Mutamento giurisprudenziale in relazione alla rilevanza penale del fatto tipico
Abstract
Il presente lavoro vuole focalizzare l’attenzione su un particolare aspetto della funzione nomofilattica della Suprema Corte di Cassazione: i Giudici della Legittimità, oltre a rappresentare il terzo grado di giudizio nell’ordinamento giudiziario italiano, svolgono la delicatissima funzione di controllare la corretta applicazione del diritto. Ad ogni decisione, ad ogni principio di diritto espresso in sentenza, seguono delle conseguenze. Cosa accade, allora, quando la Corte, nel suo più alto consesso, afferma che determinate condotte non assumono più rilevanza penale? In che rapporti si pone con il passaggio in giudicato di condanne oramai cristallizzatesi?
This work aims to focus attention on a particular aspect of the nomophilactic function of the Supreme Court of Cassation: the Judges of Legitimacy, in addition to representing the third degree of judgment in the Italian judicial system, perform the delicate function of checking the correct application of the right. Consequences follow each decision, each principle of law expressed in a sentence. What happens, then, when the Court, in its highest body, affirms that certain conduct no longer assumes criminal relevance? What is the relationship with the passing of judgments of now crystallized conviction?
Indice:
1. Premessa
2. Il principio di intangibilità del giudicato penale
3. Giudicato e mutamento giurisprudenziale favorevole: efficacia retroattiva?
4. L’esperibilità di rimedi difensivi
Summary
1. Introduction
2. The principle of intangibility of the criminal offense
3. Judgment and favorable jurisprudential change: retroactive effect?
4. The feasibility of defensive remedies
1. Premessa
Il panorama giudiziario italiano è sempre stato permeato da forti critiche, accusato molto spesso di non fornire un’applicazione coerente del diritto, dell’essere contraddistinto da un eccesso di garantismo. I fautori del giustizialismo auspicano da sempre una riforma capillare del processo penale per renderlo più incline alle pretese punite; la corrente più garantista, invece, spera in un buon governo delle regole del processo ed una loro applicazione ragionevole e proporzionata.
In questo ambito caratterizzato da forte incertezza, dove non è insolito trovare una disposizione normativa che deroghi ad un’altra, dove non è raro trovare una disposizione speciale predominante su norma generale, dove ogni cambio di Governo ritiene doveroso apportare delle riforme e modificare la Giustizia penale, deve aggiungersi la giurisprudenza che – con i suoi orientamenti oscillanti[1] – incide sensibilmente nel creare un’incertezza non di poco conto che rende difficoltoso l’operato per gli chi abitualmente frequente le aule di Giustizia e contribuisce ad allontanare, e a rendere sempre più dubbiosa, la fiducia dei cittadini nell’apparato giudiziario.
Si è ben lontani dai tempi in cui l’Illuminismo giuridico considerava il giudice come il soggetto subordinato alle scelte della politica, privo, dunque, di autonomi poteri di valutazione incidenti sul penalmente rilevante, in quanto deputato a svolgere operazioni sillogistiche di mera sussunzione del singolo caso particolare nell’astratto e ‘generale’ della norma primaria[2].
Oggi viviamo in quella che è stata definita età della giurisdizione[3], caratterizzata da una applicazione oramai smisurata del diritto giurisprudenziale. Si è passati dall’essere semplici bouche de la loi a rivestire i panni del co-legislatore.
Proprio focalizzando l’attenzione sull’operato di matrice giurisprudenziale si può affermare, senza paura di smentita, che non di rado la Suprema Corte di Cassazione fornisca una sentenza di giurisprudenza creativa[4], in cui viene in auge una nuova regola cui il Legislatore non aveva dato luce.
Non è raro che i giudici di legittimità annullino senza rinvio la sentenza impugna, tuttavia l’eccezionalità la si ravvede quando l’annullamento senza rinvio derivi dalla circostanza che il fatto tipico non assume più rilevanza penale.
Si tratta di una situazione particolare poiché, solitamente, la non rilevanza del fatto tipico la si ha quando si assiste a determinati fenomeni, quali l’abolitio criminis, principio consacrato dall’articolo 2 c. 2 Codice Penale, che si verifica quando una determinata fattispecie incriminatrice perde il suo carattere di antigiuridicità ad opera del Legislatore, mediante un effetto abrogativo, ovvero per la declaratoria di incostituzionalità operata dalla Consulta.
