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L’indulto non può concorrere con la sospensione condizionale della pena

Nota a Corte di Cassazione - Sezioni Unite, Sentenza 15 ottobre 2010, n.36837
Sommario:

1. Sentenza Corte di Cassazione, sez. unite, 15.07.2010 (dep. 15.10.2010) n. 36837.

2. Diritto di scelta del condannato.

3. · Sentenza Corte di Cassazione, sez. 1, del 16.06.2010 (dep. 01.07.2010), n. 24854. Funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e questioni applicative.

4. Autorità di cosa giudicata e riproposizione della domanda in executivis.

* Sentenza Corte Cassazione 21.01.2010, sez. unite, n. 18288.

1. Le sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36837 del 15.07.2010, sono intervenute sulla questione della configurabilità del concorso tra la sospensione condizionale della pena (artt. 163 e ss c.p.) e l’indulto (art. 174 c.p. e, in ultimo, L. 241/2006), l’una causa estintiva del reato e l’altra causa estintiva della pena.

Il precedente contrasto giurisprudenziale e di dottrina viene superato dalle sezioni unite attraverso una serie di argomentazioni logico-sistematiche, in piena coerenza con gli obiettivi che il legislatore intende perseguire con i due distinti istituti giuridici.

In particolare, in considerazione di una preliminare ottica di prevenzione generale, la Corte osserva che le finalità giuridico-sociali di prevenzione della criminalità e ravvedimento del condannato che si intendono perseguire attraverso il beneficio della sospensione condizionale della pena, anche quale strumento di pressione nei confronti di una intenzione di recidiva del reo, verrebbero ad essere completamente vanificate dalla simultanea applicazione dell’indulto.

Peraltro, dal punto di vista dell’interesse del condannato, si registra, nell’ipotesi della concessione di entrambi i benefici, una palese violazione del favor rei; infatti, in caso di concorso o sopravvenienza di altri titoli esecutivi, il condannato non potrebbe più avvalersi del beneficio indulgenziale se non per la eventuale parte residua. Nè dalla mancata doppia applicazione dei benefici deriverebbe alcun altro tipo di danno al condannato in quanto, ottenuta la sospensione condizionale della pena, ove a ciò non seguisse il positivo decorso del tempo di prova ex art. 163 c.p., questi potrebbe pur sempre richiedere la concessione del provvedimento di indulto con lo strumento dell’incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 172 c.p. .

Si evidenzia, ancora, che la cumulabilità dei due benefici risulta inconciliabile anche con riferimento ai presupposti applicativi ed alle caratteristiche strutturali riferibili ai due istituti: la sospensione condizionale della pena è fattispecie a formazione progressiva riguardo agli effetti estintivi del reato, ma è immediatamente imputabile a quel reato e a quella pena; l’indulto, conformemente alla sua specifica funzionalità, è applicabile su pene suscettibili di esecuzione e, per ciò solo, si afferma, non può produrre effetti nei confronti di una pena la cui esecuzione sia stata sospesa.

Sulla base delle argomentazioni brevemente suesposte, la Corte di Cassazione ha enunciato il principio per il quale l’indulto non può concorrere con la sospensione condizionale della pena, prevalendo sul primo quest’ultimo beneficio.

2. Una prima questione applicativa riguarda la possibilità di riconoscere in capo al condannato un interesse contrario: la pretesa, cioè, a richiedere la revoca della sospensione condizionale della pena e l’applicazione dell’indulto, in modo da riservare l’applicazione del primo beneficio alla sanzione inflitta con altra condanna. Nel concreto, tale interesse potrebbe sorgere in quanto l’ambito di applicazione del beneficio di cui all’art. 163 c.p. risulta più ampio rispetto alla causa estintiva di cui all’art. 174 c.p., ciò sia dal punto di vista del campo dei reati indultabili, che dal punto di vista dell’arco temporale di operatività di detto beneficio.

