C’è continuità normativa tra millantato credito e traffico di influenze illecite?
C’è continuità normativa tra millantato credito e traffico di influenze illecite?
La parola alle Sezioni Unite
Abstract
Una recente pronuncia si è interrogata sull’eventuale sussistenza di continuità normativa tra l’abrogata fattispecie di millantato credito, nella quale la dazione era effettuata con il pretesto di remunerare il pubblico ufficiale, e l’attuale norma che punisce il traffico di influenze illecite. Spetterà alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione risolvere il contrasto giurisprudenziale.
1. La questione proposta all’attenzione delle Sezioni Unite
L’ordinanza Cass. pen., sez. II, n. 31478/2023 ha recentemente sottoposto all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione una questione in tema di continuità normativa tra fattispecie, domandando se «sussista continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, c. 2 c.p., abrogato dall’art. 1, c. 2, lett. s), l. 9 gennaio 2019, n. 3, e quello di traffico di influenze illecite di cui al novellato art. 346-bis c.p.».
Per meglio comprendere la questione è preliminarmente necessario analizzare le fattispecie in una prospettiva storica, avendo particolare riguardo all’evoluzione normativa che queste hanno subito nel tempo.
2.1. L’evoluzione della normativa: la versione originaria dell’art. 346 c.p.
L’art. 346 c.p., nella sua versione originaria, prevedeva il reato di millantato credito, incriminando le condotte di coloro che, millantando un credito inesistente presso un pubblico ufficiale o un pubblico ufficiale che presti un pubblico servizio, ricevono, si fanno dare o si fanno promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato.
L’art. 346, c. 2 c.p. si differenziava rispetto al primo comma, tra l’altro, da un punto di vista della descrizione della condotta: se nel primo comma lo scopo della dazione è la remunerazione del soggetto “mediatore” (o quanto meno che si propone come tale, essendo carattere essenziale della norma il fatto che la relazione con il pubblico ufficiale è meramente vantata), nel secondo comma la ricezione del denaro avviene «col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare».
La differenza tra il primo e il secondo comma non risiedeva solo nel diverso scopo della dazione, ma anche nella diversa risposta sanzionatoria prevista dal legislatore: il primo comma presentava una sanzione, sia della reclusione, sia della multa, meno grave rispetto a quella prevista dal secondo comma. La ratio di tale differenza poteva essere individuata nel fatto che la condotta di colui che corrispondeva il denaro col pretesto di comprare il favore del pubblico ufficiale si proponeva di comprare la funzione pubblica e non semplicemente di retribuire il mediatore.
La norma delineava un reato comune, potendo essere commesso da qualunque soggetto, in armonia con la collocazione sistematica della fattispecie all’interno dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione.
Si trattava di un reato a concorso necessario improprio, in ragione del fatto che non era prevista alcuna sanzione per colui che acquistava la mediazione illecita.
La fattispecie era descritta come un reato a schema alternativo, essendo sufficiente alternativamente la ricezione o la semplice promessa di denaro (o di altra utilità) al fine della consumazione del reato.
È importante ricordare che l’art. 346 c.p. puniva esclusivamente colui che vantava relazioni inesistenti. Si era sviluppato, però, nel tempo un orientamento giurisprudenziale che ascriveva all’interno del dettato dell’art. 346 c.p. non solo la condotta di chi vantava relazioni inesistenti, ma anche quella di colui che vantava relazioni e influenze concretamente esistenti. Forzando il dato letterale della disposizione di legge, parte della giurisprudenza applicava l’art. 346 c.p. non solo ai millantatori, ma anche a coloro che vantavano relazioni esistenti, i quali concretamente potevano con il loro comportamento arrivare a danneggiare la pubblica amministrazione.