Vien da chiedersi, allora, anche alla luce della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione che importanza possano avere tali orientamenti in relazione a giudizi già cristallizzati.
La loro incidenza è tale da scalfire una sentenza passata in giudicato?
2. Il principio di intangibilità del giudicato penale
Sarebbe difficile spiegare con poche parole ciò che il giudicano penale rappresenti per l’Ordinamento giuridico.
Esso costituisce la cristallizzazione del provvedimento decisorio che, spirati inutilmente i termini perentori di impugnazione o, escusse tutte le azioni de quibus, non può essere più scalfito. Allo stesso tempo, però, è anche la più concreta manifestazione del superamento del principio dell’innocenza fino a prova contraria.
Per lungo tempo, e gli studiosi del processo penale ne converranno, l’intangibilità del giudicato ha rappresentato un punto fermo nell’ordinamento italiano, in quanto posto a presidio di fondamentali ragioni di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici[5].
La concezione tradizionalistica, che ha dominato incontrastata per decenni nella giurisprudenza e nella cultura giuridica penalistica sulla base di un affermato principio di egemonia che vedeva il potere statuale prevalere sui diritti della persona, ha cominciato ad essere sensibilmente ridimensionata sia dalla proclamazione dei diritti fondamentali della persona, sia dall’affermazione della Costituzione Repubblicana e, soprattutto, dal passaggio al nuovo codice di procedura penale. Tali accadimenti hanno contribuito a sgretolare sempre più la concezione dell’intangibilità del giudicato penale[6].
Ma, così come avviene nel diritto costituzione con la teoria dei controlimiti, anche in sede processual-penalistica si assiste ad un fenomeno che presenta qualche similitudine con teoria costituzionale: il giudicato è tangibile, è vero, e può essere scalfito – come nel caso della revisione – ma a tutto vi è, per l’appunto, un limite.
Un limite posto a presidio di uno dei diritti più importanti per ogni individuo. L’erosione del mito dell’intangibilità del giudicano si arresta dinanzi ad un principio fondamentale e rappresentativo di ogni nazione che voglia dirsi civile: il ne bis in idem[7]. È l’unico principio che non ammette regole, tant’è vero che la sentenza di non doversi procedere può essere emessa anche se la precedenza condanna non ha acquisito definitività.
Ebbene, il giudicato dovrebbe essere una statuizione intangibile, la cui controvertibilità è ammessa solo in casi limite, come nel giudizio di revisione e della revisione europea, per come si è già accennato. Questi sono tra i casi più noti in cui l’ordinamento giuridico ammette di rimettere in discussione il giudicato.
Eppure, non sono i soli rimedi previsti.
Il procedimento di esecuzione, disciplinato dagli artt. 666 e ss. Codice Procedura Penale prevede talune ipotesi al verificarsi delle quali il giudicato può essere scalfito. Si tratta di situazioni, però, diverse poiché le ipotesi tassativamente previste attengono perlopiù alla rimodulazione della pena, ad esempio mediante il riconoscimento del concorso formale e del reato continuato ex articolo 81 Codice Penale in executivis prevista dall’articolo 671 Codice Procedura Penale o, ancora, nelle ipotesi di amnistia ed indulto ex articolo 672 Codice Procedura Penale
L’ipotesi più interessante, per ciò che in questa sede interessa, è quella contemplata dall’articolo 673 Codice Procedura Penale rubricata “revoca della sentenza per abolizione del reato” e non a caso è stata oggetto di interessamento da parte della Cassazione a Sezioni Unite e dalla Consulta, per i risvolti pratici della sua disciplina.
3. Giudicato e mutamento giurisprudenziale favorevole: efficacia retroattiva?
La questione potrebbe esser considerata una provocazione ma, come si vedrà e per come si è accennato, è stata oggetto di un’attenta analisi della giurisprudenza per i suoi importanti risvolti nell’applicazione pratica.
Il provvedimento di condanna, oltre a rappresentare l’ultimo atto del processo – tanto che sia stato reso nella fase dibattimentale, quanto a seguito della scelta di un rito alternativo – apre le porte ad una fase delicatissima, in cui il PM è tenuto ad esercitare le sue funzioni per dar concretezza a quanto statuito nel provvedimento di condanna[8].
La fase dell’esecuzione presuppone inevitabilmente l’esistenza del titolo esecutivo di cui, però, non vi è una espressa definizione concettuale nel codice di rito.
