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Il danno all’immagine della pubblica amministrazione va risarcito anche in ipotesi di reato comune commesso da pubblici dipendenti

Nota a Corte dei Conti - Sezione giurisdizionale per la Toscana, Sentenza 18 marzo 2011, n. 90
”In tema di interpretazione dell’art. 17, comma 30 ter.d.l. n. 78/2009 , l’art. 17, comma ter d.l. n. 78/2009 va interpretato nel senso che non esclude la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante da reato comune in quanto l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 va interpretato nel senso che la sussistenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna si pone solo quale mera condizione per l’esercizio dell’azione contabile per danno derivante da reato contro la P.A.”

1. Premesse generali

Prima di passare ad esaminare l’importante sentenza della Corte dei Conti, si fa un breve cenno a quella particolare tipologia di danno all’aerarium costituito dal danno all’immagine della P.A.

Tradizionalmente, il diritto all’immagine dell’ente pubblico viene inteso come diritto, giuridicamente tutelato in forza dei principi di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 97 della Costituzione, riferito expressis verbis ai pubblici dipendenti, al conseguimento, al mantenimento ed al riconoscimento della identità di persona giuridica pubblica, alla tutela della “estimazione sociale”, “reputazione”, “prestigio” dell’ente pubblico.

La giurisprudenza e la dottrina maggioritarie collocano tale categoria di danno nell’ambito del danno esistenziale, inteso come lesione di interessi costituzionalmente garantiti (diritto all’integrità morale, immagine, onore, riservatezza, etc.), che si manifesterebbe come lesione della sfera di attività nella quale si esplica la personalità del soggetto leso; tale tipologia di danno ha tutela analoga a quella del danno biologico e, pertanto, sarebbe risarcibile ex art. 2043 cod. civ., a prescindere dai requisiti di cui all’art.2059 c.c. . Il danno all’immagine, in particolare, scaturisce da condotte (atipiche) non individuabili a priori anche se è possibile riconoscere alcune figure sintomatiche del pregiudizio perché tipizzate in via pretorile (es. percezione di tangenti).

Decisiva, in tal senso, si è rivelata la pronuncia della Corte dei Conti, a sezioni riunite, del 23.04.03, la quale ha statuito che il danno all’immagine di un ente pubblico è da ritenersi non già solo un danno risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c., bensì un danno patrimoniale in senso ampio, rientrante nella più generale figura del danno esistenziale.

2. La tutela dello Stato-Comunità

Indubbiamente, anche alla luce delle disposizioni costituzionali (non solo l’art. 97 Cost. che impone l’imparzialità, la legalità ed il buon andamento degli uffici pubblici, ma anche l’art. 54 Cost. che impone peculiari obblighi di disciplina ed onore ai soggetti che esercitano pubbliche funzioni), appare evidente che l’immagine della Pubblica amministrazione si connota per il rispetto della legalità e del buon andamento dell’attività svolta, per cui le lesioni di tali principi ben possono determinare perdita di immagine.

Nondimeno, occorre osservare che titolare di siffatto interesse non è propriamente l’ente collettivo, bensì lo Stato-comunità nel suo complesso (gli amministrati), ed è a favore di esso, e non dello Stato-persona (che semmai è il soggetto passivo dei doveri di legalità, imparzialità e buon andamento), che l’art. 97 Cost. impone una riserva di legge e specifici doveri all’amministrazione ed ai suoi rappresentanti.

Se tale prospettiva viene ritenuta valida, le voci di danno risarcibile possono allora estendersi sino a ricomprendere anche il nocumento che, pur non ricollegabile immediatamente e direttamente alla P.A. come ente pubblico sia, di fatto, pregiudizievole agli interessi collettivi fondamentali, riconosciuti meritevoli di tutela giuridica. Peraltro, già una innovativa giurisprudenza ha ricostruito il danno erariale come danno alla collettività, ponendo le basi per allargare le voci di pregiudizio risarcibile fino a ricomprendervi i danni all’ambiente, al paesaggio, alla salute; si è già riconosciuta, in tal modo, la possibilità di attribuire una vera e propria posizione di diritto soggettivo ai portatori di interessi collettivi che rivestano posizioni soggettive giuridicamente rilevanti, ampliando le maglie del risarcimento alle ipotesi di lesione agli interessi della collettività.

3. La Pronuncia della Corte dei Conti

Venendo alla sentenza della sezione giurisdizionale per la Toscana della Corte dei Conti, vengono in rilievo le note problematiche interpretative sull’art. 17, comma 30 ter, del decreto-legge 1º luglio 2009, n. 78, convertito nella legge 3 agosto 2009, n. 102, sia nella ipotesi in cui nei confronti di uno dei pubblici funzionari non sia ancora intervenuta sentenza penale irrevocabile di condanna e sia con riferimento alla fattispecie di reato non compresa tra i reati contro la pubblica amministrazione.