2.2. L’introduzione del reato di traffico di influenze illecite
Con la legge 190/2012 il legislatore ha affiancato al reato di millantato credito la nuova fattispecie rubricata “traffico di influenze illecite”, incriminando le condotte dei mediatori che vantano relazioni esistenti. La ratio della nuova norma era quella di punire condotte prodromiche alla corruzione. La nuova fattispecie si differenzia rispetto all’art. 346 c.p. in relazione ai soggetti incriminati: il traffico di influenze illecite è un reato plurisoggettivo proprio, essendo sanzionata non solo la condotta del mediatore, ma anche quella di colui che acquista l’influenza illecita. L’estensione trova la propria ragione nel fatto che colui che acquista l’influenza non è un soggetto meramente ingannato, ma può potenzialmente con la propria condotta raggiungere il pubblico ufficiale e, di conseguenza, alterare la funzionalità e il buon andamento della pubblica amministrazione.
Immediatamente dopo l’inserimento della nuova fattispecie sorse un problema relativo alla cornice sanzionatoria: l’art. 346 c.p. era punito con una sanzione maggiore rispetto a quella prevista dall’art. 346-bis c.p., con il paradossale risultato che coloro che potenzialmente potevano davvero ledere gli interessi della pubblica amministrazione erano puniti con una sanzione inferiore rispetto a coloro che non potevano materialmente esercitare alcuna influenza sul pubblico ufficiale.
2.3. La riforma del 2019
Con la legge 3/2019 il legislatore interviene nuovamente sulle fattispecie in questione, abrogando l’art. 346 c.p. e modificando il dettato dell’art. 346-bis c.p., che oggi punisce sia colui che vanta relazioni inesistenti, sia colui che vanta relazioni esistenti. In ogni caso la norma punisce colui che corrisponde il corrispettivo per l’illecita influenza, senza più prevedere diverse cornici sanzionatorie in relazione allo scopo per il quale l’utilità è stata versata, come avveniva in relazione al reato di millantato credito.
In ogni caso il traffico di influenze illecite si configura come un reato plurisoggettivo proprio, essendo punite entrambe le parti dell’accordo volto alla mediazione verso il pubblico ufficiale.
La risposta sanzionatoria è stata innalzata, realizzandosi una modifica in pejus non applicabile retroattivamente.
Rispetto alla precedente fattispecie di cui all’art. 346-bis c.p., la riforma del 2019 ampia la nozione di vantaggio, non limitandosi più a richiedere un vantaggio patrimoniale, ma prevedendo la punibilità della condotta anche quando ad essere corrisposta sia una generica “altra utilità”.
3.1. I termini del contrasto giurisprudenziale
Tanto chiarito in merito all’evoluzione storica della fattispecie, è possibile prendere nuovamente in considerazione la questione sottoposta dalla Seconda Sezione della Corte di Cassazione alle Sezioni Unite, relativa alla sussistenza di una continuità normativa tra la fattispecie dell’art. 346, c. 2 c.p. e il nuovo art. 346-bis c.p.
Nella propria ordinanza la sezione rimettente specifica che vi siano due diversi orientamenti nella giurisprudenza di legittimità, senza prendere posizione a favore dell’uno o dell’altro.
3.2. L’orientamento che afferma la continuità normativa
Un primo orientamento, espresso dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione, afferma la sussistenza della continuità normativa tra l’art. 346, c. 2 c.p. e l’art. 346-bis c.p., come modificato dalla legge 3/2019.
In particolare, tale tesi prende le mosse dal fatto che il legislatore ha scelto di riformare l’art. 346-bis c.p. inglobandovi la condotta già prevista dall’art. 346 c.p. in attuazione di obblighi di fonte sovranazionale, equiparando sul piano della risposta sanzionatoria la mera vanteria di una relazione inesistente con la rappresentazione di una relazione concretamente esistente anche al fine di superare le difficoltà di individuare con precisione i confini tra la fattispecie di millantato credito e quella di traffico di influenze illecite.
L’orientamento in esame ritiene sussistente la continuità normativa tra le due considerate fattispecie, ritenendo sostanzialmente sovrapponibili «tanto la condotta “strumentale” (stante l'equipollenza semantica fra le espressioni “sfruttando o vantando relazioni (...) asserite” e quella “millantando credito”), quanto la condotta “principale” di ricezione o di promessa, per sé o per altri, di denaro o altra utilità».