Una volta emanato l’ordine di esecuzione della pena, la condanna è divenuta definitiva, la responsabilità penale si è cristallizzata e l’imputato è divenuto a tutti gli effetti un condannato che deve espiare la pena.
Da quel momento in poi, il mandato difensivo sarà di matrice prettamente penitenziaria ovvero esecutiva e le Autorità Giudiziarie con la quali bisognerà interfacciarsi saranno il Magistrato e il Tribunale di Sorveglianza.
Medio tempore non è infrequente che la Corte di Cassazione, però, sia chiamata a pronunciarsi su determinate questioni di diritto sostanziale e processuale la risoluzione delle quali porta a svuotare di antigiuridicità la fattispecie incriminante e, in sostanza, a non considerare più rilevante penalmente determinate condotte. Tali ipotesi, lungi dall’essere delle mere elucubrazioni, hanno avuto concreata realizzazione.
Accadimenti di tal fatta costituiscono, probabilmente, tra le peggiori manifestazioni della lesione del diritto di eguaglianza in quanto a seguito della medesima condotta e della medesima violazione si giunge a risultati diametralmente opposti in virtù dei quali un soggetto viene condanno e un altro assolto, perché oramai quella condotta materiale non integra più gli estremi del reato e non è più considerata un elemento costitutivo della fattispecie penale.
Tale fenomeno tra gli studiosi è noto sotto il nome del c.d. overruling, vale a dire l’abbandono dell’indirizzo precedentemente accolto da parte di una corte abilitata a enunciare dei principi di diritto in grado di vincolare gli altri giudici[9].
Esso è tipico degli Ordinamenti di Common law ove vige il principio del precedente giudiziario vincolante, ma è innegabile come le decisioni della Cassazione nel nostro ordinamento, storicamente e tradizionalmente di civil law, abbiano un’importanza tale da aver indotto alcuni studiosi[10] ad affermare che la struttura del nostro ordinamento abbia assunto le caratteristiche di un ordinamento misto, in cui vi è in una commistione tanto della giurisprudenza tanto del diritto positivo.
Proprio in virtù dell’incidenza che l’overruling ha sulla concreta applicazione del diritto penale, giudici, avvocati e studiosi si sono interrogati sulla possibile riconduzione di un mutamento giurisprudenziale nell’ambito dell’articolo 2, c. 2, Codice Penale
Ad un occhio attento, una sentenza della Suprema Corte di Cassazione – soprattutto a Sezioni Unite – che affermi la non ricaduta nel penalmente rilevante di determinate condotte sembrerebbe essere nient’altro che una forma di abolitio criminis… seppur sotto una veste del tutto inedita.
Come noto, infatti, solo una novella legislativa di tipo abrogativo da parte del Legislatore ovvero una sentenza di manifesta incostituzionalità da parte dei Giudici della Consulta possono dare concreta attuazione all’enunciato dell’articolo 2, c.2, Codice Penale, in virtù del quale “nessuno può essere punito per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce reato”.
Tuttavia, in virtù del recepimento di trattati internazionali, del diritto dell’Unione Europea e, soprattutto, dell’articolo 7, par. 1 CEDU[11] ci si è iniziati a chiedere se, in particolare, l’abolitio possa essere estesa anche alle ipotesi in cui a sopravvenire non sia una nuova disposizione normativa favor rei, ma – a fronte di un quadro normativo immutato – una interpretazione più favorevole consacrata da una sentenza delle Sezioni Unite e, dunque, se di tale principio possa farne concreta applicazione il Giudice dell’esecuzione.
Sulla base di tali premesse il 27 giugno 2001, con apposita ordinanza, il Tribunale di Torino sollevò la questione di illegittimità costituzionale dell’articolo 673 Codice Procedura Penale nella parte in cui esso non prevede, per l’appunto, il mutamento giurisprudenziale favorevole.
Se la decisione alla quale la Corte costituzionale è pervenuta sembra abbastanza ovvia, le premesse sulle quali si fonda non risultano del tutto soddisfatte.
Con sentenza del 12 ottobre 2012 n. 230[12], la Consulta ha dato apposita risposta al quesito: questione manifestamente infondata. Il Giudice delle Leggi, nell’analizzare la disciplina applicabile ha necessariamente fatto riferimento anche alla normativa internazionale per la norma interposta dell’articolo 117 Costituzione.
