Luci ed ombre del femminicidio
Dall’inglese “Femicide” (uccisione di una donna) il termine femminicidio venne utilizzato nei primi anni ‘90 dalla criminologa Diana Russel e dall’antropologa messicana Marcela Lagarde, le quali, identificando il femminicidio in una categoria criminologica vera e propria, ne delineavano gli elementi caratterizzanti nella forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine - maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale - che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa.
Una forma, dunque, di discriminazione e violenza mirata a violare la donna fino ad annientarla nella sua sfera di integrità psicofisica.
Il femminicidio, nel suo essere un fenomeno globale e trasversale, interessa, quale violenza brutale, tutte le classi sociali ed ha come comune denominatore il nucleo base della comunità e della famiglia.
I continui episodi di cronaca e la conseguente eco mediatica hanno originato discussioni circa la necessità di un intervento legislativo mirato ad arginare ed a contrastare l’escalation criminosa
Nell’ottobre del 2012 alcune parlamentari hanno proposto una riforma della legge penale volta ad introdurre l’aggravante del “femminicidio” determinata dall’uccisione della donna per ragioni di “genere”; in particolare ne hanno promosso l’istituzione come reato “specifico”, distinto dall’omicidio “generico”.
Tale proposta di legge, ispirata dal dato che la violenza sulla donna, soprattutto nell’ambito domestico, costituisce una realtà statisticamente provata - che si manifesta nella negazione della personalità delle donne e nell’affermazione del dominio maschile su di loro - prevede come punti di forza la pena dell’ergastolo per chi uccide una donna nonché l’introduzione del delitto di “matrimonio forzato” con limiti edittali da uno a cinque anni di reclusione per chi costringe una donna con violenze e minacce a sposarsi contro la sua volontà.
Se dal punto di vista criminologico, la ratio e il presupposto della proposta di legge sono senz’altro veritieri, atteso che quest’ultima introdurrebbe una fattispecie specifica atta ad arginare la violenza domestica e la volontà di esercitare potere e controllo sulle donne, dal punto di vista giuridico, tuttavia, il fatto che un crimine contro la donna possa essere punito più gravemente che lo stesso crimine commesso verso l’uomo, risulta una violazione del principio dell’uguaglianza costituzionalmente garantito.
Nonostante, quindi, la rilevanza dei contenuti e la pressione mediatica legati al fenomeno del “femminicidio”, insiste, nell’ordinamento italiano il principio della piena equiparazione giuridica, non potendo, di converso, la natura particolare della vittima assurgere a criterio discriminatorio tra l’uomo e la donna in violazione dell’articolo 3 della Costituzione. L’uguaglianza davanti alla legge afferisce, infatti, anche alla tutela destinata dall’ordinamento ai cittadini; con la riforma del diritto di famiglia (L.151/75) e con l’abolizione delle disposizioni del delitto d’onore (L.442/81) l’ordinamento italiano ha sancito la parità tra l’uomo e la donna e il conseguente divieto di discriminazione nei confronti di quest’ultima. Diversamente necessiterebbe una conseguente previsione normativa qualora le stesse modalità di violenza o uccisione venissero perpetrate da una donna ai danni di un uomo. La legge, in un Paese democratico, garantisce le regole di una giustizia uguale per tutto il genere umano, senza alcuna distinzione di sesso.
Emblematica la volontà manifestata nell’art. 575 del Codice Penale, di punire “chiunque cagiona la morte di un uomo …” e dalla relativa aggravante prevista nell’art. 577 co.2, nell’art. 609 bis c.p. di non porre alcuna distinzione di sesso sia nei soggetti attivi sia nei soggetti titolari dei beni giuridici tutelati. L’onnicomprensività dei termini adoperati dal legislatore, la possibilità di imputare tali fattispecie criminose a qualunque soggetto, garantisce la suindicata tutela, rendendo ultronea qualsiasi altra previsione legata al concetto di “genere”.
La violenza cresce e si alimenta, nella maggior parte dei casi, tra le mura domestiche, intessendo rapporti personali che spesso si dimostrano malati. L’uomo, nelle vesti di marito, fidanzato, ex compagno e comunque privo di ogni freno inibitorio non scaglia il proprio odio e la propria brutalità verso la donna “in quanto donna” ma verso la moglie, la fidanzata o ex compagna che, ai suoi occhi, rappresenta la causa del suo turbamento o l’epilogo della sua ossessione. L’intervento di uno Stato civile, dunque, dovrebbe essere proiettato sui segnali, sulle spie dei comportamenti violenti che devono rappresentare campanelli d’allarme della violenza omicida. Tale operazione dovrebbe essere improntata alla pronta attivazione ed ai tempestivi interventi in difesa dell’incolumità delle donne che denunciano violenze e lesioni, all’emanazioni di provvedimenti più severi contro le aggressioni tout-court, alla predisposizione di centri antiviolenza e case di protezione ed alla divulgazione dell’esistenza degli obblighi di allontanamento civili, anche in ottemperanza ed in attuazione dei principi stabiliti dalla Corte Europea dei Diritti Umani in materia di violenza sulle donne e della Convenzione Internazionale per la eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (CESAW), adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 18 dicembre del 1979 e ratificata dall’Italia nel 1985.
Infatti, la suindicata Convenzione rappresenta il principale quadro normativo di riferimento per l’implementazione di politiche, programmi e misure volte a garantire la parità di genere in tutti gli ambiti della vita.
