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I reati culturalmente orientati

Do the cultural defense like as a new form of excuse?
Perù
Ph. Simona Balestra / Perù

Abstract

Il reato culturalmente motivato, seppur di non recente introduzione nel panorama penale internazionale, negli ultimi anni ha iniziato ad assumere una sua autonoma rilevanza e ad imporsi all’attenzione tanto della giurisprudenza quanto degli studiosi. È un istituto che, se a prima vista può essere di facile intuizione, non è esente da alcuni problemi di fondo che ne rendono difficoltosa l’applicazione e un eventuale riconoscimento. Qual è il peso della cultura dell’imputato nel diritto penale? Quanta influenza ha sull’elemento psicologico? E ancora, la cultural defense può godere di una autonoma rilevanza dell’ordinamento penale italiano?

The culturally motivated crime, albeit not recently introduced in the international criminal scene, in recent years has begun to assume its own autonomous relevance and to attract the attention of both jurisprudence and scholars. It is an institution that, if at first glance it may be easy to understand, is not exempt from some basic problems that make its application and eventual recognition difficult. What is the weight of the accused's culture in criminal law? How much influence does it have on the psychological element? And again, can the cultural defense enjoy an autonomous relevance of the Italian criminal law?

 

Indice:

1. Diritto penale e cultura

2. La genesi dei reati culturalmente orientati: il multiculturalismo di matrice americana

3. Cultural defense e tradizione giuridica di civil law: il dibattito tutto italiano

4. Tertium datur: l’esigenza di bilanciamento tra il diritto alle proprie tradizioni culturali e l’offensività materiale della condotta dell’agente

 

1. Diritto penale e cultura

La presenza, nelle nostre società, di gruppi culturali minoritari, che si insediano a seguito dei flussi migratori, mette in moto conflitti identitari che investono l’organizzazione giuridico-politica. Tali conflitti pongono in primo piano, tra l’altro, la questione del pluralismo normativo.

Si tratta di una prospettiva centrata sulla coesistenza, sovrapposizione, penetrazione, mescolanza di differenti spazi di regolazione, relativi al medesimo settore dell’esperienza umana[1].

Di fronte a sistemi normativi diversi che avanzano, ognuno con pretese di validità ed effettività e tra i quali intercorrono rapporti complessi, il singolo opera delle scelte. Queste, talvolta, sono basate su regole confliggenti con gli ordinamenti dei Paesi c.d. “d’accoglienza”.

Il quadro della complessità sociale crescente pone degli interrogativi e ne scioglie alcuni: etici, morali, giuridici.

Già da queste brevi premesse, dunque, è possibile tracciare le linee concettuali che guideranno il presente l’elaborato: il reato culturalmente orientato e cultura.

In dottrina[2] si è soliti individuare sotto l’etichetta del reato culturalmente orientato un comportamento realizzato da un membro appartenente ad una cultura di minoranza, considerato reato dall’ordinamento giuridico della cultura dominante. Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo culturale dell’agente è condonato, o accettato come comportamento normale, approvato o addirittura è sostenuto e incoraggiato in determinate situazioni.

Più complessa è, invece, la definizione di cultura poiché è un’astrazione concettuale che si adatta a molteplici campi di analisi: antropologico, sociale, pedagogico.

Nel rispondere all’interrogativo viene naturale fare proprie le parole di Will Kymlicka, il quale ne ha dato una definizione precisa e puntuale che ben si adatta agli scopi di questo elaborato. Secondo il filosofo, infatti, la "cultura è sinonimo di nazione, o di popolo, e designa una continuità intergenerazionale, più o meno compiuta dal punto di vista istituzionale, che occupa un determinato territorio e condivide una lingua e una storia distinte”[3].

Si potrebbe cadere nell’errore di pensare che la cultura e il multiculturalismo siano concetti avulsi dal diritto, che operino su piani differenti. Si vedrà, invece, come vi siano strette correlazioni. E ciò perché il diritto penale non è un prodotto culturalmente neutro ma, al contrario, è impregnato della cultura del popolo da cui promana.

Sono molte, infatti, le norme penali che si servono di concetti normativi culturali: dal comune sentimento del pudore ai motivi di particolare valore morale e sociale, dai motivi abbietti e futili agli atti sessuali fino al concetto di onore che, sebbene non più attuale, ha avuto una sua valenza nella cultura penale domestica.

Il passaggio dai confini di uno Stato all’altro può comportare la soggezione ad un sistema penale diverso anche fra Paesi culturalmente vicini come quelli europei occidentali. La maggiore ricorrenza di questi conflitti normo-culturali dovuti alla globalizzazione e all’espandersi dei movimenti migratori ha portato alla creazione del concetto di reato culturalmente motivato corrispondente a un comportamento che nel gruppo culturale d’origine risulta meno severamente valutato o accettato o addirittura incoraggiato.

La categoria dei reati culturalmente orientati si è via via imposta all’attenzione della dottrina e della giurisprudenza in ragione dell’imponente fenomeno dei flussi migratori e della globalizzazione che caratterizzano fortemente, in questo periodo storico, l'Europa e il nostro Paese. Occorre altresì considerare che il diritto penale, e segnatamente gli elementi integrativi delle fattispecie penali, risentono fortemente del periodo storico, delle evoluzione culturali e delle sensibilità diffuse.

Sulla scorta di tale presupposto si delineano le linee essenziali che guideranno questa riflessione. Il dialogo interculturale e il rispetto delle minoranze sono condizioni necessarie per la difesa della società democratica e la conservazione del pluralismo, elementi considerati indissociabili per la tutela delle libertà e dei diritti fondamentali anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[4].

Le prassi e le culture dei popoli e gli ordinamenti giuridici statuali riflettono spesso narrative differenti, creando conflitti normativi. Questi ultimi sono enfatizzati dall’incremento dei flussi migratori globali e coinvolgono spesso questioni di genere. Pratiche tradizionali per lo più ignorate quando erano perpetuate unicamente nelle aree colonizzate, sono state considerate reati una volta importate in Europa e, più in generale, nei paesi c.d. occidentali[5].

Il vero problema di fondo, delicatissimo, concerne il potenziale conflitto tra le credenze culturali di individui migrati verso luoghi diversi da quelli d’origine e l’ordinamento del luogo di destinazione. In quest’ottica, allora, il compito degli ordinamenti giuridici e dell’Autorità Giudiziaria è di cercare di dirimere il conflitto tra diritto del luogo in cui si vive e appartenenza a una comunità culturale portatrice di valori e costumi differenti.

Questa finalità si è affacciata nel panorama social-penalistico in tempi relativamente recenti, contrariamente a quanto accade oltre oceano ove tradizione la giuridica americana è illo tempore basata su un modello di società fortemente multiculturale, in cui la presenza di diverse credenze e precetti tanto religiosi quanto sociali si amalgamano fino a divenire il sostrato culturale sul quale operare.

Lo scopo di questo scritto è esplorare, dopo aver ripercorso le basi dell’istituto, il particolare rapporto tra diritto penale-multiculturalismo: è necessario comprendere se la motivazione culturale si atteggi ad esimente non codificata, se il suo ingresso nel codice penale - come da più parti paventato- comporti il riconoscimento di un istituto che possa vanificare e mettere in discussione le tradizioni e le funzioni deterrente e rieducativa della pena condonando fattispecie che altrimenti sarebbero sanzionate o se, riuscendo a guardare oltre, nel delicato rapporto con i principi cardine dell’ordinamento… una terza opzione sia sempre possibile.