Il principio della riserva di legge è una pietra miliare di tutti gli ordinamenti e non poteva mancare la sua espressa menzione anche nella CEDU, all’articolo 7, par. 1. Tuttavia, secondo l’interpretazione che ne ha dato la Consulta, la Convenzione nell’utilizzare il termine law inteso come “diritto” farebbe riferimento non soltanto alle leggi e alle disposizioni legislative ma anche alla formazione del diritto giurisprudenziale. Dunque, se queste sarebbero le premesse, traslando il ragionamento nell’ordinamento giuridico italiano, le sentenze della Suprema Corte di Cassazione sarebbero suscettibili di una valutazione in termini di “fonte del diritto” e dunque rientrerebbero nell’ambito dell’articolo 2, c.2, Codice Penale
Ciononostante, nel dichiarare infondata la questione la Corte ha posto l’accento sui caratteri che l’istituto de “l’abolizione del reato” deve necessariamente possedere. È stato affermato come, sebbene tra le ipotesi contemplate dall’articolo 2, c. 2, Codice Penale la giurisprudenza di legittimità vi abbia ricompreso anche le sentenza della CEDU che dichiarano la violazione delle leggi interne che si pongano in contrasto con il diritto dell’Unione Europea, questa estensione non è consentita, invece, per le sentenze della Suprema Corte di Cassazione, poiché un orientamento giurisprudenziale, per quanto autorevole, non ha la stessa efficacia delle ipotesi previste dalla norma censurata, stante il difetto di vincolatività della decisione rispetto a quelle dei giudici chiamati ad occuparsi di fattispecie analoghe: circostanza che impedisce di considerare i fenomeni dianzi indicati alla stregua di uno ius novum[13].
Dunque, la tendenziale stabilità e vincolatività tipiche delle fonti normative sono requisiti assenti negli orientamenti giurisprudenziali, seppur granitici, in quanto l’interpretazione normativa –attività principale dell’organo giudicante – è quella maggiormente soggetta ai cambiamenti e all’evoluzione sociale. E questo perché una diversa interpretazione della disposizione normativa non è una modifica legislativa. Tra le due vi è una sottile, quanto importante, differenza. In termini di conseguenze giuridiche la differenza tra interpretazione e modifica del diritto sta nel fatto che la prima agisce con effetti ex tunc, cioè risalenti fino al momento della creazione dello strumento giuridico interpretato, mentre la seconda ha validità ex nunc, ovvero limitata al periodo successivo all’atto modificativo[14].
È doveroso sottolineare come, recentemente, la giurisprudenza di legittimità sia tornata sul punto[15].
Infatti, a seguito dell’arresto giurisprudenziale avuto con le Sezioni Unite “Paternò” si è dettato il principio di diritto in virtù della quali «l'inosservanza delle prescrizioni generiche di 'vivere onestamente' e 'rispettare le leggi' da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno non integra la norma incriminatrice di cui all'articolo 75 comma 2 del d.lgs. n.159 del 2011». Sulla scorta di tali argomentazioni è stato sollevato incidente di esecuzione ex articolo 673 Codice Procedura Penale facendo leva proprio sulla mancanza di rilevanza penale del fatto tipico e sulla impossibilità di addivenire ad una sentenza di assoluzione nel processo di cognizione, in quanto tale pronuncia di legittimità venne pronunciata solo in un momento successivo al passaggio in giudicato della sentenza a carico del condannato.
A seguito del rigetto del giudice dell’esecuzione, la questione è stata sottoposta al vaglio degli Ermellini i quali, pur accogliendo il ricorso poiché medio tempore la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 75, c.2 d. lgs. 159/11, hanno focalizzato l’attenzione sul punto centrale della questione, per l’appunto l’overruling e abolitio criminis[16].
È stato ribadito, mediante un richiamo ad un precedente orientamento[17] come – nonostante il mutamento giurisprudenziale possa avere una portata parzialmente abrogativa – a venire in rilievo è il dato interpretativo delle disposizioni che costituiscono o integrano il precetto, fenomeno non equiparabile ad una abolitio in senso proprio. Questo, perché, a norma dell’articolo 15 Preleggi le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore (abrogazione espressa), o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore (abrogazione implicita).
Altresì, un aspetto fondamentale che ha indotto alla non equiparazione fra i due istituti attiene alla circostanza per la quale decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni Unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è di fatto accaduto[18].