La Corte premette che, nelle more della decisione, sulle problematiche relative al predetto art. 17, comma 30 ter è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010, con approdi interpretativi che non hanno affatto chiuso definitivamente la questione, essendo ancora presenti, nello scenario giurisprudenziale, almeno tre opzioni interpretative:

a) per una prima opzione, l’art. 17, comma 30 ter, andava interpretato nel senso che, per effetto di esso, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione per fatto dei suoi dipendenti continua a sussistere nei soli casi direttamente previsti dall’art 7 della legge n. 97 del 2001 e, cioè, nei soli casi il cui il danno all’immagine derivi da reati contro la pubblica amministrazione, dovendosi ritenere preclusa ogni ulteriore tutela per il danno all’immagine derivante da reati diversi da quelli commessi contro la pubblica amministrazione e, a maggior ragione, per il danno all’immagine derivante da fatto illecito non costituente reato;

b) per una seconda opzione, l’art. 17, comma 30 ter, andava interpretato nel senso che, per effetto di esso, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione per fatto dei suoi dipendenti continua a sussistere non solo nei casi direttamente previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001, ma anche nel casi che lo stesso art. 7 della legge n. 97 indirettamente prevede allorquando fa salvo il disposto dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.: continua a sussistere, quindi, sia nel caso di danno all’immagine derivante da reati contro la pubblica amministrazione che nel caso di danno all’immagine derivante da ogni altro reato, dovendosi ritenere esclusa ogni ulteriore tutela soltanto nel caso di danno all’immagine derivante da fatto illecito non costituente reato;

c) per una terza opzione, infine, l’art. 17, comma 30 ter, andava interpretato nel senso che, per effetto di esso, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione per fatto dei suoi dipendenti continua a sussistere, come per la seconda opzione, nel caso di danno all’immagine derivante da qualsiasi tipo di reato (con la sola esclusione, quindi, del danno all’immagine derivante da fatto illecito non costituente reato), ma spetta alla giurisdizione del giudice contabile solo per il danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione, mentre spetta alla giurisdizione del giudice ordinario per il danno all’immagine derivante da reato diverso.

Con la citata sentenza n. 355 del 2010, la Corte Costituzionale ha provveduto a scegliere direttamente una delle interpretazioni possibili e ne ha ritenuto la conformità alla Costituzione.

L’interpretazione prescelta dalla Corte Costituzionale corrisponde alla prima delle opzioni interpretative sopra richiamate, e la sua conformità a Costituzione viene affermata dal giudice delle leggi nel rilievo che la limitazione della tutela del danno all’immagine al solo caso in cui il danno sia arrecato da un reato contro la pubblica amministrazione.

Peraltro, la sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010 è una sentenza di rigetto e, come tale, non ha, a differenza di quelle dichiarative di illegittimità costituzionale, efficacia erga omnes e, pertanto, determinano un vincolo (nemmeno assoluto) solo per il giudice del procedimento nel quale la relativa questione è stata sollevata.

Invece, negli altri procedimenti, il giudice conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia la norma denunciata, sempre che il risultato ermeneutico risulti adeguato ai principi espressi nella Costituzione, poiché l’interpretazione fatta propria dalla Corte Costituzionale riveste, per il giudice diverso da quello a quo solo il valore di un precedente autorevole.

Il Collegio si ritiene, pertanto legittimato a ricercare ed eventualmente a scegliere un’interpretazione dell’art. 17, comma 30 ter, diversa da quella fatta propria dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 355 del 2010, eventualmente traendola dalle opzioni interpretative che la Corte Costituzionale o non ha considerato o ha disatteso, tra cui, segnatamente, quella accolta nell’ordinanza della Sezione Lazio n. 462 del 2009 e nelle sentenze della Sezione Lombardia nn. 640 e 641 del 2009 e nn. 16, 50, 130, 131, 132, 318 e 813 del 2010,per la quale, in adesione alla seconda delle opzioni interpretative sopra richiamate, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione continua a sussistere anche se il danno deriva non da un reato contro la pubblica amministrazione ma da un reato comune.

In questo suo sforzo interpretativo, il Collegio prende le mosse dalla constatazione che l’art. 17, comma 30 ter, non indica direttamente i casi in cui può essere esercitata l’azione contabile per danno all’immagine della pubblica amministrazione, ma rinvia ai casi (e ai modi) previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001.

Ne consegue che, per l’interpretazione dell’art. 17, comma 30 ter, diventa fondamentale individuare quali e soprattutto quanti sono i casi e i modi previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001.

Orbene, l’art.7 della legge n. 97 del 2001 si compone di due periodi:

a) nel primo, si stabilisce che l’azione contabile per danno erariale da reato contro la pubblica amministrazione deve essere esercitata entro 30 giorni dalla comunicazione della sentenza penale irrevocabile di condanna;

b) nel secondo, viene fatto salvo il disposto dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p., per il quale il pubblico ministero, quando esercita l’azione penale per un reato che ha cagionato un danno per l’erario, deve informare il procuratore generale (oggi il procuratore regionale) presso la Corte dei Conti, dando notizia della imputazione.