 

2. La genesi dei reati culturalmente orientati: il multiculturalismo di matrice americana

Le prime manifestazioni e applicazioni pratiche della cultural defense si sono registrate negli Stati Uniti d’America, nazione caratterizzata dalla compresenza di plurime etnie.

Si è visto come il reato di matrice culturale sia quello commesso da uno o più soggetti appartenenti ad un gruppo di minoranza, stanziatisi in un territorio in cui la cultura c.d. dominante è diversa da quella praticata dal gruppo di appartenenza dell’agente.

Di conseguenza, ci si può spingere ad affermare come l’evento commissivo e/o omissivo derivante dal fattore culturale generi due diverse linee di pensiero: per una comunità di consociati, la cui cultura risulta essere predominante all’interno del territorio di insediamento, l’azione che risulti contraria alla tradizione culturale e giuridica generalmente accettata dovrà essere perseguita e condannata dall’ordinamento giuridico; al contrario, la minoranza culturale in cui l’agente risulti integrato aderisce al comportamento commesso poiché lo accetta, lo considera giusto.

Il concetto del giusto è, per l’appunto, il discrimen tra diverse società culturali: ciò che condanna un popolo è accettato da altra cultura e viceversa.

Tuttavia, al concetto di reato culturalmente orientato (o motivato) è strettamente collegato a doppio filo la cultural defense.

Lungi dall’essere un sinonimo ne è, invero, il risvolto della medaglia, poiché essa è la filosofia della difesa culturale del reo in sede processuale.

Ciò perché nella dottrina americana si è soliti operare un distinguo. Mentre nel dibattito giuridico interno si parla indistintamente di cultural defense e reato culturale, i giuristi americani differenziano: il reato culturalmente orientato afferisce all’ambito sostanziale del diritto penale mentre l’etichetta cultural defense trasla tutto il dibattito sulla matrice culturale del reato nella fase processuale.

Infatti, si è evidenziato come essa inquadri e discuta tutti i possibili momenti di emersione, durante un processo penale, dei fattori culturali che possano ridondare a favore di un imputato appartenente ad una cultura di minoranza.

Ci si spiega.

Essa è di estrazione dottrinale, poiché non gode di nessun riconoscimento ufficiale all’interno delle fonti di produzione americana che, come noto, è un ordinamento giuridico di common law.

Più precisamente, è un’argomentazione difensiva fondata sulla diversità culturale dell’imputato e sul conseguente presupposto che la sua cultura abbia esercitato un’influenza, giuridicamente apprezzabile, sulla condotta realizzata tale da poter elidere, o attenuare, la responsabilità per il reato commesso.

Attraverso la cultural defense l’imputato ha, quindi, la possibilità di spiegare all’organo giudicante l’influenza che il proprio background culturale ha esercitato sulla condotta per la quale è tratto a giudizio, nell’aspettativa che tale influenza sia valutata a suo favore, consentendogli di ottenere l’assoluzione o un trattamento sanzionatorio più mite[6].

La ratio ispiratrice, dunque, è da rinvenire l’esigenza di valutare il reato culturalmente motivato anche alla luce della cultura dell’imputato, l’apprezzamento della quale può eventualmente condurre, in sede processuale, all’esclusione o all’attenuazione della sanzione penale.

La cultural defense trova la sua genesi nel multiculturalismo[7] e non potrebbe essere altrimenti, posto che la diversa esistenza di diverse culture su un medesimo territorio porta, inevitabilmente, ad interrogarsi sulle conseguenze di determinate azioni scaturite dal fattore culturale.

Anche oltreoceano, comunque, il dibattito dottrinale su questa figura non accenna a placarsi, anzi è terreno fertile per approfondire e proporre delle soluzioni su dibattiti noti.

La difficoltà maggiore anche tra i giuristi americani, infatti, è la qualificazione giuridica da dare alla cultural defense: è justifications (che nel nostro diritto è una figura assimilabile alle esimenti) oppure rientra nelle excuses (ossia nell’ambito della maturazione dell’elemento soggettivo quali, ad esempio, i vizi di mente)?

Ad oggi l’orientamento prevalente riconduce l’istituto de quo nell’alveo delle excuses, dunque nella categoria dell’elemento soggettivo, ossia l’errore, l’infermità mentale, l’impulso irresistibile[8].

L’esimente per assumere rilievo, tuttavia, deve essere sempre collocata all’interno di altre defense riconosciute dalla giurisprudenza – come ad esempio il mistake of fact o la self defense – non riconoscendo alcuna norma od istituto che attribuisca espressa rilevanza all’appartenenza ad un dato gruppo etnico-culturale.

La dottrina americana proprio in virtù della mancanza di una autonoma figura normativa distingue tra la cultural evidence e true cultural defense. La prima costituisce una prova culturalmente orientata, in grado di provare la sussistenza di un istituto già riconosciuto nell’ordinamento; a tale schema viene ricondotta la rilevanza attribuita al background culturale del soggetto che commette il reato. La true cultural defense, invece, implica il richiamo diretto alle tradizioni e alle credenze diffuse nella cultura d’origine[9].

Non si è mancato di evidenziare[10], oltretutto, come la casistica americana altalenante sul tema in esame sia emblematica delle profonde difficoltà applicative delle defense: in alcuni casi si è assistito ad una derubricazione del capo imputativa sulla base del motivo culturale, in altri – invece – non si è accordato nessun rilievo decisivo alla cultural defense.

Un dibattito problematico, per come si avrà modo di vedere, condiviso dalla dottrina penalistica interna.

 

3. Cultural defense e tradizione giuridica di civil law: il dibattito tutto italiano tra esimenti ed elemento soggettivo del reato

Si è detto che per molto tempo l’ordinamento giuridico italiano non ha riscontrato la necessità di confrontarsi con culture diverse da quella occidentale poiché, come è stato finemente osservato[11] l’Italia, e l’Europa in generale, per secoli hanno intrapreso campagne di emigrazione e non di immigrazione, esportando, dunque, quel coacervo di valori sociali e giuridici tipici della cultura occidentale. Di talché, si è generata una tradizionale insensibilità del sistema giuridico italiano di fronte alle diversità etnico-culturale.

Tale visione improntata alla “monocultura”[12] è ravvisabile anche nella stessa struttura del codice penale, il quale non concepisce al suo interno nessuna disposizione volta ad una apertura e al riconoscimento di altre culture; chiusura, questa, ravvisabile tanto nelle disposizioni generali quanto nella legislazione speciale che, nel corso del tempo, si è affiancata sempre più alla normativa codicistica[13].

Si comprende, dunque, come i giuristi italiani non abbiano dovuto confrontarsi con una tematica che, seppur ben nota, non ha mai trovato completamente ingresso nel diritto penale italiano.

Tuttavia, gli sviluppi nel campo della cooperazione internazionale ed umanitaria, le politiche migratorie[14] adottate dall’Unione Europea hanno contribuito a sottoporre sotto la lente di ingrandimento del diritto penale italiano l’ammissibilità o meno del reato culturalmente orientato e la sua compatibilità con i principi della teoria generale del reato.

Ci si è interrogati, in particolare, su quale piano del diritto penale dovrebbe collocarsi il reato culturalmente orientato ove dovesse trovarvi ingresso: sul piano dell’elemento soggettivo, in tema di riconoscimento delle circostanze ovvero in tema di commisurazione della pena?