La soluzione negativa sulla possibilità di sollevare tale domanda in sede di esecuzione della decisione di condanna, trae spunto dalla Sentenza n. 24854 del 16.06.2010 della sez. I Corte di Cassazione, la quale opportunamente chiarisce che la tutela di un siffatto interesse non trova ingresso nel nostro ordinamento giuridico, tanto più che risultano tassativamente previste le ipotesi di revoca della sospensione condizionale della pena (art. 168 c.p.), e non vi rientra l’ipotesi in questione.

Eguale quesito è stato posto in sede di giudizio di cognizione.

In particolare, ci si è chiesti se sia possibile riconoscere, in capo al condannato, un interesse ad impugnare la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena espressa in primo grado, chiedendo, contestualmente, l’applicazione dell’indulto.

Le sezioni unite della Cassazione (Cass. Sez. Un. 16.03.1994) hanno precisato che il giudizio sulla meritevolezza e sulla tutelabilità dell’interesse che il condannato intende perseguire attraverso una siffatta domanda, non potrà riferirsi a mere valutazioni opportunistiche di ordine pratico proprie del condannato; si dovrà, piuttosto, avere riguardo a situazioni giuridicamente rilevanti rispetto alle precipue funzioni della sospensione condizionale della pena, quale, ad esempio, la finalizzazione alla reintegrazione sociale del reo.

In tale ottica, vi è da ricordare che il beneficio di cui agli artt. 163 e ss. c.p. si estende anche alle pene accessorie; al contrario, invece, ai sensi dell’art. 174 c.p., l’indulto non estingue le pene accessorie né gli effetti penali della condanna e, pertanto, dal punto di vista sanzionatorio, soddisfa maggiormente le finalità educative di carattere speciale e di prevenzione generale proprie dell’intero sistema penale; considerazione, quest’ultima, che, a parere di chi scrive, potrebbe supportare il giudizio di meritevolezza della domanda.

3. Ciò premesso, nel rispetto della funzione nomofilattica riconosciuta alle sezioni unite della Corte di Cassazione, occorre esaminare gli effetti della pronuncia n. 36837.

Come è noto, per funzione nomofilattica della Corte di Cassazione si intende il riconoscimento del compito di garantire l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, in un’ottica di unità del diritto oggettivo nazionale. In particolare, essa si articola in due sottofunzioni ben distinte: da un lato garantire l’attuazione della legge nel caso concreto, realizzando la giurisdizione in senso stretto, dall’altro fornire indirizzi interpretativi “uniformi” per mantenere, nei limiti del possibile, l’unità dell’ordinamento giuridico, attraverso una sostanziale conformità nella giurisprudenza.

Si può tranquillamente affermare che la nomofilachia sia diretta espressione dell’art. 3 della Costituzione, in quanto l’uniforme interpretazione della normativa garantisce l’uguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge.

Il dlgs. 40/2006 ha mirato sostanzialmente a dare maggiore peso alle pronunce a Sezioni Unite della Corte di Cassazione e al principio di diritto enunciato nelle sentenze di legittimità, impedendo alle sezioni semplici di discostarsi da esse, se non rimettendo motivatamente la questione problematica ad una nuova pronuncia delle Sezioni Unite (cfr. art. 374 c.p.c.).

Nonostante ciò, però, il nostro sistema rimane atavicamente strutturato quale ordinamento di civil law, diversamente dagli ordinamenti di common law in cui lo stare decisis assume forza vincolante.

Precisate tali caratteristiche della funzione nomofilattica, ci si chiede se il condannato che, in epoca antecedente alla decisione del Giudice di legittimità qui esaminata, abbia ottenuto in sentenza, già passata in giudicato, sia il beneficio della sospensione condizionale della pena che l’indulto, possa agire, in sede esecutiva, per vedere riconosciuto il suo diritto a richiedere la revoca dell’indulto conservando l’efficacia della sospensione condizionale della pena. E’ evidente, infatti, che il condannato, avvantaggiandosi della pronuncia delle sezioni unite, potrebbe avere interesse a riservare il beneficio dell’indulto con riferimento ad altra condanna.

