gli strumenti di partecipazione diverso da quello svizzero: mentre nella Confederazione elvetica viene fatto ricorso agli istituti di democrazia diretta per co-determinare l’indirizzo politico, nell’ordinamento italiano essi venivano inquadrati nella categoria delle “controforze” e non nell’attività di esecuzione dell’indirizzo politico, cadendo in errore, secondo Vezio Crisafulli [La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in Scritti Orlando, Padova, vol. I.], in quanto la sovranità popolare sancita dall’articolo 1 della Costituzione non deriva esclusivamente dal principio della rappresentanza ma anche da quegli strumenti che integrano gli istituti rappresentativi, elevando il corpo elettorale a vero centro di potere legislativo.

Pertanto l’introduzione nella Costituzione sia dell’iniziativa legislativa popolare sia del referendum abrogativo fu sentita più come un’esigenza formalistica che di ordine politico. Infatti, non prevedendo il ricorso ad un referendum approvativo in caso di rigetto della proposta legislativa da parte delle Camere, il modello proposto e accettato fu quello dell’iniziativa il cui destinatario nella sostanza è il Parlamento e non il popolo (abbassando il quorum per la proposta d’iniziativa a 50.000 elettori rispetto ai 300.000 originari).

Conforme al clima di cambiamento del significato della sovranità (non più rappresentata in nome del popolo, ma esercitata direttamente dal popolo) il disegno di legge costituzionale approvato in prima lettura alla Camera cambierebbe l’intero impianto dell’istituto di cui all’articolo 71 della Costituzione e produrrebbe effetti significativi.

Un’iniziativa legislativa popolare presentata da almeno cinquecentomila elettori e non approvata dal Parlamento entro diciotto mesi dalla sua presentazione potrebbe essere sottoposta, previo giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale sulla ricorrenza di determinati presupposti (quali il rispetto dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione nonché dei vincoli europei e internazionali; motivi di inammissibilità del referendum sarebbero altresì il contenuto non omogeneo della proposta tale da non consentire una netta opzione per il sì o per il no e la mancata previsione nella stessa proposta dei mezzi necessari per far fronte ai nuovi o maggiori oneri che dovesse comportare), a referendum popolare eventualmente in alternativa con una diversa proposta di legge avanzata dalle Camere e non accettata dai promotori del referendum.

La proposta di iniziativa popolare suffragata dalla maggioranza dei voti validamente espressi o, in caso di contemporanea presentazione di una diversa proposta delle Camere, quella delle due proposte che ottenesse il maggior numero di voti sarebbe approvata.

Si introdurrebbe quindi un vero e proprio referendum propositivo, in analogia o quasi con quanto previsto nell’ordinamento elvetico, il cui fine è quello di rendere efficace e di non disperdere gli sforzi dell’intero iter procedimentale.

L’obiettivo dei promotori del disegno di legge costituzionale sarebbe “quello di puntare ad un rinnovamento del sistema politico, sia potenziando l’apporto diretto dei cittadini alle scelte politiche fondamentali, sia valorizzando la capacità del Parlamento di rappresentare le istanze dei cittadini e di costituire un solido ponte tra la società e le istituzioni” (Spadacini L.).

Infatti nella proposta del disegno di legge si parla della possibilità di rilanciare l’attività delle Camere le quali, in previsione del referendum propositivo, avrebbero uno spazio per elaborare una soluzione che potrebbe rivelarsi più meditata di quella proposta dai promotori. Proprio con l’introduzione nel nostro ordinamento dello strumento del referendum propositivo si produrrebbero degli effetti innovativi.

Diversamente da come concepito dai padri costituenti trovatisi in un contesto di ritrovata libertà e di assoluta tutela del principio di rappresentatività, l’istituto non risulterebbe una forma di legislazione negativa, una controforza in quanto non esproprierebbe il Parlamento della possibilità di proporre un controprogetto sottoponibile ai cittadini contestualmente al progetto di iniziativa popolare.

Tuttavia varie sono le perplessità che devono essere chiarite; in particolare l’eliminazione del quorum strutturale per la validità della votazione referendaria. Il rischio è che la totale eliminazione di questo quorum potrebbe portare ad un esito positivo del referendum anche in casi di partecipazione estremamente ridotta alla votazione con la conseguente introduzione di una legge votata da pochi.

Potrebbe nascere il dubbio che il dibattito sulla democrazia diretta nasconda pulsioni populistiche: il voto verrebbe espresso solo da una piccola minoranza non realmente rappresentativa forzando la stessa democrazia e innescando dinamiche plebiscitarie e discriminatorie. Si pensi, ad esempio, all’iniziativa popolare “Per l’espulsione degli stranieri” del 2014 e “Prima i nostri” del 2016 nella Repubblica e Cantone Ticino e alla proposition 8” del 2009 in California in cui si chiedeva l’abolizione del diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso (approvata dal 52,1 % degli aventi diritto al voto e successivamente bocciata in quanto ritenuta “discriminatoria” dalla Corte distrettuale di San Francisco).

Proprio a quegli ordinamenti il legislatore italiano rivolge, oggi, lo sguardo. In particolare il disegno di legge che le Camere potrebbero proporre in alternativa a quello popolare e che diverrebbe oggetto di referendum approvativo, rispecchierebbe nella sostanza il controprogetto elaborato dall’Assemblea legislativa e previsto dall’ articolo 139, comma 5 della Costituzione federale; l’analogia ci sta. In entrambi gli ordinamenti si vuole (in Italia si vorrebbe perché il vigente articolo 71 della Costituzione non prevede un controprogetto o una controproposta) strutturare maggiormente la determinazione popolare riguardo all’indirizzo politico, preservando il ruolo del Parlamento che non può e non deve essere escluso da tale circuito. 