Orbene, si può anticipare sin da ora come in seno alla dottrina penalistica[15] si registri un tendenziale sentimento di scetticismo e criticità nei confronti della cultural defense seppur, va detto, qualche orientamento diverso si registra e del quale si darà debitamente conto.

Una delle prime critiche[16] mosse ai reati culturalmente orientati parte dal proprio dal presupposto alla base di tale categoria: la condotta commessa in uno stato dalla diversa tradizione giuridica dell’agente sia giustificabile per il sol fatto che quella condotta materiale sia giustificata e scollegata dunque da antigiuridicità nella cultura di appartenenza del reo.

È stato affermato, allora, che se si procedesse ad una sorta di giustificazione dell’agente per il sol fatto di appartenere ad una comunità “minoritaria” rispetto a quella generalmente esistente, dovrebbe ammettersi ed invocarsi la cultural defense anche per l’agente che commetta un’azione considerata giusta dalla cultura predominante tra i consociati.

Ciò sulla scorta del fatto che, essendo ammissibili una pluralità di definizioni per perimetrare il campo applicativo della locuzione “cultura”, non sarebbe possibile una risoluzione comune. Dinanzi ad un ventaglio variegato di definizioni, allora, ogni singolo comportamento astrattamente riconducibile a tale categoria dogmatica dovrebbe assumere rilevanza nella giustizia penale.

Di conseguenza, tali argomentazioni dovrebbero indurre ad una non legittimazione della cultural defense tanto a livello giuridico quanto sociale[17] poiché, vi si correrebbe il rischio di offrire una legittimazione giuridica, e dunque far rientrare negli istituti penalmente rilevanti, le azioni di quei gruppi di consociati che, inseriti una cultura dominante, auspicherebbero al ché determinati comportati venissero accettati con benevolenza dall’Ordinamento.

Scelte di politica criminale di tal fatta, è stato denunciato, avrebbero come conseguenza l’ingresso della cultural defense nel giudizio di responsabilità penale a carico dell’imputato con l’applicazione di norme diverse ed ulteriori dal diritto penale statale[18].

A parer di chi scrive, però, tale modo di argomentare non sembrerebbe cogliere nel segno, per due ordini di motivi: l’erroneo perimetro del concetto di cultura e lo svilimento dell’istituto in esame.

Concetti, questi, ben collegati l’uno all’altro.

Innanzitutto, non si ben comprende il perché vi dovrebbe essere il rischio di una costante invocazione della cultural defense da parte del gruppo maggioritario.

Bisogna ricordare che non è un caso che il reato culturalmente orientato venga espresso alle minoranze culturali: portatori di valori, tradizioni, cultura ed etnia diversa rispetto al territorio di insediamento, dal quale recepiscono le prescrizioni giuridiche, seppur una diversità di vedute e sentire sociale su determinati aspetti regolatori della quotidianità si registra sempre.

Affermare, però, che la cultural defense potrebbe essere invocata anche dalla cultura dominante significherebbe snaturare in toto l’istituto in esame.

La cultura dominante, proprio in quanto tale, ha recepito ab origine le norme civili, sociali e penali. La società e i consociati in generale – teoricamente – dovrebbero essere consci delle scelte di politica criminale, poiché tanto il Legislatore quanto la società sono portatori della medesima identità culturale. In linea di principio l’agente o, addirittura, un gruppo di persone bene calate nella cultura dominante che compiano determinati crimini dovrebbero avere contezza delle loro azioni: la consapevolezza che il comportamento abbia assunto i connotati di antigiuridicità dovrebbe permeare il loro agire.

Tant’è che a voler aderire alla tesi dottrinale prospettata si rischierebbe di giungere ad un paradosso, di cui si darà contezza a breve. Quando si parla di culture si pensa sempre a nazioni diverse dalla propria, ma si provi a rimanere nei nostri confini.

È innegabile come anche l’Ordinamento giuridico italiano, sebbene il codice Rocco del 1930 sia connotato ad una idea di unità giuridico-sociale, sia contraddistinto da alcuni fenomeni sociali che poco hanno da condividere con l’ordine democratico. Si pensi, allora, all’identità o sub-cultura[19] mafiosa, innegabilmente contraddistinta da una sua filosofia, da una sua cultura, da un diverso modo di intendete i delitti, dal diverso concetto di onore e di offesa, dal diversa visione del potere statuale.

Sono sicuramente fenomeni sociali diffusi, nati e sviluppatesi all’interno di una popolazione tradizionalmente accomunata dalla condivisione di determinati princìpi e valori. Eppure, aderendo alla tesi della cultural defense anche con riferimento a gruppi afferenti a culture maggioritarie, ci si dovrebbe spingere ad invocare la giustificazione delle azioni compiute in tale contesto poiché considerate giuste da quel “gruppo” minoritario.

Tuttavia, si ritiene assolutamente impensabile che un ragionamento di tal fatta trovi accoglimento nelle aule giudiziarie. E ciò perché, ad avviso della scrivente, il concetto di cultura sotteso ai reati de quibus poggia su un piano ben diverso: la cultura della diversa etnia, ossia di quella popolazione che non condivide nessun sostrato socio-culturale con la tradizione culturale maggioritaria.

In secondo luogo, per suffragare maggiormente il non ingresso della cultural defense nel diritto penale italiano, è stata analizzata in maniera minuziosa anche la giurisprudenza.

Sul punto il discorso da fare sarebbe molto lungo con l’evidente rischio di uscire dal perimetro. Si cercherà, dunque, di ripercorrere in maniera lineare l’orientamento prospettato.

Secondo una parte degli studiosi[20] i giudici, nei loro provvedimenti, sono sempre ricorsi all’analisi dello stile di vita del reo, del suo bagaglio culturale, della sua concezione di vita: tutti indici di cui tenere conto in sede di commisurazione della pena ex artt. 132-133 codice penale Partendo da questo presupposto si è criticato quell’orientamento dottrinale che dalla casistica giurisprudenziale aveva evidenziato come una pluralità di casi fosse da ricondurre al paradigma dei reati culturalmente orientati[21].

Si badi, però, che eccezion fatta per il reato di mutilazione dei genitali femminili previsti dall’articolo 583-bis[22] codice penale non esiste – per le ragioni già espresse – nella parte generale del codice uno schema legale[23] appositamente pensato per disciplinare il fenomeno dei reati culturalmente motivati.

Da ciò, il monito di porre in essere opportune differenziazioni tra l’aver agito per motivi culturali e il fatto culturalmente orientato: se il punto di partenza è una nozione di reato culturalmente motivato centrata sul concetto etnico di cultura, la prova dell’esistenza del fatto culturalmente motivato deve passare attraverso specifici gradi di accertamento, in cui il passaggio più delicato e decisivo dovrebbe essere, si è detto, quello della dimostrazione della cd. coincidenza di reazione[24].

Bisognerà dimostrare in questa fase che il motivo culturale non è solo espressione della cultura del singolo, intesa in senso lato, ma è anche espressione della cultura del gruppo etnico di minoranza del soggetto.

È stato posto l’accento sul fatto che sarà necessario accertare che l’agente fa parte di un gruppo etnico, e che i componenti di questo gruppo etnico, che costituisce una minoranza culturale nel sistema di accoglienza, si sarebbero comportati nello stesso modo in cui si è comportato l’agente. Se non c’è la prova di questa connessione specifica tra motivo culturale del singolo e cultura del suo gruppo, manca il requisito fondamentale del fatto culturale[25].