In ultima analisi, cioè, occorre chiedersi se la funzione nomofilattica riconosciuta alla pronuncia a sezioni unite della Corte di Cassazione, possa superare l’autorità di cosa giudicata.

4. A tal proposito, si richiama il principio di diritto, enunciato dalle Sezioni Unite con la decisione n. 18288 del 21 gennaio 2010, per un caso analogo.

“Il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata. (La Corte ha precisato che tale soluzione è imposta dalla necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona in linea con i principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il cui art. 7, come interpretato dalle Corti europee, include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale).”

Nel corpo della sentenza si afferma:

La nozione di "diritto vivente" è correlata a quella di giurisprudenza consolidata o giurisprudenza costante, con particolare riguardo alle pronunce della Corte di Cassazione, in ragione del compito di nomofilachia alla stessa assegnato dall’ordinamento giudiziario. Tali pronunce meritano una considerazione preminente, perché sono il frutto del lavoro esegetico della Corte Suprema, finalizzato a garantire "quella sintesi imprescindibile per scongiurare il prodursi di disarmonie che offendono la fondamentale esigenza di uguaglianza dei cittadini". Per le decisioni di legittimità predomina sul "criterio quantitativo" quello "qualitativo del grado" e della funzione rivestiti dall’Autorità Giudiziaria da cui promana la scelta interpretativa, con la conseguenza che è sufficiente "anche una sola decisione della Corte di legittimità in presenza di interpretazioni contrastanti, per determinare il vincolo del diritto vivente, specie se pronunciata a Sezioni Unite….Le considerazioni sin qui svolte legittimano la conclusione che l’obbligo di interpretazione conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo impone di includere nel concetto di nuovo "elemento di diritto", idoneo a superare la preclusione di cui al secondo comma dell’art. 666 c.p.p., anche il mutamento giurisprudenziale che assume, specie a seguito di un intervento delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, carattere di stabilità e integra il "diritto vivente".

A ben vedere, però, ciò che si afferma non è il superamento dell’autorità di cosa giudicata , ma la mera riproponibilità in sede esecutiva, superando attraverso il mutamento di giurisprudenza lo sbarramento di cui al comma II dell’art. 666, di una domanda già precedentemente decisa nella stessa sede:

“…È vero che la Corte di giustizia delle Comunità europee ha sempre affermato, con riferimento al rapporto tra l’applicazione delle norme comunitarie e l’autorità del giudicato, che il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 del Trattato CE non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione; ha sempre rammentato, inoltre, l’importanza che il principio dell’autorità del giudicato assume nell’ordinamento giuridico comunitario e in quello nazionale, perché finalizzato a garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia . Non può però sottacersi che la disposizione processuale qui esaminata, per le considerazioni più sopra sviluppate, non pone un problema di giudicato in senso proprio, ma una preclusione alla "mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi", sicché, in difetto di tale presupposto ben circoscritto, è consentito il riesame della posizione della persona interessata alla tutela di un suo diritto fondamentale, ponendo così rimedio ad eventuali violazioni del diritto interno o comunitario, evidenziate da un diverso, successivo e stabilizzato orientamento ermeneutico. L’individuato limite di operatività del presupposto impeditivo garantisce anche l’effettività dell’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario.…Si vuole, in sostanza, evidenziare che la giurisprudenza europea, pur riconoscendo - in via generale - la rilevanza del giudicato nazionale, ne relativizza, per così dire, il valore in situazioni particolari in cui le corrispondenti modalità di attuazione siano strutturate in modo tale da rendere impossibile o eccessivamente difficile il concreto esercizio di diritti previsti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività).”

Alla luce di quanto esposto, occorre concludere che, stante l’intangibilità del giudicato, è da escludere la proponibilità di una domanda di revoca del doppio beneficio concesso nel corpo di sentenza già passata in giudicato; potrà, invece, essere riesaminato un eventuale doppio beneficio intervenuto in sede di esecuzione della decisione di condanna, dovendosi, pertanto, dar prevalenza alla sospensione condizionale della pena.