In un’attuale situazione di emergenza e di denuncia sociale si inserisce il neologismo “femminicidio”, coniato in occasione della strage delle donne di Ciudad Juarez (città al confine tra Messico e Stati Uniti) ed adottato dalle donne centroamericane per veder riconosciuti e rispettati i propri diritti umani, in particolare quello ad una vita libera da qualsiasi forma di violenza.Dall’inglese “Femicide” (uccisione di una donna) il termine femminicidio venne utilizzato nei primi anni ‘90 dalla criminologa Diana Russel e dall’antropologa messicana Marcela Lagarde, le quali, identificando il femminicidio in una categoria criminologica vera e propria, ne delineavano gli elementi caratterizzanti nella forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine - maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale - che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa.
Una forma, dunque, di discriminazione e violenza mirata a violare la donna fino ad annientarla nella sua sfera di integrità psicofisica.
Il femminicidio, nel suo essere un fenomeno globale e trasversale, interessa, quale violenza brutale, tutte le classi sociali ed ha come comune denominatore il nucleo base della comunità e della famiglia.
I continui episodi di cronaca e la conseguente eco mediatica hanno originato discussioni circa la necessità di un intervento legislativo mirato ad arginare ed a contrastare l’escalation criminosa
Nell’ottobre del 2012 alcune parlamentari hanno proposto una riforma della legge penale volta ad introdurre l’aggravante del “femminicidio” determinata dall’uccisione della donna per ragioni di “genere”; in particolare ne hanno promosso l’istituzione come reato “specifico”, distinto dall’omicidio “generico”.
Tale proposta di legge, ispirata dal dato che la violenza sulla donna, soprattutto nell’ambito domestico, costituisce una realtà statisticamente provata - che si manifesta nella negazione della personalità delle donne e nell’affermazione del dominio maschile su di loro - prevede come punti di forza la pena dell’ergastolo per chi uccide una donna nonché l’introduzione del delitto di “matrimonio forzato” con limiti edittali da uno a cinque anni di reclusione per chi costringe una donna con violenze e minacce a sposarsi contro la sua volontà.
Se dal punto di vista criminologico, la ratio e il presupposto della proposta di legge sono senz’altro veritieri, atteso che quest’ultima introdurrebbe una fattispecie specifica atta ad arginare la violenza domestica e la volontà di esercitare potere e controllo sulle donne, dal punto di vista giuridico, tuttavia, il fatto che un crimine contro la donna possa essere punito più gravemente che lo stesso crimine commesso verso l’uomo, risulta una violazione del principio dell’uguaglianza costituzionalmente garantito.
Nonostante, quindi, la rilevanza dei contenuti e la pressione mediatica legati al fenomeno del “femminicidio”, insiste, nell’ordinamento italiano il principio della piena equiparazione giuridica, non potendo, di converso, la natura particolare della vittima assurgere a criterio discriminatorio tra l’uomo e la donna in violazione dell’articolo 3 della Costituzione. L’uguaglianza davanti alla legge afferisce, infatti, anche alla tutela destinata dall’ordinamento ai cittadini; con la riforma del diritto di famiglia (L.151/75) e con l’abolizione delle disposizioni del delitto d’onore (L.442/81) l’ordinamento italiano ha sancito la parità tra l’uomo e la donna e il conseguente divieto di discriminazione nei confronti di quest’ultima. Diversamente necessiterebbe una conseguente previsione normativa qualora le stesse modalità di violenza o uccisione venissero perpetrate da una donna ai danni di un uomo. La legge, in un Paese democratico, garantisce le regole di una giustizia uguale per tutto il genere umano, senza alcuna distinzione di sesso.
Emblematica la volontà manifestata nell’art. 575 del Codice Penale, di punire “chiunque cagiona la morte di un uomo …” e dalla relativa aggravante prevista nell’art. 577 co.2, nell’art. 609 bis c.p. di non porre alcuna distinzione di sesso sia nei soggetti attivi sia nei soggetti titolari dei beni giuridici tutelati. L’onnicomprensività dei termini adoperati dal legislatore, la possibilità di imputare tali fattispecie criminose a qualunque soggetto, garantisce la suindicata tutela, rendendo ultronea qualsiasi altra previsione legata al concetto di “genere”.
La violenza cresce e si alimenta, nella maggior parte dei casi, tra le mura domestiche, intessendo rapporti personali che spesso si dimostrano malati. L’uomo, nelle vesti di marito, fidanzato, ex compagno e comunque privo di ogni freno inibitorio non scaglia il proprio odio e la propria brutalità verso la donna “in quanto donna” ma verso la moglie, la fidanzata o ex compagna che, ai suoi occhi, rappresenta la causa del suo turbamento o l’epilogo della sua ossessione. L’intervento di uno Stato civile, dunque, dovrebbe essere proiettato sui segnali, sulle spie dei comportamenti violenti che devono rappresentare campanelli d’allarme della violenza omicida. Tale operazione dovrebbe essere improntata alla pronta attivazione ed ai tempestivi interventi in difesa dell’incolumità delle donne che denunciano violenze e lesioni, all’emanazioni di provvedimenti più severi contro le aggressioni tout-court, alla predisposizione di centri antiviolenza e case di protezione ed alla divulgazione dell’esistenza degli obblighi di allontanamento civili, anche in ottemperanza ed in attuazione dei principi stabiliti dalla Corte Europea dei Diritti Umani in materia di violenza sulle donne e della Convenzione Internazionale per la eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (CESAW), adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 18 dicembre del 1979 e ratificata dall’Italia nel 1985.
Infatti, la suindicata Convenzione rappresenta il principale quadro normativo di riferimento per l’implementazione di politiche, programmi e misure volte a garantire la parità di genere in tutti gli ambiti della vita.