Dunque, a seguito di svariate sentenze della Corte di Cassazione e della pronuncia della Corte Costituzionale del 2012 non è instaurando il procedimento di esecuzione ex artt. 666 e ss. Codice Procedura Penale che possa applicarsi reatroattivamente il mutamento giurisprudenziali favorevole.
Tuttavia, è indubbio come ci si trovi dinanzi ad una evidente violazione del principio di eguaglianza e uno Stato di diritto non può consentire che situazioni sostanzialmente identiche debbano essere valutate in senso opposto. Soprattutto in considerazione della forte incidenza afflittiva del processo penale nella sfera soggettiva dell’individuo.
Orbene, quali strumenti adoperare per ottenere giustizia e livellare il giudicato penale ai mutamenti giurisprudenziali del fatto tipico?
4 L’esperibilità di rimedi difensivi
La soluzione migliore sarebbe anche la più ovvia.
Un intervento del Legislatore sarebbe la risposta più consona al quesito che ci si è posti. Ma riporre le speranze in una legge a contenuto abrogativo è pressoché impossibile. E non perché interventi di questo tipo non si verifichino, si badi, ma perché il Parlamento dovrebbe intervenire ogni qualvolta le Sezioni Unite svuotino di antigiuridicità condotte (a suo tempo) penalmente rilevanti.
Oltretutto, non bisogna dimenticare che ci si dovrebbe trovare, però, dinanzi ad un Legislatore attento e preparato, consapevole della necessità che apportare determinati correttivi a talune condotte – illo tempore portatrici di un disvalore tale da richiedere un intervento punitivo dello Stato – si renda necessario poiché ormai anacronistiche e non vedere in situazioni di tal fatta il pretesto per cavalcare l’onda propagandistica, a torto o ragione, e consolidare il proprio consento popolare.
Di conseguenza, ad oggi il codice di procedura penale non prevede rimedi ad hoc per scalfire un giudicato formatosi in relazione ad un reato che ex post non è più considerato reato.
L’unica possibilità per tentare di dare attuazione al dettato dell’articolo 3, co. 2, Costituzione sarebbe sollevare incidente di esecuzione ai sensi degli artt. 666 e 673 Codice Procedura Penale chiedendo al giudice dell’esecuzione, quale giudice a quo, di sollevare questione di illegittimità costituzionale della fattispecie di reato per la quale si è cristallizzata la condanna e, dunque, rimettere gli atti alla Corte Costituzionale. Ovviamente, nelle more, il procedimento di esecuzione rimarrebbe sospeso per la necessità di risolvere la questione pregiudiziale. Solo dopo la sentenza della Consulta, ove positiva, si avrebbe pieno titolo per l’applicazione dell’articolo 2, c. 2, Codice Penale
Il Giudice dell’esecuzione è l’unico al quale rivolgersi per scalfire il giudicato penale e di conseguenza l’unico per rimettere gli atti ai Giudici delle Leggi.
Con questo non vuole dirsi che l’intero procedimento perda efficacia se il giudice rimettente sia un altro giudicante con altra competenza territoriale.
Può accadere, e infatti accade non di rado, che i giudici di cognizione sollevino la manifesta illegittimità costituzionale di una disposizione anche a seguito di un orientamento della Suprema Corte di Cassazione.
Anche in casi di questo tipo, comunque, bisognerà attendere la pronuncia della Consulta e successivamente adire ex articolo 673 Codice Procedura Penale il Giudice dell’esecuzione.
Si tratta indubbiamente di un sistema farraginoso e lungo ma allo stato attuale l’unico che potrebbe dare i suoi frutti.
La Giustizia, nella sua accezione più pura, non dovrebbe consentire storture di sistema di tal fatta.
Ma il mondo del penale è la risultante di un quadro denso e complesso nel quale le garanzie fondamentali spesso vengono tenute distinte a seconda della loro natura sostanziale o processuale.
I princìpi della certezza del diritto e dell’equo processo imporrebbero la predisposizione di misure idonee ad evitare, nei limiti del possibile, il protrarsi di conflitti giurisprudenziali. Ove ciò accada si richiede una motivazione specifica in virtù della quale si è ritenuto non più adeguato il precedente indirizzo.
Invero, tali “accorgimenti” sono già presenti nel processo penale a seguito dell’introduzione dell’articolo 618 comma 1-bis Codice Procedura Penale a norma del quale «se una sezione della corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso».