Tale orientamento ha sicuramente il pregio di individuare in maniera consona il concetto di cultura dal quale far discendere, in seguito all’azione commissiva, i diversi comportamenti che verrebbero posti in essere da soggetti con tradizioni diverse. Tuttavia, non esaurisce le problematiche sollevate da altri studiosi.

Perché, ci si è chiesti, anche ad ammettere che vi sia unanimità di vedute sul fattore culturale, questo sotto quale istituto del diritto penale assumerà rilevanza giuridica?

Nei risvolti pratici si è tentato di avanzare la tesi della cultural defense modulandola come causa di giustificazione sia del consenso dell’avente diritto ex articolo 50 codice penale sia dell’esercizio del diritto ex articolo 5 codice penale con riferimento alla fattispecie delittuosa dei maltrattamenti in famiglia disciplinati dall’articolo 572 codice penale

La giurisprudenza di legittimità[26] ha categoricamente escluso l’ammissibilità di un ragionamento di tal fatta sulla base del fatto che mai i princìpi costituzionali e diritti dell’uomo possano subire un imbarbarimento sulla scorta della matrice culturale del soggetto agente, che si richiede invocando la scriminante di cui all’articolo 50 codice penale di fronte a comportamenti lesivi dell’integrità fisica, della personalità individuale e della comunità familiare che, seppur, dalla difesa vengono supposti come legittimi in altri ordinamenti, trovano un insormontabile ostacolo nella normativa giuridica che presiede all’ordinamento vigente.

Fortemente criticato è stato anche il tentativo di far leva sull’ambito dell’elemento soggettivo e, in particolare, sull’esclusione del dolo.

La questione è rilevante e rinvia al quesito se la coscienza dell’offesa rientri o meno nell’oggetto del dolo. Come è stato puntualmente sottolineato[27], nel contesto del dolo il concetto di offesa può assumere due significati: da un lato può infatti indicare la coscienza dell’antigiuridicità del fatto commesso, valutata in relazione alla norma violata di cui si presuppone la conoscenza; dall’altro lato può, più semplicemente, fare riferimento alla consapevolezza del disvalore del proprio comportamento, che incide su interessi meritevoli di tutela, indipendentemente dalla coscienza del contrasto formale con la legge[28].

Tralasciando, per il momento, il concetto dell’offesa che verrà compiutamente affrontato in apposita sede, parte della dottrina[29] ha precipuamente espresso le proprie perplessità: il fatto che quella determinata azione non costituisca reato nella cultura dell’agente non assume rilevanza giuridica nell’ordinamento penale italiano poiché, si è detto, un furto è sempre un furto e come tale rimane indipendentemente da ciò che l’agente pensi su quella determinata azione.

Ad avviso della scrivente tale modus di affrontare la questione risulta, però, estremamente semplicistico: se da un lato, infatti, le stratificazioni concettuali a volte possono non apportare utilità in quanto caratterizzate da un’eccessiva esasperazione teorica, dall’altro neanche una estrema esemplificazione degli istituti risulta essere conveniente. Sul punto, però, si ritornerà.

Si era anticipato come una seppur flebile apertura nei confronti dei reati culturalmente orientati in letteratura si è registrata.

Ed infatti.

Secondo alcuni studiosi[30], per evitare un abuso della cultural defense e limitari i rischi di una sua applicazione incontrollata, sarebbe auspicabile l’applicazione di un test per vagliare le pretese delle difese e culturali e, in secondo luogo, operare un bilanciamento di diritti.

Dunque, un primo correttivo apportabile all’istituto della cultural defense dovrebbe essere il noto test tripartito ideato da A. D. Renteln, il quale consiste nella risoluzione, per ogni caso in cui una difesa culturale venga invocata, di tre specifici quesiti: a) Il soggetto è membro del gruppo etnico o culturale in esame? b) Il gruppo in questione ha una tradizione o convinzione assimilabile a quella in esame? c) Il soggetto è stato effettivamente influenzato da detta tradizione o convinzione nel momento in cui ha agito?.

Il vaglio delle pretese difese culturali secondo i canoni individuati dal test di cui sopra consentirebbero indubbiamente di ridurre al minimo i casi di abuso dell’istituto: tutte le cultural defense per cui varrà, per i tre quesiti, risposta positiva, saranno genuine; tutte le cultural defense per cui vi sarà una risposta negativa ad uno dei tre quesiti dovranno invece essere ulteriormente scrutinate e potranno potenzialmente integrare degli abusi[31].

Secondariamente, il ricorso alla tecnica di rilevanza costituzionale del bilanciamento dei diritti consentirebbe di pesare di volta in volta due diversi diritti o interessi egualmente tutelati da un medesimo ordinamento giuridico, i quali entrino in conflitto con riferimento ad una determinata fattispecie concreta: la tecnica del bilanciamento consentirebbe di ottenere una gerarchia flessibile di diritti, e di determinare di volta in volta quale debba prevalere e quale debba invece essere sacrificato, ed in quale misura; non già in via generale, ma unicamente con riferimento alla specifica situazione concreta, tollerando le cultural defense ogni volta che la pretesa azionata dal soggetto appartenente alla minoranza culturale abbia ad oggetto diritti, interessi o valori che risultino sacrificabili o comprimibili per l’ordinamento ospitante e respingendole in caso contrario[32].

Per quanto l’opera di bilanciamento sia una lodevole tecnica che permette di mettere a fuoco diritti costituzionalmente garantiti, a parere di chi scrive essa si associa un po' alla problematica di fondo ma non la esaurisce: il problema non è riconoscere o meno un diritto a fronte di un altro, ma come conciliare diritti costituzionalmente garantiti erga omnes con le pretese ed esigenze preventive/sanzionatorie dell’ordinamento penale interno.

Il bilanciamento, allora, deve essere diverso ed ulteriore.

 

4. Tertium datur: l’esigenza di bilanciamento tra il diritto alla proprie tradizioni culturali e l’offensività materiale della condotta dell’agente

Emerge ictu oculi come gli interrogativi che la cultural defense pone siano molteplici ed eterogenei.

Aderire ad una tesi piuttosto che ad altra si ritiene poco utile in quanto non apporterebbe nulla di significativo a quanto già esposto da autorevoli studiosi.

Ad avviso di chi scrive, però, vi è l’impressione che quando ci si riferisca ai reati culturalmente orientanti vi sia il terrore di una “deriva” culturale, poiché vi è insito una sorta di pregiudizio sulle tradizioni culturali diverse da quelle proprie. Difatti, il primo pensiero è alle mutilazioni genitali, alla riduzione in schiavitù, ai maltrattamenti in famiglia.

Su tale ultimo punto, però, si vuol fare una precisazione.

Tale ultima fattispecie non si ritiene invero espressione o emblema dei reati culturalmente orientati: è sicuramente un fenomeno molto diffuso ma sfortunatamente la sua commissione non si esaurisce esclusivamente in una cerchia della cultura minoritaria.

La fattispecie ex articolo 572 codice penale è nota in ogni latitudine: le Autorità Giudiziarie pullulano di notizie reato a carico di soggetti indagati di nazionalità italiana e straniera. Rilegare tale fenomeno nell’alveo del culturalmente orientato significa ricadere nell’errore della corretta individuazione della nozione di “cultura”. Nei casi dei reati del c.d. “codice rosso” si ritiene che il sostrato sia di tipo sociale e non culturale (etnicamente inteso).