La lettera della norma, se è chiara quanto al contenuto dei due periodi separatamente letti, non consente invece un approdo interpretativo univoco quando si vogliono leggere i due periodi in reciproca coordinazione.

Appaiono, infatti possibili, al riguardo, almeno due approcci interpretativi, che conducono a soluzioni diametralmente opposte.

In un primo approccio interpretativo, i due periodi di cui si compone la norma potrebbero essere coordinati in modo da darne la seguente lettura: per l’esercizio dell’azione contabile per danno da reato contro la pubblica amministrazione, la nuova disciplina introdotta con il primo periodo non esclude ma si aggiunge alla disciplina dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p., fatta salva dal secondo periodo, di modo che all’esercizio dell’azione contabile per danno da reato contro la pubblica amministrazione si applica sia la disciplina dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 che la disciplina dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.

A favore di tale interpretazione depongono specifici precedenti giurisprudenziali sia anteriori (Sezione Veneto n. 104 del 2007; Sezione Prima Centrale n 4 del 2003 e n. 429 del 2008) che successivi (Sezione Lombardia n. 318 del 2010), all’entrata in vigore dell’art 17 comma 30 ter, precedenti in base quali “non è improcedibile l’azione di responsabilità esercitata dall’organo requirente anteriormente alla comunicazione di cui all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, atteso che detta previsione - avente per oggetto la notizia al competente Procuratore regionale della Corte dei conti delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate nei confronti dei dipendenti pubblici per reati contro la pubblica amministrazione - si aggiunge al preesistente meccanismo di cui all’art. 129, disp. att. c.p.p. e, quindi, deve ritenersi rafforzativa e non già limitativa delle prerogative della Procura regionale” (.Sezione Veneto n. 104 del 2007).

Se la tesi dovesse essere accolta, allora la conseguenza ovvia sarebbe che effettivamente, come si trova presupposto nella sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010, l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 prevede soltanto “il caso” dei reati contro la pubblica amministrazione, sia quanto introduce una nuova disciplina (primo periodo), sia quanto coordina la nuova disciplina introdotta con quella preesistente (secondo periodo). Ne risulterebbe, quindi, avallata l’interpretazione della Corte Costituzionale che attribuisce all’art. 17, comma 30 ter, l’effetto di limitare, con il richiamo all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione al solo e unico “caso” del danno derivante da reato contro la pubblica amministrazione.

Ma, accolta la predetta interpretazione, proprio perché questa fa leva sul presupposto che la clausola di salvaguardia posta dal secondo periodo dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 ha come fine quello di assicurare, all’azione contabile per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione, l’applicazione congiunta della nuova e della vecchia disciplina, diventerebbe, poi del tutto impossibile sostenere, contemporaneamente, che, per effetto del primo periodo dello stesso 7 della legge n. 97 del 2001, l’azione contabile per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione può essere esercitata solo in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna.

In un secondo approccio interpretativo, l’art. 7 della legge n. 97 del 2001, potrebbe invece essere letto nel diverso senso che la norma, mentre, col primo periodo, mira ad introdurre una nuova disciplina per i danni derivanti dai reati contro la pubblica amministrazione, si preoccupa, con il secondo periodo, di mantenere ferma, per gli altri reati, la disciplina di cui all’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.

La conseguenza sarebbe che, dovendosi, in questo secondo approccio interpretativo, considerare il richiamo all’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p. in sé e, quindi, non più in quanto funzionale all’individuazione della disciplina complessivamente applicabile ai reati contro la pubblica amministrazione, allora l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 verrebbe a riguardare, con i rispettivi “modi”, non più un solo “caso” ma due “casi” e, cioè, sia il “caso” dei reati contro la pubblica amministrazione che il “caso” dei reati comuni.”

E ne risulterebbe avallato, questa volta, l’orientamento delle Sezioni Lazio e Lombardia espresso nelle sentenze innanzi richiamate, per il quale, con il richiamo all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, l’art 17, comma 30 ter, come si è già detto, avrebbe conservato la tutela dei danni all’immagine della pubblica amministrazione anche nel caso di danni derivanti da reati comuni.

Va da sé, poi, che accolta la predetta interpretazione, proprio perché questa porta a concentrare la disciplina dell’azione contabile per danno da reato contro la pubblica nel solo primo periodo dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 senza che possa essere ritenuto ulteriormente applicabile l’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p., sarebbe giocoforza escludere che l’azione contabile per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione possa essere esercitata in presenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna.

La conclusione è, dunque, che l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 presenta, sul piano letterale, una pluralità di significati, che può essere ridotta ad unità solo ricorrendo all’interpretazione logico-sistematica e, in particolare, individuando la ratio legis obiettivamente considerata.