Ciononostante, il rimedio dell’overruling in bonam partem del rilievo giuridico idoneo a rimuovere le preclusioni in fase esecutiva è stato bocciato – per i motivi che si sono analizzati – dalla Consulta dunque, per quanto autorevole e significativo sia, non può essere esperito dal condannato.
Sarebbe auspicabile, allora, un intervento del Legislatore per colmare tale stortura sistemica che ammette simili diseguaglianze e individuare, nelle decisioni degli organi giudiziari, il mezzo attraverso il quale colmare e attuare l’eguaglianza sostanziale in executivis.
[1]Un esempio che vale per tutte: la recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, 23 ottobre 2020 (ud. 16 luglio 2020), n. 29451 sulla distinzione tra il reato di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La Corte, prima di enunciare il principio di diritto ha fatto menzione dei contrasti in diritto i in seno alle singole sezioni, che nel caso di specie constavano in ben sei orientamenti contrastanti.
[2]AMARELLI, G., Il giudice ed il rispetto della legge penale in sede interpretativa. Obsolescenza apparente e attualità permanente del pensiero di Beccaria, in Oss. Costituzione, giugno 2015, 2 .
[3]FIANDACA, G, Crisi della riserva di legge, 2012,. 92.
[4]A titolo esemplificativo: recentemente la Cassazione nella sua più autorevole composizione con sentenza n.12348 del 2020 ha statuito come, in tema di stupefacenti l’articolo 73, comma 1, DPR 309/90 che espressamente punisce – fra le altre condotte – la coltivazione della Cannabis non costituisce reato ove tale attività sia destinata ad uno squisitamente personale; si è stabilito, dunque, che «devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore».
[5]GAROFOLI, R., Manuale di diritto penale. Parte generale, XII ed., , Molfetta, 2020, 233.
[6]La ricostruzione degli accadimenti più significati che hanno inciso sull’erosione del giudicato sono stati analizzati dalla Corte di Cassazione, nella sua più autorevole composizione, con sentenza del 29 maggio 2014, n. 42858.
[7]Esso è previsto dall’articolo 649 Codice Procedura Penale a norma del quale solo le sentenze e i decreti penali divenuti ormai irrevocabili impediscono che per il medesimo fatto la stessa persona possa essere sottoposta a nuovo giudizio. Tuttavia, è doveroso segnale come nel corso del tempo si sia assistiti ad un’applicazione estensiva del principio del ne bis in idem facendone concreta applicazione anche in relazione ad altri provvedimenti non contemplati dall’articolo 649 Codice Procedura Penale Ad esempio, il potere inibitorio viene riconosciuto anche al decreto di archiviazione e alla sentenza di non luogo a procedere se manchino i presupposti per chiederne la revoca.
[8]La scelta del Legislatore nell’individuare la figura del PM quale soggetto idoneo a dare inizio alla fase esecutiva è stato oggetto di ampio dibattito dottrinale. Sul punto si v. DIDDI, A, L’esecuzione e il diritto penitenziario, II ed., 2017.
[9]Sul punto, si v. CONDORELLI, M. – PRESSACCO, T., Overruling e prevedibilità della decisione, in Ques. Giust., 2018, https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/overrulingeprevedibilitadelladecisione_584.php#:~:text=Introduzione,gli%20altri%20giudici%5B1%5D.
[10] Tra i primi a studiare l’avvicinamento de civil e del common law si v. MACCORMICK, D.N. - SUMMERS R.S., Interpreting Precedents: A Comparative Study, 1991, in cui gli autori analizzano l’avvicinamento tra i due ordinamenti giuridici; si v. anche CROCE, M., Precedente giudiziale e giurisprudenza costituzionale, in Contr. e Impr., 2006 in cui l’autore analizza l’importanza del precedente giurisprudenziale nel nostro ordinamento giuridico.
[11]Esso rubricato “Nulla poena sine lege” recita testualmente: «Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso».
Esiste una copiosa letteratura in relazione all’articolo de quo. Tuttavia, la dottrina è tendenzialmente concorde nel ravvede nella disposizione l’effetto di rafforzare ed innovare la portata garantistica dei principi di legalità ed irretroattività sfavorevole contemplati nel diritto penale interno, valorizzando gli aspetti qualitativi della legalità, concernenti anche i caratteri dell’accessibilità e della prevedibilità. Sull’argomento si consiglia RINALDI, F.V., Il princìpio di legalità e l’articolo 7 CEDU, in Filodiritto, 2013, https://www.filodiritto.com/il-principio-di-legalita-e-larticolo-7-della-cedu .