Ciò detto, non può negarsi come sottesa alla cultural defense via sia una specifica ideologia.

Innanzitutto, non va dimenticato che il diritto è espressione della cultura di un popolo.

Spesso si ha l’impressione che la cultura sia estranea al diritto penale. Eppure, asserzioni di tal fatta non colgono nel segno. Soprattutto, non è corretto affermare che la materia penalistica abbia iniziato da poco a fare i conti con il fattore culturale.

A parere della scrivente, proseguendo sul sentiero appena tracciato, l’analisi dei delitti culturalmente motivati non può che partire da una corretta considerazione di fondo: qualsiasi sistema normativo costituisce il prodotto di un determinato contesto storico-culturale, che riflette elementi tratti dal mondo dei fatti: questo vale senza dubbio anche per il diritto penale, che non è affatto una scienza naturalistica ma una scienza culturale vera e propria[33].

Di conseguenza, si propende per una nozione qualificata di cultura, ossia quella etnicamente intesa, come sostrato concettuale della categoria in esame.

Non basta, dunque, una diversa concezione valoriale per legittimare il ricorso alla cultural defense. Affinché ciò sia possibile è necessario che questa sia la risultante di «un sistema dinamico di valori, di contenuti ricevuti con l’apprendimento, di convinzioni, credenze e ruoli, che consentono ai membri di un gruppo di relazionarsi gli uni agli altri e con il resto del mondo, di comunicare e di sviluppare il loro potenziale creativo»[34].

È imprescindibile guardare al dettato normativo con la consapevolezza della stretta relazione tra diritto e cultura, per non cadere nella falsa convinzione che si tratti di «regni di azione distinti», che possono entrare in contatto solo marginalmente e in modo del tutto occasionale.

La legge è, in realtà, un fenomeno culturale, e della cultura condivide il carattere dinamico, poiché interagisce costantemente con i costumi acquisiti e con i nuovi orientamenti offerti dalla realtà sociale.

L’apprestare una tutela penale nei confronti di determinati diritti ed interessi con preferenza rispetto ad altri dipende da ultimo da una “scelta”, da un’attività di selezione che ha essa stessa natura culturale. In ogni epoca, infatti, alla porta del diritto penale «incalza una folla di interessi che preme per avervi ingresso» e trova effettivamente «la possibilità di entrare, purché dall’interno la tutela delle situazioni prospettate sia percepita come necessaria»[35].

Una volta chiarita la tematica di fondo si può provare, o almeno si tenta, a dare una risposta che possa andare oltre le due fazioni classiche dell’essere a favore o contro i reati culturalmente orientati.

La categoria della cultural defense è contraddistinta da una casistica tutt’altro che uniforme, in quanto è indubbio come le motivazioni sottese possono essere le più svariate: dal sentimento religioso alla concezione sociale e per quanto alcune possano smuovere e scuotere le coscienze – si pensi all’infibulazione, alla riduzione in schiavitù, alle mutilazioni di genere – non basta a delegittimare l’ingresso del reato culturalmente motivato nell’ordinamento penale.

Vi sono delle culture le cui tradizioni esulano da contesti di violenza e minorazione psico-fisica: si pensi, ad esempio, alle realtà indiane in cui il consumo di oppio e sostanze psicotrope avviene quotidianamente o, ancora, ad alcune tribù afgane in cui baciare l’organo riproduttivo del proprio figlio è emblematico di un amore incondizionato: entrare in contatto con una delle zone biologicamente più sporche del corpo umano per dimostrare e porre in essere un gesto di affetto[36].

Si rende necessario, allora, spostare più correttamente l’attenzione sul concetto di offesa del bene giuridico tutelato, per comprendere se e in che modo possa questi possa aver subito una lesione.

Infatti, se da un lato – come più volte è stato chiarito dalla giurisprudenza[37] – determinate condotte non potranno mai trovare ingresso nell’ordinamento ove queste si pongano in contrasto con beni di maggiore rilevanza penale, in quanto vi è uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione nella società civile di prassi, consuetudini, costumi che ledano o mettano in pericolo i diritti inviolabili dell’uomo e i beni ad essi collegati dalla fattispecie penali, dall’altro – però – è necessario un adeguato bilanciamento tra il diritto, pure inviolabile, del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose, sociali, ed valori offesi o posti in pericolo dalla sua condotta.

La valutazione, allora, deve avvenire caso per caso al fine di verificare la concreta offensività del fatto posto in essere.

Per far ciò, la più recente giurisprudenza[38] ha individuato alcuni punti salienti di tale delicato giudizio di comparazione.

Innanzitutto, valutare l’incidenza della matrice culturale sulla consapevolezza dell’agente: essa deve avere ad oggetto la valutazione della natura della norma culturale in adesione alla quale è stato commesso il reato, vale a dire se di matrice religiosa o giuridica – come accadrebbe se la norma culturale trovasse un riscontro anche in una corrispondente norma di diritto positivo vigente nell'ordinamento giuridico del Paese di provenienza dell'immigrato, dovendosi ritenere tale circostanza rilevante quanto alla consapevolezza della antigiuridicità della condotta e quindi alla colpevolezza del fatto commesso – e del carattere vincolante della norma culturale, ossia se rispettata in modo omogeneo da tutti i membri del gruppo culturale o, piuttosto, desueta e poco diffusa anche in quel contesto.

Bisogna promuovere un approccio esegetico che abbia in considerazione il mutamento del costume e sentire sociale in continuo divenire, di modo che le decisioni si mostrino come il prodotto di una «interpretazione contestualizzata in relazione al momento storico, più che una tralatizia ripetizione di concetti – il comune sentire, la pubblica decenza – ritenuti scontati e immutevoli»[39].

È gioco forza ritenere, allora, che – contrariamente a quanto statuito – l’elemento soggettivo, e più in particolare, la consapevolezza dell’offesa giochi un ruolo centrale.

Come noto, tra i principi cardine codice penale ve n’è uno in particolare che non consentirebbe assolutamente nessuna forma di giustificazione avverso la violazione del precetto penale: ignorantia legis non excusat. L’ignoranza non è giustificazione, è vero, e come tale non può essere invocata per eludere le responsabilità derivanti dalle proprie azioni.

Al contempo, però, non può negarsi come una conoscenza assoluta della copiosa normativa nazionale sia pressocché impossibile, oltre che molto difficile per chi non sia addentro al mondo giudiziario, a causa di un elevato ed oscuro tecnicismo e di una giurisprudenza altalenante.

Ciò emerge ancor di più in relazione a quei gruppi e popolazioni che seppur insediati, disconoscono totalmente alcuni aspetti della legislazione penale e non sono ben consapevoli del fatto che talune loro condotte possano configurare un reato.

In casi di tal fatta, si è davvero sicuri che la consapevolezza dell’offesa – come elemento costitutivo del dolo – non sia la chiave di svolta nell’accertamento per l’esperibilità o meno della cultural defense?

Le tesi dei Maestri del diritto penale, che a lungo hanno studiato tale argomento, hanno portato ad affermare come nell’oggetto del dolo non rientrino esclusivamente quegli elementi materiali che caratterizzano la tipicità, ma esiste anche l’offesa dell’interesse tutelato dalla norma penale[40].