Sommario:

1. Sentenza Corte di Cassazione, sez. unite, 15.07.2010 (dep. 15.10.2010) n. 36837.

2. Diritto di scelta del condannato.

3. · Sentenza Corte di Cassazione, sez. 1, del 16.06.2010 (dep. 01.07.2010), n. 24854. Funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e questioni applicative.

4. Autorità di cosa giudicata e riproposizione della domanda in executivis.

* Sentenza Corte Cassazione 21.01.2010, sez. unite, n. 18288.

1. Le sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36837 del 15.07.2010, sono intervenute sulla questione della configurabilità del concorso tra la sospensione condizionale della pena (artt. 163 e ss c.p.) e l’indulto (art. 174 c.p. e, in ultimo, L. 241/2006), l’una causa estintiva del reato e l’altra causa estintiva della pena.

Il precedente contrasto giurisprudenziale e di dottrina viene superato dalle sezioni unite attraverso una serie di argomentazioni logico-sistematiche, in piena coerenza con gli obiettivi che il legislatore intende perseguire con i due distinti istituti giuridici.

In particolare, in considerazione di una preliminare ottica di prevenzione generale, la Corte osserva che le finalità giuridico-sociali di prevenzione della criminalità e ravvedimento del condannato che si intendono perseguire attraverso il beneficio della sospensione condizionale della pena, anche quale strumento di pressione nei confronti di una intenzione di recidiva del reo, verrebbero ad essere completamente vanificate dalla simultanea applicazione dell’indulto.

Peraltro, dal punto di vista dell’interesse del condannato, si registra, nell’ipotesi della concessione di entrambi i benefici, una palese violazione del favor rei; infatti, in caso di concorso o sopravvenienza di altri titoli esecutivi, il condannato non potrebbe più avvalersi del beneficio indulgenziale se non per la eventuale parte residua. Nè dalla mancata doppia applicazione dei benefici deriverebbe alcun altro tipo di danno al condannato in quanto, ottenuta la sospensione condizionale della pena, ove a ciò non seguisse il positivo decorso del tempo di prova ex art. 163 c.p., questi potrebbe pur sempre richiedere la concessione del provvedimento di indulto con lo strumento dell’incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 172 c.p. .

Si evidenzia, ancora, che la cumulabilità dei due benefici risulta inconciliabile anche con riferimento ai presupposti applicativi ed alle caratteristiche strutturali riferibili ai due istituti: la sospensione condizionale della pena è fattispecie a formazione progressiva riguardo agli effetti estintivi del reato, ma è immediatamente imputabile a quel reato e a quella pena; l’indulto, conformemente alla sua specifica funzionalità, è applicabile su pene suscettibili di esecuzione e, per ciò solo, si afferma, non può produrre effetti nei confronti di una pena la cui esecuzione sia stata sospesa.

Sulla base delle argomentazioni brevemente suesposte, la Corte di Cassazione ha enunciato il principio per il quale l’indulto non può concorrere con la sospensione condizionale della pena, prevalendo sul primo quest’ultimo beneficio.

2. Una prima questione applicativa riguarda la possibilità di riconoscere in capo al condannato un interesse contrario: la pretesa, cioè, a richiedere la revoca della sospensione condizionale della pena e l’applicazione dell’indulto, in modo da riservare l’applicazione del primo beneficio alla sanzione inflitta con altra condanna. Nel concreto, tale interesse potrebbe sorgere in quanto l’ambito di applicazione del beneficio di cui all’art. 163 c.p. risulta più ampio rispetto alla causa estintiva di cui all’art. 174 c.p., ciò sia dal punto di vista del campo dei reati indultabili, che dal punto di vista dell’arco temporale di operatività di detto beneficio.