[12]È doveroso specificare come il giudizio di presunta incostituzionalità ha trovato la sua genesi nella questione di legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della sentenza di condanna (o di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena su concorde richiesta delle parti) in caso di mutamento giurisprudenziale – intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato», deducendo la violazione degli articoli 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, nonché dell’articolo 117, primo comma, Costituzione, in relazione agli artt. 5, 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: «CEDU»).Il rimettente è chiamato a provvedere, quale giudice dell’esecuzione, sull’istanza del pubblico ministero di revoca parziale, ai sensi dell’articolo 673 cod. proc. pen., della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, emessa il 9 luglio 2010 dal Tribunale di Torino nei confronti di una persona nata in Mali e divenuta irrevocabile il 9 marzo 2011, a seguito della dichiarazione di inammissibilità del ricorso per cassazione proposto contro di essa dall’imputato. L’istanza di revoca è limitata al solo capo di imputazione concernente la contravvenzione di omessa esibizione dei documenti di identificazione e di soggiorno, prevista dall’articolo 6, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).
[13]V. sent. Corte Costituzione, 12 ottobre 2012 n. 230, punto 7.
[14]TURRINI, P., L’interpretazione evolutiva nella giurisprudenza internazionale, Firenze, 2012, 10 ss.
[15] Il riferimento è a Cass., sez. I pen., sent. 05.03.2019 n. 19349, ric. Forastefano.
[16]Si v. Corte Cass., sez. I penale., sent. 05.03.2019 n. 19349.
[17]La Corte fa espressa menzione della sentenza della III sezione penale del 2018 n. 20738, nella cui occasione ha affrontato il tema dell’abolizione del reato, seppur sotto una forma parzialmente diversa. In quel caso, infatti, a seguito della condanna definitiva intervenne una modifica legislativa in tema di evasione d’imposta, facendo ricadere nel penalmente irrilevante, dunque, gli importi compresi tra i €50.000 e €250.000. Opportunatamente venne sollevato il procedimento di esecuzione ex articolo 673 Codice Procedura Penale in relazione alla modifica legislativa e alla sua sussunzione nell’articolo 2, c. 2, Codice Penale Venne in rilievo come «in tema di successione delle leggi penali tanto la dottrina quanto la giurisprudenza risultano concordi in tema di abolitio criminis parziale. Secondo la dottrina prevalente ricorre un'ipotesi di "abolitio criminis" parziale tutte le volte in cui tra due fattispecie incriminatrici vi sia un rapporto strutturale di specialità tale per cui la norma sopravvenuta esclude la rilevanza penale delle sotto-fattispecie in essa non più ricomprese. Secondo la sentenza delle Sezioni Unite, n. 24468 del 26/02/2009, Rizzoli, Rv. 243585, l'abolitio criminis, quale effetto del fenomeno di diritto intertemporale, consegue alla corrispondente modifica normativa della fattispecie legale astratta. È attraverso la fattispecie legale astratta che il legislatore individua i fatti ritenuti meritevoli del presidio penale o, specularmente, rinuncia a punire determinati fatti, non più considerati, in base a scelte politico-criminali, in linea col "giudizio di disvalore astratto espresso dalla legge precedente. Se l'intervento legislativo posteriore altera la fisionomia della fattispecie, nel senso che sopprime un elemento strutturale della stessa e, quindi, la figura di reato in essa descritta, ci si trova - di norma - di fronte ad una ipotesi di abolitio criminis, il fatto cioè, già penalmente rilevante, diventa penalmente irrilevante per effetto dell'abrogazione di quell'elemento, quale conseguenza del mutato giudizio di disvalore insito nella scelta di politica criminale; in questo caso, non può non trovare applicazione la disciplina prevista dal secondo comma dell'articolo 2 Codice Penale", infatti "la ratio della retroattività della legge abolitrice del reato va individuata nell'esigenza di giustizia e di ragionevolezza, non potendosi tollerare di continuare a punire chi in passato ha commesso un fatto che l'ordinamento non ritiene più meritevole o bisognoso di pena».
[18]Cass., SS.UU., 23.06.2016 n. 26259.