Tale orientamento, va detto, per molto tempo non è stato fatto proprio dalla giurisprudenza, la quale ­­– nell’opera di bilanciamento di diritti e valori – non ha mai registrato una significativa apertura nei confronti del reato culturalmente orientato, soprattutto quando questo si ponga relazione a quelle categorie di delitti che offendano la libertà psico-fisica e sessuale dell’individuo.

La Suprema Corte di Cassazione[41], specie per il delitto di maltrattamenti in famiglia, tende a essere piuttosto rigorosa negando la possibilità di escludere la colpevolezza del soggetto attivo sia sul piano del dolo, sia in relazione all’ignoranza della legge penale.

In linea di principio, il mantenimento di una linea di chiusura senza una valutazione specifica e puntuale del caso concreto non consentirebbe di giungere ad una decisione ponderata, in quanto il provvedimento giudiziale non terrebbe conto di taluni fattori che potrebbero incidere sulla decisione.

Aderire alla teoria realistica del reato[42] consentirebbe in sostanza l’estensione dell’oggetto del dolo, il quale ricomprende anche conoscenza dell’offesa, come elemento ulteriore per una valutazione proporzionata al caso concreto.

Tale conoscenza, secondo l’opinione della scrivente, è un accertamento necessario nei reati culturalmente motivati, poiché sarebbe poco garantista condannare qualcuno per un comportamento di cui egli non si sia rappresentato il fatto che possa configurare un reato e, ancor di più, in mancanza della volontà di arrecare un’offesa al soggetto passivo del reato.

A lungo la giurisprudenza non ha guardato con benevolenza alla teoria de qua, dalla quale se ne è discostata nelle sue pronunce non accordando nessuna valenza giuridica alla matrice culturale.

Tuttavia, in tempi relativamente recenti, spinti probabilmente anche delle nuove questioni de iure condendo i giudici di legittimità non hanno mancato di evidenziare la necessità di abbandonare eventuali preconcetti e rispondere alle esigenze e ai quesiti giuridici che la società, nel suo continuo mutare, solleva.

È innegabile, infatti, la necessità di procedere a un’interpretazione delle norme penali che risenta del momento storico e culturale di riferimento.

Tale modo di operare si è registrato nell’ultimo arresto giurisprudenziale in tema di cultural defense, con la sentenza n. 29613 del 2018[43] della terza sezione penale che, per come già accennato, ha richiesto, ai fini del riconoscimento della matrice culturale, l’accertamento della “condotta incriminata” come assolutamente ordinaria, consona e accettata nella comunità minoritaria di appartenenza, tale da non ingenerare nell’agente la consapevolezza dell’antigiuridicità dell’azione posta in essere e non conoscerne l’offesa.

Nel caso di specie, il collegio si pronunciò su un caso di presunta violenza sessuale minorile, in cui la difesa dell’imputato aveva sollevato la circostanza del fattore culturale.

I giudici rigettarono la censura difensiva ma, nel farlo, fecero ricorso al criterio culturale nella comunità di appartenenza per valutare se le condotte incriminate, nel paese di origine degli imputati, fossero una usanza comune e come tali accettate e percepite come giuste.

Nel risolvere tali interrogativi, venne appurato come gli imputati non provenissero da zone in cui, ancora oggi, si praticano atti di palpeggiamento in danno del figlio minore, seppur avulsi da qualsiasi connotato sessuale.

Ancor di più, quant’anche così fosse stato, nella zona di provenienza la pratica si esauriva con il palpeggiamento, mentre non venivano praticati ulteriori atti a carattere prettamente sessuale, quali la fellatio, di cui invece gli imputati erano accusati.

Applicando tali criteri al caso sottoposto al suo vaglio, la Corte di Cassazione ha ritenuto non idonea ad integrare una causa di non colpevolezza la dichiarata ignoranza da parte degli imputati, circa l’offensività della condotta posta in essere ai danni del figlio minore, così come l’ignoranza sull’esistenza della norma penale incriminatrice della condotta stessa.

Nel caso di specie infatti gli imputati, oltre che essere ampiamente integrati nel tessuto sociale, allegavano a propria discolpa una ignoranza della legge penale che non avrebbe assunto rilevanza neanche nel paese di origine, ove i medesimi fatti risultavano sanzionati penalmente[44].

Un buon governo del principio del criterio culturale consentirebbe, laddove impiegato, di risolvere interrogativi di “nuova generazione”: capire come una determinazione azione o omissione si sia rappresentata nel soggetto attivo del reato e che grado di conoscenza abbia generato.

È necessaria, però, una precisazione. La non conoscenza dell’offesa la si deve interpretare in un senso più ampio, ossia proprio nella mancanza di consapevolezza, conoscenza e percezione della portata offensiva della sua condotta.

Va da sé che un accertamento di tal fatta non può che proiettarsi sull’elemento soggettivo e, dunque, sul dolo.

Abbracciare la teoria realistica del reato, contrariamente a quanti paventano una deriva cultura o – addirittura ne operano un parallelismo con il diritto penale del nemico[45] – significherebbe trovarsi di fronte ad una giustizia che sia adeguata alle circostanze e che possa rispondere al caso concreto in una continua opera di bilanciamento tra garanzie individuale ed esigenze di giustizia.

Posto che l’impossibilità dell’introduzione di una norma speciale per i reati culturalmente motivati è ancorata alla legge esistente, la quale deve essere interpretata alla luce del principio di uguaglianza, i giudici – allora – dovranno utilizzare criteri quanto più razionali, trasparenti e controllabili possibili per raggiungere l’obiettivo di conciliare il rispetto della diversità culturale con il rispetto della uniformità del sistema penale in un’ottica costituzionalmente orientata.

 

[1]PASTORE, BALADASSARRE, Identità culturali, conflitti normativi e processo penale, 2016.

[2]BASILE, F., Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati, in Riv. tel. Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2011, consultabile su https://riviste.unimi.it/index.php/statoechiese/article/view/954

[3]KYMLICKA, W., La cittadinanza multiculturale, Il Mulino, 1999

[4]La tematica è stata oggetto di ampio interesse in seno alla CEDU, alla quale spetta il compito – tutt’altro che semplice – di armonizzare la protezione dei diritti fondamentali in Europa e il riconoscimento della diversità esistenti tra i Paesi che sono parti della Convenzione. Una delle più note e storiche sentenze in cui la tematica de qua risale al 1976, quando nel caso Handyside c. Regno Unito fu chiamata ad esprimersi sull’importanza della libertà di espressione, protetta dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ma anche sulla necessità del rispetto di opinioni che sono diverse, e quindi del pluralismo come carattere essenziale della società democratica. La Corte affermò come la protezione della libertà di espressione non riguardi solo le informazioni e le idee che sono favorevolmente recepite ovvero sono ritenute innocue o indifferenti, ma anche quelle che offendono, turbano o disturbano lo Stato o qualunque settore della popolazione. Queste, ricordano i Giudici, sono «… le esigenze di quel pluralismo, di quella tolleranza e di quella apertura mentale senza i quali non vi è una ‘società democratica».

[5] BELLUCCI, L., I reati culturalmente motivati tra conflitti normativi e dimensione geopolitica: l’escissione come crime nella giurisprudenza francese, in Riv. Trim. Quest. Giust., 2017, 1, https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/i-reati-culturalmente-motivati-tra-conflitti-norma_426.php .