Orbene, sotto il profilo della ratio legis, il Collegio osserva che entrambe le interpretazioni dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 sopra delineate si prestano ad un’analoga critica preliminare:

a) la prima interpretazione, perché attribuisce al primo periodo dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 un effetto acceleratorio (il procuratore regionale deve esercitare l’azione di responsabilità amministrativa entro 30 giorni……) largamente incomprensibile.

Escluso, infatti, per le ragioni che si troverebbe in contrasto con il disegno legislativo di cui si dirà appresso, l’intento di un appesantimento della responsabilità amministrativa dei pubblici dipendenti, sembra, parimenti doversi escludere, che la norma abbia avuto l’intento di favorire l’Erario, poiché, altrimenti, non si capirebbe perché sia stata posta soltanto per i reati contro la pubblica amministrazione e non anche per gli altri reati.

b) la seconda interpretazione, perché attribuisce alla clausola di salvaguardia di cui al secondo periodo dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 un significato in buona misura pleonastico, in quanto, anche in assenza della clausola in questione, sarebbe stato, in verità, difficile dubitare della sopravvivenza, per i reati comuni, dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.

Accantonate le critiche preliminari e proseguendo nell’indagine, va però, subito detto che, mentre la ratio della prima interpretazione continua a restare nella nebbia, la ratio della seconda interpretazione comincia ad assumere contorni precisi e soprattutto collocabili nel sistema, giacché inserisce, a pieno titolo, l’art 7 della legge n. 97 del 2001 nel disegno legislativo, di cui alla stessa sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010, volto a ridurre i casi di responsabilità amministrativa per evitare un rallentamento nell’efficacia e tempestività dell’azione dei pubblici poteri, in conseguenza dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali è demandato l’esercizio dell’attività amministrativa.

Vero è, infatti, che la Corte Costituzionale richiama il predetto disegno legislativo nel contesto di un ragionamento in cui sembra ritenere funzionale, al disegno medesimo, una riduzione della responsabilità per danno all’immagine derivante da reato comune più che una riduzione della responsabilità per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione, ma a questo Collegio sembra, però, vero proprio l’opposto e, cioè, che sia proprio la riduzione della responsabilità amministrativa per danno derivante da reato contro la pubblica amministrazione ad essere maggiormente funzionale all’esigenza di evitare il rallentamento dell’attività amministrativa, essendo evidente, per fare un esempio, che non è la paura delle conseguenze di una violenza sessuale ma il timore di incorrere in un abuso di ufficio che più si presta a rendere meno efficace e tempestiva l’azione dei pubblici poteri.

Per il complesso della suesposte considerazione, il Collegio accede alla seconda delle opzioni interpretative esaminate e per l’effetto conclude nei sensi:

a) che l’art. 17, comma 30 ter, va interpretato nel senso che non esclude la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante da reato comune;

b) che l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 va interpretato nel senso che pone, quale condizione per l’esercizio dell’azione contabile per danno derivante da reato contro la pubblica amministrazione, la sussistenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna.

Per quanto riguarda, infine, le questioni relative all’an al quantum del danno, il Collegio richiama, quanto, sul piano generale, ha avuto modo di osservare in tema di danno all’immagine della pubblica amministrazione nella già citata sentenza n.481 del 2010.

Nella predetta pronuncia, la Sezione ha aderito alla giurisprudenza di cui alla sentenza della Sezione Terza Giurisdizionale Centrale d’Appello n. 143 del 2009, la quale, partendo dall’orientamento accolto dalle S.S.R.R. nella sentenza n. 10 QM del 2003, ha rivisitato la nozione di danno all’immagine perseguibile dinanzi la Corte dei Conti, configurandolo, come danno patrimoniale da “perdita di immagine”, di tipo contrattuale, avente natura di danno conseguenza (tale comunque da superare una “soglia minima di pregiudizio”) e la cui prova potrà essere fornita anche per presunzioni e mediante il ricorso a nozioni di comune esperienza.

Ma, nell’aderire a tale orientamento giurisprudenziale, la Sezione ha puntualizzato, però, che, al di là di ogni problematica relativa alla distinzione tra danno evento e danno conseguenza, il danno all’immagine, similmente al danno biologico, resta un danno essenzialmente presunto, nel senso che, come nel danno biologico (per il quale vedi Corte Cost., sentenza n. 372 del 1994), la prova della lesione è, in re ipsa, prova dell’esistenza del danno, anche se tale prova non è sufficiente ai fini del risarcimento, essendo necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno (cfr. Sezione Prima Centrale appello n. 303/2008).

Il Collegio, pertanto, privilegia il carattere della patrimonialità del danno, poiché, a prescindere dalla considerazione che tra patrimonialità e non patrimonialità il rapporto non è di tipo alternativo (nella lesione dell’immagine della pubblica amministrazione possono essere presenti contemporaneamente sia danni patrimoniali che danni non patrimoniali) è in un’ottica di patrimonialità che da tempo la Corte regolatrice ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti sul danno all’immagine della Pubblica amministrazione, quale danno conseguente alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica che, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di una valutazione patrimoniale sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso.