La soluzione negativa sulla possibilità di sollevare tale domanda in sede di esecuzione della decisione di condanna, trae spunto dalla Sentenza n. 24854 del 16.06.2010 della sez. I Corte di Cassazione, la quale opportunamente chiarisce che la tutela di un siffatto interesse non trova ingresso nel nostro ordinamento giuridico, tanto più che risultano tassativamente previste le ipotesi di revoca della sospensione condizionale della pena (art. 168 c.p.), e non vi rientra l’ipotesi in questione.

Eguale quesito è stato posto in sede di giudizio di cognizione.

In particolare, ci si è chiesti se sia possibile riconoscere, in capo al condannato, un interesse ad impugnare la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena espressa in primo grado, chiedendo, contestualmente, l’applicazione dell’indulto.

Le sezioni unite della Cassazione (Cass. Sez. Un. 16.03.1994) hanno precisato che il giudizio sulla meritevolezza e sulla tutelabilità dell’interesse che il condannato intende perseguire attraverso una siffatta domanda, non potrà riferirsi a mere valutazioni opportunistiche di ordine pratico proprie del condannato; si dovrà, piuttosto, avere riguardo a situazioni giuridicamente rilevanti rispetto alle precipue funzioni della sospensione condizionale della pena, quale, ad esempio, la finalizzazione alla reintegrazione sociale del reo.

In tale ottica, vi è da ricordare che il beneficio di cui agli artt. 163 e ss. c.p. si estende anche alle pene accessorie; al contrario, invece, ai sensi dell’art. 174 c.p., l’indulto non estingue le pene accessorie né gli effetti penali della condanna e, pertanto, dal punto di vista sanzionatorio, soddisfa maggiormente le finalità educative di carattere speciale e di prevenzione generale proprie dell’intero sistema penale; considerazione, quest’ultima, che, a parere di chi scrive, potrebbe supportare il giudizio di meritevolezza della domanda.

3. Ciò premesso, nel rispetto della funzione nomofilattica riconosciuta alle sezioni unite della Corte di Cassazione, occorre esaminare gli effetti della pronuncia n. 36837.

Come è noto, per funzione nomofilattica della Corte di Cassazione si intende il riconoscimento del compito di garantire l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, in un’ottica di unità del diritto oggettivo nazionale. In particolare, essa si articola in due sottofunzioni ben distinte: da un lato garantire l’attuazione della legge nel caso concreto, realizzando la giurisdizione in senso stretto, dall’altro fornire indirizzi interpretativi “uniformi” per mantenere, nei limiti del possibile, l’unità dell’ordinamento giuridico, attraverso una sostanziale conformità nella giurisprudenza.

Si può tranquillamente affermare che la nomofilachia sia diretta espressione dell’art. 3 della Costituzione, in quanto l’uniforme interpretazione della normativa garantisce l’uguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge.

Il dlgs. 40/2006 ha mirato sostanzialmente a dare maggiore peso alle pronunce a Sezioni Unite della Corte di Cassazione e al principio di diritto enunciato nelle sentenze di legittimità, impedendo alle sezioni semplici di discostarsi da esse, se non rimettendo motivatamente la questione problematica ad una nuova pronuncia delle Sezioni Unite (cfr. art. 374 c.p.c.).

Nonostante ciò, però, il nostro sistema rimane atavicamente strutturato quale ordinamento di civil law, diversamente dagli ordinamenti di common law in cui lo stare decisis assume forza vincolante.

Precisate tali caratteristiche della funzione nomofilattica, ci si chiede se il condannato che, in epoca antecedente alla decisione del Giudice di legittimità qui esaminata, abbia ottenuto in sentenza, già passata in giudicato, sia il beneficio della sospensione condizionale della pena che l’indulto, possa agire, in sede esecutiva, per vedere riconosciuto il suo diritto a richiedere la revoca dell’indulto conservando l’efficacia della sospensione condizionale della pena. E’ evidente, infatti, che il condannato, avvantaggiandosi della pronuncia delle sezioni unite, potrebbe avere interesse a riservare il beneficio dell’indulto con riferimento ad altra condanna.