[6]SORIO, C., I reati culturalmente motivati: la cultural defense in alcune sentenze statunitensi, in Stato, Chiese e Plur. Conf., 2008, p.3

[7]Si badi, però, che multiculturalismo non è sinonimo di multietnicità. In dottrina, si è soliti individuare per società multiculturale quella in cui si registra la presenza di una pluralità di culture ognuna delle quali è accomunata dalla condivisione , da parte di una pluralità di persone, di una lingua e dallo stanziamento su di un territorio; la multietnicità concerne una situazione di compresenza in un determinato spazio fisico o relazionale di differenti gruppi etnici portatori di diversi patrimoni culturali. Se è vero che La società multietnica è sempre multiculturale, quella multiculturale è spesso ma non necessariamente multietnica. Sull’argomento si rinvia a CESAREO, V., Società multietniche e multiculturalismi, Milano, 2000.

[8]Ibidem.

[9] ESPOSITO A., Le Cultural Defenses Statunitensi ed il rilievo del motivo culturale, in IusinItere, 2019, p.1

[10] Ibidem.

[11]SARTORI G., Pluralismo multiculturalismo ed estranei. Saggio sulla società multietnica, 2007, pp. 94 ss.

[12]Sull’identità culturale del codice Rocco si rinvia a FERLA L., I percorsi delle cultural defense tra garanzie di legalità e richieste di riconoscimento delle identità culturali, PDh, Milano, Ciclo XXII, pp. 182 ss.

[13]Tale impostazione è facilmente riscontrabile da due elementi: uno storico e l’altro letterale. Sul primo versante, bisogna ricordare che il codice Rocco è del 1930 e, dunque, la struttura codicistica e le scelte ivi sottese non fanno altro che rispecchiare la cultura del tempo; in secondo luogo, quanto affermato emerge chiaramente dalla Relazione al Re del codice penale del 1930, la n. 251, nella quale si afferma il concetto di unità nazione, da intendersi non solo dal punto vista sociale ma anche sotto il profilo etnico: un’unità legata da vincoli di razza, di lingua, costumi e tradizioni storiche, religione e moralità. Sono queste, si legge nella relazione, a caratterizzare lo Stato italiano.

[14]In tema di politiche migratorie e criminalità si segnala PAPA M., Il diritto penale dell’Europa e la presenza delle comunità islamiche, in CANESTRARI S. – FOFFANI L. (A CURA DI), Il diritto penale nella prospettiva europea. Quali politiche criminali per quale Europa?, 2005, pp. 62 ss. in quale affronta la tematica in oggetto sotto il profilo religioso.

[15]Ad oggi sussiste, sul tema, una letteratura molto corposa. Si v., ad esempio, tra i contributi più significativi: BERNARDI, A., Modelli penali e società multiculturali, Torino, 2006; DE MAGLIE, C., Multiculturalismo e diritto penale. Il caso americano, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2005, p. 173; DE MAGLIE, C., Società multiculturali e diritto penale: la cultural defense, in Scritti in onore di Marinucci, Milano, 2006, p. 215 ss.; PASTORE, B.- LANZA, L., Multiculturalismo e giurisdizione penale, Torino, 2008; GRANDI, C., Diritto penale e società multiculturale: stato dell’arte e prospettive de iure condendo, in Ind. Pen. 2007, 245 ss.; nonché BASILE, F., Immigrazione e reati ‘culturalmente motivati’. Il diritto penale nelle società multiculturali europee, Milano, 2008.

[16]AMISANO M., L’uomo è la misura di tutte le cose, in Critica del diritto, 2014, p. 100.

[17]Ibidem, p. 103.

[18]PALORALI P., Note a margine a FLOBETS M.C. - RENTEL DUNDENS A., Multicultural Jurisprudence. Comparatives perspective on the cultural defense, in Dir. Quest. Pubbl., 2020, 10, pp. 573 ss.

[19]Si evidenzia come la paternità del termine sub-cultura mafiosa, cui la scrivente ha fatto riferimento, sia da ricondurre a BARRACO S., Subcultura mafiosa e cultura siciliana. Cosa Nostra e la sua organizzazione: rituali, valori, strumenti e fini, tesi di laurea a.a. 2006-2007, Palermo.

[20]DE MAGLIE C., I reati culturalmente orientati cit., pp. 55 e ss.

[21]BASILE F., Premesse per uno studio sui rapporti tra diritto penale e società multiculturale. Uno sguardo alla giurisprudenza europea sui cd. reati culturalmente motivati, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, pp. 148 ss.

[22]Per le critiche che l’introduzione che tale disposizione normativa ha suscitato in dottrina si rinvia a FORNASARI, Mutilazioni genitali femminili e multiculturalismo: premesse per un discorso giuspenalistico, in BERNARDI - PASTORE - PUGIOTTO (A CURA DI), Legalità penale e crisi del diritto, 2008, p. 185. Invero, l’art. 583-bis codice penale non ha apportato nulla di più a quanto già previsto dall’art. 582 codice penale in tema di lesioni e dalle successive aggravanti previste dall’art. 583 codice penale oltretutto, ma la più attenta dottrina non ha mancato di evidenziare come la locuzione inserita nel secondo comma dell’art. 583-bis rischia di far rimanere la disposizione pressocché inapplicata in quanto è richiesto il dolo specifico al fine di menomare le funzioni sessuali. L’accertamento probatorio oltre ad essere difficilissimo e molto “labile in sede processuale” non rispecchia, neanche, la ratio del suo inserimento nel codice penale poiché, è senza ombra di dubbio, che la ragione predominante alla base di queste pratiche sia di matrice culturale. Sul tema, si consenta, si rinvia a DE MAGLIE C., Multiculturalismo (Dir. pen.), voce in Enc. giur. Sole 24 Ore, IX, 2007.

[23]APUZZO L., I reati culturalmente motivati, tesi di laurea, Luiss, Roma, a.a. 2016-2017, p. 42

[24]DE MAGLIE C., I reati culturalmente orientati cit., p.

[25]Ibidem.

[26] Il riferimento è al noto caso Bajarami, Cass., sez. VI, sent. 24.11.1999.

[27]FIANDACA G. – MUSCO E., Manuale di diritto penale. Parte Generale, ult. ed., 2020, p. 360 ss.

[28]DE MAGLIE C., op. cit., pag. 219.

[29]AMISANO, op. cit. , pag. 106.

[30]CAVAGGION, G., La cultural defense e il diritto alla cultura nello Stato costituzionale, in Oss. Cost., 2015, p.25 ss. https://www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/Cavaggion%202.2015_.pdf

[31]Ibidem.

[32]Ibidem.

[33]BETTIOL, G., Sul diritto penale cristiano, in Indice penale, 1980, 3, p. 465; l’espressione è ripresa anche da FERLA L., Percorsi delle cultural defense tra garanzie di legalità e richieste di riconoscimento delle identità culturali, tesi di dottorato, Milano, p. 176

[34]Tale definizione è stata adottata dal Canadian Commission for Unesco ed è confluita nel lavoro A working definition of “Culture” nel 1977.