”In tema di interpretazione dell’art. 17, comma 30 ter.d.l. n. 78/2009 , l’art. 17, comma ter d.l. n. 78/2009 va interpretato nel senso che non esclude la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante da reato comune in quanto l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 va interpretato nel senso che la sussistenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna si pone solo quale mera condizione per l’esercizio dell’azione contabile per danno derivante da reato contro la P.A.”

1. Premesse generali

Prima di passare ad esaminare l’importante sentenza della Corte dei Conti, si fa un breve cenno a quella particolare tipologia di danno all’aerarium costituito dal danno all’immagine della P.A.

Tradizionalmente, il diritto all’immagine dell’ente pubblico viene inteso come diritto, giuridicamente tutelato in forza dei principi di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 97 della Costituzione, riferito expressis verbis ai pubblici dipendenti, al conseguimento, al mantenimento ed al riconoscimento della identità di persona giuridica pubblica, alla tutela della “estimazione sociale”, “reputazione”, “prestigio” dell’ente pubblico.

La giurisprudenza e la dottrina maggioritarie collocano tale categoria di danno nell’ambito del danno esistenziale, inteso come lesione di interessi costituzionalmente garantiti (diritto all’integrità morale, immagine, onore, riservatezza, etc.), che si manifesterebbe come lesione della sfera di attività nella quale si esplica la personalità del soggetto leso; tale tipologia di danno ha tutela analoga a quella del danno biologico e, pertanto, sarebbe risarcibile ex art. 2043 cod. civ., a prescindere dai requisiti di cui all’art.2059 c.c. . Il danno all’immagine, in particolare, scaturisce da condotte (atipiche) non individuabili a priori anche se è possibile riconoscere alcune figure sintomatiche del pregiudizio perché tipizzate in via pretorile (es. percezione di tangenti).

Decisiva, in tal senso, si è rivelata la pronuncia della Corte dei Conti, a sezioni riunite, del 23.04.03, la quale ha statuito che il danno all’immagine di un ente pubblico è da ritenersi non già solo un danno risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c., bensì un danno patrimoniale in senso ampio, rientrante nella più generale figura del danno esistenziale.

2. La tutela dello Stato-Comunità

Indubbiamente, anche alla luce delle disposizioni costituzionali (non solo l’art. 97 Cost. che impone l’imparzialità, la legalità ed il buon andamento degli uffici pubblici, ma anche l’art. 54 Cost. che impone peculiari obblighi di disciplina ed onore ai soggetti che esercitano pubbliche funzioni), appare evidente che l’immagine della Pubblica amministrazione si connota per il rispetto della legalità e del buon andamento dell’attività svolta, per cui le lesioni di tali principi ben possono determinare perdita di immagine.

Nondimeno, occorre osservare che titolare di siffatto interesse non è propriamente l’ente collettivo, bensì lo Stato-comunità nel suo complesso (gli amministrati), ed è a favore di esso, e non dello Stato-persona (che semmai è il soggetto passivo dei doveri di legalità, imparzialità e buon andamento), che l’art. 97 Cost. impone una riserva di legge e specifici doveri all’amministrazione ed ai suoi rappresentanti.

Se tale prospettiva viene ritenuta valida, le voci di danno risarcibile possono allora estendersi sino a ricomprendere anche il nocumento che, pur non ricollegabile immediatamente e direttamente alla P.A. come ente pubblico sia, di fatto, pregiudizievole agli interessi collettivi fondamentali, riconosciuti meritevoli di tutela giuridica. Peraltro, già una innovativa giurisprudenza ha ricostruito il danno erariale come danno alla collettività, ponendo le basi per allargare le voci di pregiudizio risarcibile fino a ricomprendervi i danni all’ambiente, al paesaggio, alla salute; si è già riconosciuta, in tal modo, la possibilità di attribuire una vera e propria posizione di diritto soggettivo ai portatori di interessi collettivi che rivestano posizioni soggettive giuridicamente rilevanti, ampliando le maglie del risarcimento alle ipotesi di lesione agli interessi della collettività.

3. La Pronuncia della Corte dei Conti

Venendo alla sentenza della sezione giurisdizionale per la Toscana della Corte dei Conti, vengono in rilievo le note problematiche interpretative sull’art. 17, comma 30 ter, del decreto-legge 1º luglio 2009, n. 78, convertito nella legge 3 agosto 2009, n. 102, sia nella ipotesi in cui nei confronti di uno dei pubblici funzionari non sia ancora intervenuta sentenza penale irrevocabile di condanna e sia con riferimento alla fattispecie di reato non compresa tra i reati contro la pubblica amministrazione.