In ultima analisi, cioè, occorre chiedersi se la funzione nomofilattica riconosciuta alla pronuncia a sezioni unite della Corte di Cassazione, possa superare l’autorità di cosa giudicata.

4. A tal proposito, si richiama il principio di diritto, enunciato dalle Sezioni Unite con la decisione n. 18288 del 21 gennaio 2010, per un caso analogo.

“Il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata. (La Corte ha precisato che tale soluzione è imposta dalla necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona in linea con i principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il cui art. 7, come interpretato dalle Corti europee, include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale).”

Nel corpo della sentenza si afferma:

La nozione di "diritto vivente" è correlata a quella di giurisprudenza consolidata o giurisprudenza costante, con particolare riguardo alle pronunce della Corte di Cassazione, in ragione del compito di nomofilachia alla stessa assegnato dall’ordinamento giudiziario. Tali pronunce meritano una considerazione preminente, perché sono il frutto del lavoro esegetico della Corte Suprema, finalizzato a garantire "quella sintesi imprescindibile per scongiurare il prodursi di disarmonie che offendono la fondamentale esigenza di uguaglianza dei cittadini". Per le decisioni di legittimità predomina sul "criterio quantitativo" quello "qualitativo del grado" e della funzione rivestiti dall’Autorità Giudiziaria da cui promana la scelta interpretativa, con la conseguenza che è sufficiente "anche una sola decisione della Corte di legittimità in presenza di interpretazioni contrastanti, per determinare il vincolo del diritto vivente, specie se pronunciata a Sezioni Unite….Le considerazioni sin qui svolte legittimano la conclusione che l’obbligo di interpretazione conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo impone di includere nel concetto di nuovo "elemento di diritto", idoneo a superare la preclusione di cui al secondo comma dell’art. 666 c.p.p., anche il mutamento giurisprudenziale che assume, specie a seguito di un intervento delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, carattere di stabilità e integra il "diritto vivente".

A ben vedere, però, ciò che si afferma non è il superamento dell’autorità di cosa giudicata , ma la mera riproponibilità in sede esecutiva, superando attraverso il mutamento di giurisprudenza lo sbarramento di cui al comma II dell’art. 666, di una domanda già precedentemente decisa nella stessa sede:

“…È vero che la Corte di giustizia delle Comunità europee ha sempre affermato, con riferimento al rapporto tra l’applicazione delle norme comunitarie e l’autorità del giudicato, che il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 del Trattato CE non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione; ha sempre rammentato, inoltre, l’importanza che il principio dell’autorità del giudicato assume nell’ordinamento giuridico comunitario e in quello nazionale, perché finalizzato a garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia . Non può però sottacersi che la disposizione processuale qui esaminata, per le considerazioni più sopra sviluppate, non pone un problema di giudicato in senso proprio, ma una preclusione alla "mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi", sicché, in difetto di tale presupposto ben circoscritto, è consentito il riesame della posizione della persona interessata alla tutela di un suo diritto fondamentale, ponendo così rimedio ad eventuali violazioni del diritto interno o comunitario, evidenziate da un diverso, successivo e stabilizzato orientamento ermeneutico. L’individuato limite di operatività del presupposto impeditivo garantisce anche l’effettività dell’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario.…Si vuole, in sostanza, evidenziare che la giurisprudenza europea, pur riconoscendo - in via generale - la rilevanza del giudicato nazionale, ne relativizza, per così dire, il valore in situazioni particolari in cui le corrispondenti modalità di attuazione siano strutturate in modo tale da rendere impossibile o eccessivamente difficile il concreto esercizio di diritti previsti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività).”

Alla luce di quanto esposto, occorre concludere che, stante l’intangibilità del giudicato, è da escludere la proponibilità di una domanda di revoca del doppio beneficio concesso nel corpo di sentenza già passata in giudicato; potrà, invece, essere riesaminato un eventuale doppio beneficio intervenuto in sede di esecuzione della decisione di condanna, dovendosi, pertanto, dar prevalenza alla sospensione condizionale della pena.