[35]FERLA, L., op. cit., p. 177

[36]Il caso di cui si discorre, abbastanza celebre e ripreso anche da vari studiosi italiani, è Unite States vs. Kargar del 1993. A titolo esemplificativo si v. SORIO, C., I reati culturalmente motivati: la cultural defense in alcune sentenze statunitensi, in Stato, Chiese e Plur. Conf., 2008, pp.7 ss., in cui l’a. analizza il la condotta dell’imputato: la difesa, infatti, tentò di dimostrare come la condotta dell’imputato fosse conforme alla sua cultura afgana e come il comportamento incriminato costituisse un atteggiamento assolutamente comune per i padri di famiglia provenienti dal paese di Kargar. A tal fine vennero chiamati a testimoniare molti immigrati afgani, nonché un esperto di culture orientali dell’Università dell’Arizona, i quali confermano la liceità del comportamento dell’imputato nel suo paese d’origine.

[37]Si v. Cass., sez. III pen., sent. 29.01.2019, n. 29613, dep. 02.07.2018; Cass., sez. III pen., sent. 26.06.2007, n. 34909.

[38] Cass., sez. III pen., sent. 29.01.2018, n. 29613.

[39]Ibidem.

[40]GALLO, M., Dolo (dir. pen.), voce in Enc. dir., vol. XIII, 1964, p. 787; BRICOLA, F., Dolus in re ipsa. Osservazioni in tema di oggetto e di accertamento del dolo, 1960, in Scritti di diritto penale, Opere monografiche, 2000, p. 95 ss; sul punto vi ha dedicato un apposto spazio DE MAGLIE, C., op. cit., pp. 219 ss.

[41]Cass. pen., sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 22700, in Foro it., 2009, II, 592; Cass. pen., sez. VI, 26 novembre 2008, n. 46300, in Cass. pen., 2009, 3834

 

[42]La teoria realistica è, per l’appunto, quell’orientamento dottrinale che prevede, tra gli elementi essenziali del reato, il disvalore, ossia la conoscenza dell’offesa, enucleata dall’art. 49, c. 2, codice penale

[43] Cass., sez. III pen., sent. 29.01.2018, n. 29613

[44]ANNUNZI, G., I reati culturalmente motivati: tra cultura del singolo individuo e diritto penale, in Diritto e Consenso, 2020, https://www.dirittoconsenso.it/2020/02/24/reati-culturalmente-motivati-e-diritto-penale/

[45]La locuzione de qua indica un diritto di astrazione dottrinale che intende rappresentare non una violazione al sistema penale, quanto più la creazione di un altro diritto penale: quello del nemico. Si viene a formare, quindi, un diritto parallelo e separato rispetto a quello vigente. I due binari, sul piano dei diritti, esibiscono due livelli di garanzia diversa, perché si rivolgono a due categorie differenti di soggetti: il primo vige per il cittadino ordinario; il secondo, invece, risulta essere uno strumento da poter impiegare contro colui che si rilevi nemico all’interno di una data società. Sul punto, si v. il contributo di Filodiritto.it dal titolo Diritto penale del nemico: le fattispecie penali presenti nel codice penale. Il parallelismo tra diritto penale del nemico e cultural defense è, invece, prospettato da AMISANO M., op. cit., pp. 95 ss.;

Ancora, esso è stato oggetto di trattazione anche da parte di BRUNETTI, P., Diritto penale del nemico: una lettura critica dei presupposti filosofici, in Penale Dir. Proc., 2020, https://penaledp.it/diritto-penale-del-nemico-una-lettura-critica-dei-presupposti-filosofici/.

AMISANO M., L’uomo è la misura di tutte le cose, in Critica del diritto, 2014;

APUZZO L., I reati culturalmente motivati, tesi di laurea, Luiss, Roma, a.a. 2016-2017;

BARRACO S., Subcultura mafiosa e cultura siciliana. Cosa Nostra e la sua organizzazione: rituali, valori, strumenti e fini, tesi di laurea a.a. 2006-2007, Palermo;

BASILE F., Premesse per uno studio sui rapporti tra diritto penale e società multiculturale. Uno sguardo alla giurisprudenza europea sui cd. reati culturalmente motivati, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008;

BASILE, F., Immigrazione e reati ‘culturalmente motivati’. Il diritto penale nelle società multiculturali europee, Milano, 2008;

BASILE, F., Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati, in Riv. tel. Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2011;

BELLUCCI, L., I reati culturalmente motivati tra conflitti normativi e dimensione geopolitica: l’escissione come crime nella giurisprudenza francese, in Riv. Trim Quest. Giust., 2017;

BERNARDI, A., Modelli penali e società multiculturali, Torino, 2006;

BETTIOL G., Sul diritto penale cristiano, in Indice penale, 1980,;

BISOGNI, G., Introduzione a «Il multiculturalismo e le Corti», in Riv. Trim. Quest. Giust., 2017;

BRICOLA, F., Dolus in re ipsa. Osservazioni in tema di oggetto e di accertamento del dolo, 1960, in Scritti di diritto penale, Opere monografiche, 2000;

BRUNETTI, P., Diritto penale del nemico: una lettura critica dei presupposti filosofici, in Penale Dir. Proc., 2020;

CAVAGGION, G., La cultural defense e il diritto alla cultura nello Stato costituzionale, in Oss. Cost., 2015;

DE MAGLIE C., Multiculturalismo (Dir. pen.), voce in Enc. giur. Sole 24 Ore, IX, 2007;

DE MAGLIE, C., Multiculturalismo e diritto penale. Il caso americano, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2005;

DE MAGLIE, C., Società multiculturali e diritto penale: la cultural defense, in Scritti in onore di Marinucci, Milano, 2006;

ESPOSITO A., Le Cultural Defenses Statunitensi ed il rilievo del motivo culturale, in IusinItere, 2019;

FERLA L., I percorsi delle cultural defense tra garanzie di legalità e richieste di riconoscimento delle identità culturali, PDh, Milano, Ciclo XXII;

FERLA L., Percorsi delle cultural defense tra garanzie di legalità e richieste di riconoscimento delle identità culturali, tesi di dottorato, Milano;

FIANDACA G. – MUSCO E., Manuale di diritto penale. Parte Generale, ult. ed., 2020;

FORNASARI, Mutilazioni genitali femminili e multiculturalismo: premesse per un discorso giuspenalistico, in BERNARDI - PASTORE - PUGIOTTO (A CURA DI), Legalità penale e crisi del diritto, 2008;

GALLO, M., Dolo (dir. pen.), voce in Enc. dir., vol. XIII, 1964;

GRANDI, C., Diritto penale e società multiculturale: stato dell’arte e prospettive de iure condendo, in Ind. Pen. 2007;

PALORALI P., Note a margine a FLOBETS M.C. - RENTEL DUNDENS A., Multicultural Jurisprudence. Comparatives perspective on the cultural defense, in Dir. Quest. Pubbl., 2020;

PAPA M., Il diritto penale dell’Europa e la presenza delle comunità islamiche, in CANESTRARI S. – FOFFANI L. (A CURA DI), Il diritto penale nella prospettiva europea. Quali politiche criminali per quale Europa?, 2005;

PASTORE, B.- LANZA, L., Multiculturalismo e giurisdizione penale, Torino, 2008;

SARTORI G., Pluralismo multiculturalismo ed estranei. Saggio sulla società multietnica, 2007;

SORIO, C., I reati culturalmente motivati: la cultural defense in alcune sentenze statunitensi, in Stato, Chiese e Plur. Conf., 2008;

SORIO, C., I reati culturalmente motivati: la cultural defense in alcune sentenze statunitensi, in Stato, Chiese e Plur. Conf., 2008.