La Corte premette che, nelle more della decisione, sulle problematiche relative al predetto art. 17, comma 30 ter è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010, con approdi interpretativi che non hanno affatto chiuso definitivamente la questione, essendo ancora presenti, nello scenario giurisprudenziale, almeno tre opzioni interpretative:

a) per una prima opzione, l’art. 17, comma 30 ter, andava interpretato nel senso che, per effetto di esso, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione per fatto dei suoi dipendenti continua a sussistere nei soli casi direttamente previsti dall’art 7 della legge n. 97 del 2001 e, cioè, nei soli casi il cui il danno all’immagine derivi da reati contro la pubblica amministrazione, dovendosi ritenere preclusa ogni ulteriore tutela per il danno all’immagine derivante da reati diversi da quelli commessi contro la pubblica amministrazione e, a maggior ragione, per il danno all’immagine derivante da fatto illecito non costituente reato;

b) per una seconda opzione, l’art. 17, comma 30 ter, andava interpretato nel senso che, per effetto di esso, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione per fatto dei suoi dipendenti continua a sussistere non solo nei casi direttamente previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001, ma anche nel casi che lo stesso art. 7 della legge n. 97 indirettamente prevede allorquando fa salvo il disposto dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.: continua a sussistere, quindi, sia nel caso di danno all’immagine derivante da reati contro la pubblica amministrazione che nel caso di danno all’immagine derivante da ogni altro reato, dovendosi ritenere esclusa ogni ulteriore tutela soltanto nel caso di danno all’immagine derivante da fatto illecito non costituente reato;

c) per una terza opzione, infine, l’art. 17, comma 30 ter, andava interpretato nel senso che, per effetto di esso, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione per fatto dei suoi dipendenti continua a sussistere, come per la seconda opzione, nel caso di danno all’immagine derivante da qualsiasi tipo di reato (con la sola esclusione, quindi, del danno all’immagine derivante da fatto illecito non costituente reato), ma spetta alla giurisdizione del giudice contabile solo per il danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione, mentre spetta alla giurisdizione del giudice ordinario per il danno all’immagine derivante da reato diverso.

Con la citata sentenza n. 355 del 2010, la Corte Costituzionale ha provveduto a scegliere direttamente una delle interpretazioni possibili e ne ha ritenuto la conformità alla Costituzione.

L’interpretazione prescelta dalla Corte Costituzionale corrisponde alla prima delle opzioni interpretative sopra richiamate, e la sua conformità a Costituzione viene affermata dal giudice delle leggi nel rilievo che la limitazione della tutela del danno all’immagine al solo caso in cui il danno sia arrecato da un reato contro la pubblica amministrazione.

Peraltro, la sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010 è una sentenza di rigetto e, come tale, non ha, a differenza di quelle dichiarative di illegittimità costituzionale, efficacia erga omnes e, pertanto, determinano un vincolo (nemmeno assoluto) solo per il giudice del procedimento nel quale la relativa questione è stata sollevata.

Invece, negli altri procedimenti, il giudice conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia la norma denunciata, sempre che il risultato ermeneutico risulti adeguato ai principi espressi nella Costituzione, poiché l’interpretazione fatta propria dalla Corte Costituzionale riveste, per il giudice diverso da quello a quo solo il valore di un precedente autorevole.

Il Collegio si ritiene, pertanto legittimato a ricercare ed eventualmente a scegliere un’interpretazione dell’art. 17, comma 30 ter, diversa da quella fatta propria dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 355 del 2010, eventualmente traendola dalle opzioni interpretative che la Corte Costituzionale o non ha considerato o ha disatteso, tra cui, segnatamente, quella accolta nell’ordinanza della Sezione Lazio n. 462 del 2009 e nelle sentenze della Sezione Lombardia nn. 640 e 641 del 2009 e nn. 16, 50, 130, 131, 132, 318 e 813 del 2010,per la quale, in adesione alla seconda delle opzioni interpretative sopra richiamate, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione continua a sussistere anche se il danno deriva non da un reato contro la pubblica amministrazione ma da un reato comune.

In questo suo sforzo interpretativo, il Collegio prende le mosse dalla constatazione che l’art. 17, comma 30 ter, non indica direttamente i casi in cui può essere esercitata l’azione contabile per danno all’immagine della pubblica amministrazione, ma rinvia ai casi (e ai modi) previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001.

Ne consegue che, per l’interpretazione dell’art. 17, comma 30 ter, diventa fondamentale individuare quali e soprattutto quanti sono i casi e i modi previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001.

Orbene, l’art.7 della legge n. 97 del 2001 si compone di due periodi:

a) nel primo, si stabilisce che l’azione contabile per danno erariale da reato contro la pubblica amministrazione deve essere esercitata entro 30 giorni dalla comunicazione della sentenza penale irrevocabile di condanna;

b) nel secondo, viene fatto salvo il disposto dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p., per il quale il pubblico ministero, quando esercita l’azione penale per un reato che ha cagionato un danno per l’erario, deve informare il procuratore generale (oggi il procuratore regionale) presso la Corte dei Conti, dando notizia della imputazione.

La lettera della norma, se è chiara quanto al contenuto dei due periodi separatamente letti, non consente invece un approdo interpretativo univoco quando si vogliono leggere i due periodi in reciproca coordinazione.