Ammettendo la continuità normativa tra le due fattispecie si può ritenere che nel caso concreto ci si trovi di fronte a un’ipotesi di abrogatio sine abolitione, avendo il legislatore abrogato la norma incriminatrice senza, al contempo, abolire il reato.
3.3. L’orientamento che nega la continuità normativa
L’orientamento che nega la continuità normativa, anch’esso espresso dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione, si concentra in particolar modo sull’ipotesi dell’art. 346, c. 2 c.p., precisando che la condotta descritta da tale fattispecie, che era considerata autonoma, consisteva in una forma di raggiro nei confronti del soggetto passivo, idonea ad assorbire il delitto di truffa. Un simile dato emergerebbe, in particolare dall’utilizzo del termine “pretesto”, il quale lascerebbe intendere la sussistenza di una condotta idonea a ingenerare nella vittima la rappresentazione di una falsa causa contrattuale. Così ragionando, l’art. 346 c.p. non sarebbe stato specificamente volto a tutelare la pubblica amministrazione, quanto il patrimonio della vittima del reato.
La Sezione rimettente elenca, inoltre, alcuni dati dai quali desumere una discontinuità tra le nuova fattispecie di cui all’art. 346-bis c.p. e l’abrogato art. 346, c. 2 c.p.:
- il nuovo art. 346-bis c.p. è volto ad anticipare la soglia di punibilità rispetto a condotte prodromiche alla corruzione, nella prospettiva di tutelare gli interessi della pubblica amministrazione; in questa ottica, mal si concilia la vecchia previsione dell’art. 346, c. 2 c.p., nella quale, come in precedenza ricordato, il bene giuridico tutelato era il patrimonio del soggetto passivo del reato;
- la previsione di una sanzione anche per il soggetto assimilabile ad un truffato nel nuovo art. 346-bis c.p. non si pone perfettamente in linea con la vecchia previsione del millantato credito, che non incriminava tale soggetto, che era considerato vittima del reato;
- la mancata riproposizione del termine “pretesto”, che era considerato idoneo a fondare il carattere autonomo della fattispecie descritta dal comma 2 sarebbe sufficiente ad escludere la continuità normativa tra le fattispecie;
- deve, infine, escludersi la continuità normativa tra la fattispecie di cui all’art. 346, c. 2 c.p. e il nuovo art. 346-bis c.p. nella parte in cui punisce il faccendiere che sfruttando o vantando relazioni inesistenti si fa dare indebitamente denaro o altra utilità per remunerare l’agente pubblico; allorché tale condotta sia realizzata mediante artifici o raggiri, per mezzo dei quali la vittima del reato sia portata a versare il denaro (o l’altra utilità) dovrà configurarsi il delitto di truffa di cui all’art. 640 c.p.
4. Conclusioni
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state chiamate a risolvere il considerato contrasto, ma dovranno anche tenere in considerazione il fatto il legislatore sta attualmente discutendo nuove modifiche all’art. 346-bis c.p., volte a sterilizzare le modifiche apportate dalla legge 3/2019. In particolare il d.d.l. n. 808, attualmente in discussione presso la Commissione Giustizia del Senato, propone di eliminare l’incriminazione della vanteria di relazioni inesistenti, condotta che potrebbe finire per essere punita, in presenza dei necessari elementi costitutivi, a titolo di truffa.
L’orientamento che nega la continuità normativa tra le due considerate fattispecie merita di trovare accoglimento, in quanto maggiormente idoneo a esprimere le specificità della singola fattispecie.
Inoltre, non si può mancare di sottolineare come tale orientamento risulti più aderente al principio di legalità, in quanto capace di evitare confusione tra fattispecie diverse e di adeguare al meglio la risposta sanzionatoria, facendo sì che non siano chiamati a rispondere penalmente soggetti che con la propria condotta non hanno neppure leso il bene giuridico che il legislatore si era proposto di tutelare, determinandosi altrimenti una palese violazione dei principi fondamentali che reggono il diritto penale.