L’affinità riguarda anche la possibilità prevista da alcuni Cantoni svizzeri e dai nostri Statuti regionali dell’iniziativa legislativa “territoriale”, in base al quale determinati soggetti possono chiedere l’introduzione o la modifica delle leggi del proprio Cantone e della propria Regione. Tuttavia, non è sufficiente introdurre solo efficaci meccanismi per il funzionamento degli istituti di partecipazione, ma è necessario porre controlli e ricorrere a tali istituti con parsimonia.

Negli Stati Uniti, negli ultimi anni, si è assistito ad un procedimento inverso in cui l’eccessivo utilizzo dell’initiative ha causato sia un disinteresse generale di parte dell’elettorato dalle questioni politiche del proprio Stato federale, sia un modus cogitandi e operandi pericoloso:  utilizzare lo strumento di partecipazione per attuare programmi o interessi economici favorevoli ad una minoranza, senza conoscere la provenienza dei fondi destinati a sostenere quella determinata iniziativa; utilizzare lo strumento di partecipazione anche per “battaglie” riguardanti i diritti della persona, anziché discuterne in un consesso, determinando così un maggiore “settarismo” tra le persone.

Inoltre, l’assenza di un controllo federale sugli istituti dell’initiative e del referendum (si ricorda anche che in alcuni Stati strumenti di partecipazione non sono previsti dalle rispettive Costituzioni) con l’unica condizione di rispettare la Costituzione degli Stati Uniti, comporta che gli ordinamenti statali, per la lunga tradizione liberale che contraddistingue l’America, disciplinino in modo sostanzialmente libero gli istituti, non rappresentando certamente una garanzia per i cittadini e per il rapporto tra istituzioni e cittadini.

 

4. Brevi cenni sulla e-democracy

La questione della partecipazione, inoltre, diventa più complessa quando si affronta il tema della e-democracy (democrazia elettronica). La “rete” sembrerebbe superare il tradizionale filtro rappresentativo dei partiti politici, per consentire al popolo di esprimere direttamente la propria volontà circa l’adozione delle misure più opportune da parte del decisore politico.

Non può sottacersi che la previsione di nuovi strumenti tecnologici quali i social network abbiano  costituito  un’innovazione  particolarmente significativa nella dimensione sociale, contribuendo alla definizione di una rete capillare di collegamento tra gli individui, in condizione di partecipare in modo paritario ai processi decisionali e producendo un cambiamento del luogo d’aggregazione che da piazza reale si è trasformata in piazza telematica che si concretizza con una piattaforma dove si svolge lo spazio sociale.

Possibile nei sistemi costituzionali elvetico e statunitense, in Italia invece si presentano diversi problemi a partire dal divario digitale (o digital divide) che nel Paese rende non accessibile a tutti il dialogo telematico. Infatti, secondo stime ufficiali, meno della metà della popolazione italiana ha competenze digitali di base. Poco meno del 30% ha invece conoscenze superiori alle minime.

Non tutti gli italiani sono, quindi, in condizioni di partecipare al “dibattito” politico anche per mancanza di una conoscenza specifica di questo ambito: fattori quali l’assenza di una copertura territoriale totale della banda larga, l’età, le condizioni culturali ed economiche emarginano gran parte dei cittadini da qualsiasi dibattito in rete, con ciò non permettendo una sostanziale eguaglianza nella partecipazione. Inoltre, senza una regolamentazione c’è il rischio che la piazza digitale più che uno spazio sociale costruttivo diventi semplicemente e pericolosamente uno spazio di protesta; luogo di finta democrazia nel caso in cui la piazza digitale sia di proprietà di privati e le decisioni al suo interno siano prese “verticalmente”.

È necessario che la democrazia elettronica “pretenda” la partecipazione al dibattito. Dibattito preceduto da una fase di ascolto, di valutazione e di critica, che porti la massima inclusività e eguaglianza delle parti come avviene in qualsiasi luogo reale. Ma la “rete” non è tutto; può facilitare il potere decisionale ma non sostituirsi totalmente ai meccanismi rappresentativi.

La stessa considerazione deve essere fatta anche per i classici strumenti di partecipazione il cui rafforzamento costituisce indubbiamente un elemento di democratizzazione del processo decisionale, ma l’assenza di rigidi controlli e di limiti in ordine all’iter procedimentale potrebbe facilitare una strumentalizzazione da parte dei partiti politici che, incapaci di percepire i sintomi del malessere sociale e di dare risposte concrete, trasferirebbero le decisioni al voto popolare, evitando così il confronto coi cittadini.

Tuttavia, questo  non potrà succedere qualora ci fosse un coordinamento dei meccanismi della partecipazione con quelli della rappresentanza in quanto non è possibile affermare, e attuare, una determinata forma di democrazia “pura”, perché la democrazia è proprio questo: un laboratorio di sperimentazione e di miglioramento; una “forma di governo” come spiega egregiamente Giovanni Sartori “che vive perennemente sotto pressione, potentemente condizionata dal grande divario sempre esistente e che tutti possono constatare con le sue umane imperfezioni”.

 

Parte I