Appaiono, infatti possibili, al riguardo, almeno due approcci interpretativi, che conducono a soluzioni diametralmente opposte.

In un primo approccio interpretativo, i due periodi di cui si compone la norma potrebbero essere coordinati in modo da darne la seguente lettura: per l’esercizio dell’azione contabile per danno da reato contro la pubblica amministrazione, la nuova disciplina introdotta con il primo periodo non esclude ma si aggiunge alla disciplina dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p., fatta salva dal secondo periodo, di modo che all’esercizio dell’azione contabile per danno da reato contro la pubblica amministrazione si applica sia la disciplina dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 che la disciplina dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.

A favore di tale interpretazione depongono specifici precedenti giurisprudenziali sia anteriori (Sezione Veneto n. 104 del 2007; Sezione Prima Centrale n 4 del 2003 e n. 429 del 2008) che successivi (Sezione Lombardia n. 318 del 2010), all’entrata in vigore dell’art 17 comma 30 ter, precedenti in base quali “non è improcedibile l’azione di responsabilità esercitata dall’organo requirente anteriormente alla comunicazione di cui all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, atteso che detta previsione - avente per oggetto la notizia al competente Procuratore regionale della Corte dei conti delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate nei confronti dei dipendenti pubblici per reati contro la pubblica amministrazione - si aggiunge al preesistente meccanismo di cui all’art. 129, disp. att. c.p.p. e, quindi, deve ritenersi rafforzativa e non già limitativa delle prerogative della Procura regionale” (.Sezione Veneto n. 104 del 2007).

Se la tesi dovesse essere accolta, allora la conseguenza ovvia sarebbe che effettivamente, come si trova presupposto nella sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010, l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 prevede soltanto “il caso” dei reati contro la pubblica amministrazione, sia quanto introduce una nuova disciplina (primo periodo), sia quanto coordina la nuova disciplina introdotta con quella preesistente (secondo periodo). Ne risulterebbe, quindi, avallata l’interpretazione della Corte Costituzionale che attribuisce all’art. 17, comma 30 ter, l’effetto di limitare, con il richiamo all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione al solo e unico “caso” del danno derivante da reato contro la pubblica amministrazione.

Ma, accolta la predetta interpretazione, proprio perché questa fa leva sul presupposto che la clausola di salvaguardia posta dal secondo periodo dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 ha come fine quello di assicurare, all’azione contabile per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione, l’applicazione congiunta della nuova e della vecchia disciplina, diventerebbe, poi del tutto impossibile sostenere, contemporaneamente, che, per effetto del primo periodo dello stesso 7 della legge n. 97 del 2001, l’azione contabile per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione può essere esercitata solo in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna.

In un secondo approccio interpretativo, l’art. 7 della legge n. 97 del 2001, potrebbe invece essere letto nel diverso senso che la norma, mentre, col primo periodo, mira ad introdurre una nuova disciplina per i danni derivanti dai reati contro la pubblica amministrazione, si preoccupa, con il secondo periodo, di mantenere ferma, per gli altri reati, la disciplina di cui all’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.

La conseguenza sarebbe che, dovendosi, in questo secondo approccio interpretativo, considerare il richiamo all’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p. in sé e, quindi, non più in quanto funzionale all’individuazione della disciplina complessivamente applicabile ai reati contro la pubblica amministrazione, allora l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 verrebbe a riguardare, con i rispettivi “modi”, non più un solo “caso” ma due “casi” e, cioè, sia il “caso” dei reati contro la pubblica amministrazione che il “caso” dei reati comuni.”

E ne risulterebbe avallato, questa volta, l’orientamento delle Sezioni Lazio e Lombardia espresso nelle sentenze innanzi richiamate, per il quale, con il richiamo all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, l’art 17, comma 30 ter, come si è già detto, avrebbe conservato la tutela dei danni all’immagine della pubblica amministrazione anche nel caso di danni derivanti da reati comuni.

Va da sé, poi, che accolta la predetta interpretazione, proprio perché questa porta a concentrare la disciplina dell’azione contabile per danno da reato contro la pubblica nel solo primo periodo dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 senza che possa essere ritenuto ulteriormente applicabile l’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p., sarebbe giocoforza escludere che l’azione contabile per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione possa essere esercitata in presenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna.

La conclusione è, dunque, che l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 presenta, sul piano letterale, una pluralità di significati, che può essere ridotta ad unità solo ricorrendo all’interpretazione logico-sistematica e, in particolare, individuando la ratio legis obiettivamente considerata.

Orbene, sotto il profilo della ratio legis, il Collegio osserva che entrambe le interpretazioni dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 sopra delineate si prestano ad un’analoga critica preliminare:

a) la prima interpretazione, perché attribuisce al primo periodo dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 un effetto acceleratorio (il procuratore regionale deve esercitare l’azione di responsabilità amministrativa entro 30 giorni……) largamente incomprensibile.

