Normativa anti incendio e amministratori pubblici: molti processi, nessuna condanna
Da anni il legislatore italiano impone progressivamente standard sempre più alti in materia di sicurezza negli edifici: altezze minime dei parapetti, accessibilità ai mezzi di soccorso, dotazione di presidi anti incendio eccetera.
Tale tendenza alla modernizzazione degli edifici, certamente apprezzabile in quanto fornisce una maggior tutela ad ogni cittadino, si scontra tuttavia con la realtà italiana, in cui gli edifici pubblici non sono quasi mai di recente costruzione, e quindi non sono adeguati dall’origine agli standard attuali.
Anche senza prendere in considerazione i palazzi antichi, basta volgere lo sguardo a tribunali, ospedali e scuole, edifici costruiti in gran parte tra il 1920 e il 1960, per accorgersi che la quasi totalità di questo tipo di strutture, nel nostro paese, non risulta a norma di legge.
In questo scenario, gli amministratori pubblici si trovano sempre più spesso a essere sottoposti a procedimenti penali per non avere adeguato gli edifici che amministrano alle norme di sicurezza, in quanto la legislazione delinea spesso una loro responsabilità oggettiva per tali carenze.
Un tipico esempio è costituito dall’obbligo, per una serie di attività produttive, ma anche – per esempio – per le scuole, di dotarsi del Certificato Prevenzione Incendi, ossia di un attestato di conformità normativa che viene rilasciato dai Vigili del Fuoco a seguito della dotazione di tutti i presidi richiesti dal legislatore.
Di fatto, la maggior parte degli edifici pubblici sono sprovvisti di tale certificato, e nella maggior parte dei casi ciò è dovuto alla semplice ragione che tali immobili (tribunali, scuole, ospedali) sono stati costruiti ben prima dell’intervento normativo che impone di dotarsi di un Certificato Prevenzione Incendi.
Ciò che il legislatore non ha considerato è che gli amministratori pubblici non sono in grado di eseguire i lavori di adeguamento e ottenere il Certificato Prevenzione Incendi in tempo per non incorrere nella sanzione penale connessa alla sua mancanza, oppure per ottenerli del tutto.
Spesso tale impossibilità è dovuta alla lentezza delle procedure delineate nel codice degli appalti, che impone di procedere attraverso bandi o concorsi per individuare un operatore che esegua i lavori di ammodernamento, per poi sottoporre il progetto ai Vigili del Fuoco, eventualmente recepirne le osservazioni ed infine ottenere il Certificato.
Ancor più frequentemente si pone l’ostacolo economico: gli enti pubblici, in genere, non dispongono delle risorse economiche per procedere agli ammodernamenti necessari e per farlo devono chiedere e ottenere sovvenzioni dallo Stato o dagli enti locali.
Non c’è bisogno di aggiungere che se lo Stato, le Regioni e i Comuni erogassero contemporaneamente i fondi necessari per ogni edificio pubblico che necessita di adeguarsi alla normativa anti incendio, le casse pubbliche verrebbero irrimediabilmente prosciugate.
Il cortocircuito tra una legislazione che pone sanzioni penali in capo a chi non si adegua (o non si è ancora adeguato) ai migliori standard di sicurezza e l’oggettiva impossibilità a provvedere dei soggetti individuati quali responsabili emerge in modo lampante da una recente vicenda giudiziaria.
I lineamenti della norma penale e la sua applicazione
Il Decreto Legislativo 139/2006 con la “disciplina, competenze e attività del Corpo Nazionale Vigili del Fuoco” stabilisce che le principali funzioni che il legislatore attribuisce al Corpo vi è il rilascio del Certificato Prevenzione Incendi (CPI, articolo 16), documento il cui possesso viene richiesto ad una serie di attività considerate particolarmente rischiose sotto il profilo del pericolo di incendio.
Le attività per cui viene richiesto il CPI sono quelle soggette alle visite e ai controlli di prevenzione incendi elencate da un apposito regolamento attuativo, adottato con il d.p.r. 151/2011.
L’allegato I a tale regolamento individua ben ottanta voci, corrispondenti ad altrettante tipologie di attività, divise in tre categorie (A, B e C) a seconda del grado di rischio attribuito.
Le attività soggette a visite e controlli, nonché all’obbligo di richiesta di CPI, rappresentano dunque un elenco assai lungo ma anche eterogeneo, poiché comprensivo – ad esempio – di stabilimenti per la produzione di gas infiammabili e di energia nucleare, passando per fabbriche di vario genere, agli alberghi, fino ad arrivare alle scuole, alle strutture sanitarie e agli edifici destinati ad uso civile con altezza antincendio superiore a 24 m.
Tutte le attività individuate richiedono, quando vengono iniziate, una apposita Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA) contenente istanza di rilascio di un Certificato di Prevenzione Incendi.
Entro sessanta giorni dall’istanza, il Comando competente effettua controlli volti ad attestare la conformità antincendio, ossia la presenza dei presidi prescritti dalla legge, e rilascia copia del verbale di tale visita (categorie A e B) o il richiesto CPI (categoria C).
Una volta attestata la conformità antincendio, questa ha durata quinquennale (o decennale per alcune attività), alla cui scadenza viene prescritto di richiedere al Comando competente il rinnovo dell’attestazione o del CPI (articolo 5 d.p.r. 151/2011).
L’articolo 20 del Decreto Legislativo 139/2006, la cui ultima modifica legislativa è intervenuta con l’articolo 3, co. 8 Decreto Legislativo 97/2017, stabilisce che i soggetti titolari delle attività considerate pericolose sono penalmente sanzionabili qualora non tengano le condotte sopra descritte, ossia:
- quando l’attività deve essere iniziata, omettano di presentare al Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco territorialmente competente richiesta di rilascio del CPI tramite SCIA, oppure
- quando l’attività è già stata certificata come conforme, omettano di richiedere a detto Comando dei Vigili del Fuoco il rinnovo periodico della conformità antincendio.
In sostanza la norma descrive un reato proprio a condotta omissiva alternativa, che viene sanzionato con l’arresto sino ad un anno o con l’ammenda sino a 2.582 euro.
Focalizzando l’attenzione sull’ipotesi in cui un’attività non sia mai stata sottoposta a un positivo controllo di conformità antincendio, l’adempimento che viene richiesto al titolare è la presentazione di una SCIA, così da consentire ai Vigili del Fuoco di effettuare gli appositi controlli e rilasciare il CPI.
Il termine per la presentazione della SCIA è fissato dallo stesso d.p.r. 151/2011, all’articolo 4: “prima dell’inizio dell’attività” o “quando vi sono modifiche di lavorazioni o di strutture, nei casi di nuova destinazione dei locali o di variazioni qualitative e quantitative delle sostanze pericolose esistenti negli stabilimenti o depositi e ogni qualvolta sopraggiunga una modifica delle condizioni di sicurezza precedentemente accertate”.
La giurisprudenza del Tribunale di Milano: i giudici meneghini circoscrivono la condotta punibile
Le pronunce espresse dal Tribunale di Milano nei confronti dei dirigenti di una nota azienda pubblica che gestisce l’edilizia popolare nel capoluogo lombardo offrono una interessante casistica dell’applicazione dell’articolo 20 Decreto Legislativo 139/2006.
In particolare, il Tribunale di Milano, dal 2019 ad oggi, è stato chiamato a esprimersi per ben sei volte sulla responsabilità del legale rappresentante di tale azienda.
Il vastissimo compendio immobiliare di cui l’ente in questione è proprietaria è stato costruito in massima parte prima dell’entrata in vigore della normativa in esame, quindi, al sorgere dell’obbligo di dotare gli edifici destinati a civile abitazione di altezza superiore a 24 metri di Certificato Prevenzione Incendi, quasi tutti i suoi complessi residenziali sono risultati fuori norma.
Dinanzi alla necessità di fronteggiare la situazione di irregolarità sul piano del rispetto della normativa antincendio, l’ente aveva attivato una ricognizione del proprio patrimonio immobiliare, dal quale è risultato che circa 200 dei suoi complessi immobiliari, nel 2011, risultavano carenti di Certificato Prevenzione Incendi.
Successivamente, l’azienda, essendo un ente pubblico interamente controllato dalla Regione Lombardia, si è attivata, attraverso i suoi dirigenti, per reperire i fondi necessari agli interventi di adeguamento indispensabili per ottenere il CPI.
Essendo l’enorme compendio immobiliare in questione destinato ad abitazioni per famiglie a basso reddito, infatti, i canoni calmierati provenienti dagli inquilini non risultano neanche sufficienti a effettuare la manutenzione ordinaria, e a maggior ragione non bastano a far fronte agli interventi straordinari su immobili peraltro spesso afflitti da vandalismo e morosità.
Nelle more dell’erogazione dei finanziamenti e, successivamente, dei bandi di appalto e dell’esecuzione dei lavori, il vastissimo patrimonio immobiliare dell’ente risultava quindi (e risulta tuttora) in gran parte e inevitabilmente sprovvisto di CPI.
Di conseguenza, ogni volta che i Vigili del fuoco, per qualsiasi motivo, sono intervenuti in un appartamento di proprietà dell’ente, hanno rilevato (e continuano a rilevare) la mancanza di Certificato Prevenzione Incendi nell’edificio.
Conseguentemente, gli operanti segnalano tale mancanza alla Procura, la quale esercita in modo automatico l’azione penale nei confronti del Direttore Generale per la violazione del già citato articolo 20, co. 1, che recita: “Chiunque, in qualità di titolare di una delle attività soggette ai controlli di prevenzione incendi, ometta di presentare la segnalazione certificata di inizio attività o la richiesta di rinnovo periodico della conformità antincendio è punito con l’arresto sino ad un anno o con l’ammenda da 258 a 2.582 euro, quando si tratta di attività che comportano la detenzione e l’impiego di prodotti infiammabili, incendiabili ed esplodenti, da cui derivano in caso di incendio gravi pericoli per l’incolumità della vita e dei beni”.
Come risultato di tale situazione, il Tribunale di Milano è stato ripetutamente chiamato a pronunciarsi sulla medesima condotta che veniva ascritta al Direttore Generale dell’ente (ossia la persona che rivestiva tale ruolo al momento dell’accertamento) il quale, come detto, ha subito sei procedimenti penali in soli due anni, tutti conclusi con sentenza di assoluzione nel merito:
- Sentenza 9588/2019, dott. Cotta, sez. XI, assoluzione perché il fatto non sussiste;
- Sentenza 11584/19, dott.ssa Canevini, sez. IX, assoluzione perché il fatto non sussiste;
- Sentenza 965/2020, dott. Varanelli, sez. III, assoluzione perché il fatto non sussiste;
- Sentenza 5567/2020, dott. Caramellino, sez. VI, assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato;
- Sentenza 25/2021, dott.ssa Filiciotto, sez. IV, assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato;
- Sentenza 1763/2021, dott.ssa Santini, sez. I, assoluzione perché il fatto non costituisce reato.
L’argomento utilizzato dai giudici per escludere la punibilità del Direttore Generale dell’ente, nonostante l’ampia varietà di formule assolutorie utilizzate, si riduce generalmente all’inesigibilità di un comportamento diverso da quello tenuto dall’imputato e all’impossibilità di formulare un giudizio di rimproverabilità della sua condotta, neanche a titolo di colpa.
In sostanza, quindi, ciò che è stato costantemente riconosciuto all’amministratore pubblico, pur nell’inevitabile assenza del Certificato Prevenzione Incendi che la legge individua come sufficiente condizione di punibilità, è la carenza dell’elemento soggettivo (il dolo o la colpa), che la teoria generale del reato (basandosi sul dettato dell’articolo 27 della Costituzione) reputa pur sempre imprescindibile per irrogare la condanna.
Ciò in quanto, come si è detto, l’imputato aveva fin dal suo insediamento cercato di attivare tutti i canali a sua disposizione per reperire le risorse indispensabili ad ottenere il Certificato Prevenzione Incendi, pur senza riuscirvi.
Non sfugge che la “valvola di sicurezza” rappresentata dalla possibilità di dimostrare di aver fatto tutto quanto in proprio potere – ossia di non avere colpa – consente al dirigente pubblico di andare esente da pena, ma lo espone comunque al rischio concreto di subire un procedimento penale (nel caso di specie a sei procedimenti).
Due delle pronunce, tuttavia, utilizzano una particolare e diversa formula assolutoria, accertando che “il fatto non è previsto dalla legge come reato”. Con tale espressione il giudice ha basato assoluzione non sull’assenza di colpa, bensì sul presupposto che la condotta addebitata all’imputato fosse irrilevante, in nuce, sotto il profilo oggettivo, in quanto non rientrante nella fattispecie incriminatrice descritta dalla norma.
Merita particolare attenzione, anche per la chiarezza e la completezza che caratterizzano le argomentazioni dell’estensore, la sentenza n. 5567 del 19.4.2019.
In tale pronuncia il giudice, infatti, afferma espressamente che un’interpretazione rispettosa del principio di tassatività impone di restringere la portata applicativa della sanzione penale alle sole omissioni commesse dopo l’entrata in vigore della legge nella sua formulazione attuale.
Come si è detto, l’ultimo intervento legislativo che ha modificato l’articolo 20 Decreto Legislativo 139/2006 si rinviene nell’articolo 3, co. 8 Decreto Legislativo 29 maggio 2017, n. 97, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 23.6.2017, e dunque vigente dal giorno 8.7.2017.
In sostanza, poiché l’edificio pubblico in esame era pacificamente destinato ad uso abitativo da data anteriore all’8.7.2017, tale situazione non poteva essere fatta rientrare tra quelle sanzionate dalla norma individuata dalla Procura di Milano.
Viene infatti osservato che “a diversamente interpretare la norma incriminatrice, si sarebbe conseguito l’effetto irragionevole di addossare al titolare di attività pericolose iniziate prima dell’entrata in vigore della norma incriminatrice, quandanche essenziali alla vita pubblica quale l’edilizia residenziale pubblica, il dovere di optare tra la commissione di reato e l’arresto dell’attività stessa alla data dell’8.7.2017”.
Grazie alla ponderata interpretazione dell’articolo 20, c. 1, Decreto Legislativo 139/2006, il giudice ha dunque equilibrato la necessità di protezione dell’incolumità pubblica con quella di imporre un comportamento concretamente esigibile a chi sia titolare di attività il cui esercizio richiede il CPI.
Se la linea interpretativa sposata dalla sentenza in commento trovasse seguito nella giurisprudenza del Tribunale di Milano e di quelli del resto d’Italia, non ogni titolare di un’attività tra quelle considerate rischiose dalla normativa anti incendio dovrebbe essere sottoposto a un procedimento penale per la sola oggettiva carenza di CPI negli edifici da lui amministrati.
Posto che il rispetto della normativa antincendio, e in particolare la dotazione dei presidi individuati dalla legge, continuerebbe a essere richiesto a tutti i titolari delle attività in questione, costituirebbe reato solo il comportamento dei soggetti che dovessero intraprendere un’attività nuova, comunque successiva all’8.7.2017, senza presentare la SCIA per ottenere il CPI.
La sentenza rappresenta un significativo precedente giudiziario, andando a costituire un argine alla potenziale esposizione di numerosissimi soggetti, in particolare gli amministratori di edifici pubblici e privati ad uso civile, ad un procedimento penale e ad una consistente sanzione.