Escluso, infatti, per le ragioni che si troverebbe in contrasto con il disegno legislativo di cui si dirà appresso, l’intento di un appesantimento della responsabilità amministrativa dei pubblici dipendenti, sembra, parimenti doversi escludere, che la norma abbia avuto l’intento di favorire l’Erario, poiché, altrimenti, non si capirebbe perché sia stata posta soltanto per i reati contro la pubblica amministrazione e non anche per gli altri reati.

b) la seconda interpretazione, perché attribuisce alla clausola di salvaguardia di cui al secondo periodo dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001 un significato in buona misura pleonastico, in quanto, anche in assenza della clausola in questione, sarebbe stato, in verità, difficile dubitare della sopravvivenza, per i reati comuni, dell’art. 129 (comma 3) disp. att. c.p.p.

Accantonate le critiche preliminari e proseguendo nell’indagine, va però, subito detto che, mentre la ratio della prima interpretazione continua a restare nella nebbia, la ratio della seconda interpretazione comincia ad assumere contorni precisi e soprattutto collocabili nel sistema, giacché inserisce, a pieno titolo, l’art 7 della legge n. 97 del 2001 nel disegno legislativo, di cui alla stessa sentenza della Corte Costituzionale n. 355 del 2010, volto a ridurre i casi di responsabilità amministrativa per evitare un rallentamento nell’efficacia e tempestività dell’azione dei pubblici poteri, in conseguenza dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali è demandato l’esercizio dell’attività amministrativa.

Vero è, infatti, che la Corte Costituzionale richiama il predetto disegno legislativo nel contesto di un ragionamento in cui sembra ritenere funzionale, al disegno medesimo, una riduzione della responsabilità per danno all’immagine derivante da reato comune più che una riduzione della responsabilità per danno all’immagine derivante da reato contro la pubblica amministrazione, ma a questo Collegio sembra, però, vero proprio l’opposto e, cioè, che sia proprio la riduzione della responsabilità amministrativa per danno derivante da reato contro la pubblica amministrazione ad essere maggiormente funzionale all’esigenza di evitare il rallentamento dell’attività amministrativa, essendo evidente, per fare un esempio, che non è la paura delle conseguenze di una violenza sessuale ma il timore di incorrere in un abuso di ufficio che più si presta a rendere meno efficace e tempestiva l’azione dei pubblici poteri.

Per il complesso della suesposte considerazione, il Collegio accede alla seconda delle opzioni interpretative esaminate e per l’effetto conclude nei sensi:

a) che l’art. 17, comma 30 ter, va interpretato nel senso che non esclude la tutela del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante da reato comune;

b) che l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 va interpretato nel senso che pone, quale condizione per l’esercizio dell’azione contabile per danno derivante da reato contro la pubblica amministrazione, la sussistenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna.

Per quanto riguarda, infine, le questioni relative all’an al quantum del danno, il Collegio richiama, quanto, sul piano generale, ha avuto modo di osservare in tema di danno all’immagine della pubblica amministrazione nella già citata sentenza n.481 del 2010.

Nella predetta pronuncia, la Sezione ha aderito alla giurisprudenza di cui alla sentenza della Sezione Terza Giurisdizionale Centrale d’Appello n. 143 del 2009, la quale, partendo dall’orientamento accolto dalle S.S.R.R. nella sentenza n. 10 QM del 2003, ha rivisitato la nozione di danno all’immagine perseguibile dinanzi la Corte dei Conti, configurandolo, come danno patrimoniale da “perdita di immagine”, di tipo contrattuale, avente natura di danno conseguenza (tale comunque da superare una “soglia minima di pregiudizio”) e la cui prova potrà essere fornita anche per presunzioni e mediante il ricorso a nozioni di comune esperienza.

Ma, nell’aderire a tale orientamento giurisprudenziale, la Sezione ha puntualizzato, però, che, al di là di ogni problematica relativa alla distinzione tra danno evento e danno conseguenza, il danno all’immagine, similmente al danno biologico, resta un danno essenzialmente presunto, nel senso che, come nel danno biologico (per il quale vedi Corte Cost., sentenza n. 372 del 1994), la prova della lesione è, in re ipsa, prova dell’esistenza del danno, anche se tale prova non è sufficiente ai fini del risarcimento, essendo necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno (cfr. Sezione Prima Centrale appello n. 303/2008).

Il Collegio, pertanto, privilegia il carattere della patrimonialità del danno, poiché, a prescindere dalla considerazione che tra patrimonialità e non patrimonialità il rapporto non è di tipo alternativo (nella lesione dell’immagine della pubblica amministrazione possono essere presenti contemporaneamente sia danni patrimoniali che danni non patrimoniali) è in un’ottica di patrimonialità che da tempo la Corte regolatrice ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti sul danno all’immagine della Pubblica amministrazione, quale danno conseguente alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica che, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di una valutazione patrimoniale sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso.