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Il favoritismo in un concorso per accesso al pubblico impiego non configura turbativa d’asta

Concorso pubblico
Concorso pubblico

Il favoritismo in un concorso per accesso al pubblico impiego non configura turbativa d’asta

Lo ha affermato la sesta sezione della Corte di Cassazione nella sentenza n. 26225, pubblicata il 16 giugno 2023, riformando una sentenza della Corte d’Appello di Milano che aveva condannato il dirigente di un ente pubblico per aver violato la normativa sul pubblico impiego per assumere una persona con cui aveva una relazione affettiva.

La sentenza contiene un’interessante indicazione sugli strumenti previsti dal nostro ordinamento per reprimere abusi che non potrebbero rientrare nel perimetro della turbativa d’asta, ma che sarebbero attualmente presidiate da una fattispecie al centro di acceso dibattito proprio nei giorni dell’approvazione del ddl Nordio: l’abuso d’ufficio.
 

Il Commento

La sentenza della Suprema Corte è innovativa in quanto devia dal solco tracciato finora dalla giurisprudenza di legittimità, che tendeva a ritenere l’art. 353 c.p. (turbata libertà degli incanti) estensibile a ogni ipotesi in cui vi fosse una procedura comparativa assimilabile a una “gara”, e quindi anche ai concorsi pubblici.

La linea interpretativa finora dominante, seguita pedissequamente dalla Corte d’Appello di Milano che si è vista cassare la pronuncia, riteneva infatti che la turbata libertà degli incanti (comunemente detta turbativa d’asta) fosse configurabile “in ogni situazione in cui la pubblica amministrazione proceda all’individuazione del contraente mediante una gara, quale che sia il nomen iuris adottato ed anche in assenza di formalità”(ex multis: Corte di Cassazione, sezione Sesta, n. 9385 del 13 aprile 2017); “gara che si configura tutte le volte in cui vi sia una competizione tra aspiranti, che si svolga sulla base della previa indicazione e pubblicizzazione dei criteri di selezione e di rappresentazione delle offerte” (Corte di Cassazione, sezione Sesta, n. 6603 del 5 novembre 2021).

Nel caso concreto il ricorrente aveva “inquinato” una procedura di mobilità interna a un ente pubblico, violando una serie di norme, tra cui l’obbligo per i dipendenti coinvolti nei procedimenti di assunzione di astenersi in caso di conflitto di interessi.

L’obbligo di astensione, infatti, è previsto sia dall’art. 6 bis della Legge sul procedimento amministrativo (L. 241/1990) che da Regolamento attuativo dell’art. 54 della Legge sul pubblico impiego (D.lgs. 165/2001), che prevede il dovere di astensione per il pubblico dipendente “dalla partecipazione a decisioni o attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero – tra l’altro – “di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale”, astenendosi, altresì, “in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza”.

Il pubblico incanto (o asta pubblica) è una procedura amministrativa che si contraddistingue per la caratteristica di consentire la massima partecipazione e competitività tra gli operatori economici interessati alla stipulazione contrattuale con la P.A., tenuti a presentare le proprie offerte nel rispetto delle modalità e dei termini fissati nel bando di gara.

La categoria di pubblico incanto (come anche quello di licitazione privata) è un concetto tratto dal Codice degli appalti (D.lgs. 50/2016).

Nel caso concreto, come detto, il ricorrente aveva “turbato” una procedura di mobilità volontaria dei pubblici dipendenti (di cui all’art. 30 d.lgs. 165/2001), istituto che si caratterizza per una tutela attenuata del principio di parità di trattamento tra dipendenti pubblici a fronte dell’esigenza di realizzare un risparmio per le casse pubbliche.

Pertanto, sosteneva il ricorso, si trattava di una procedura che, in definitiva, non ha le caratteristiche di una gara, circostanza che, sola, consentirebbe l’applicabilità dell’art. 353 c.p., secondo la giurisprudenza finora prevalente.

La Suprema Corte, nella sentenza in commento, accoglie questa impostazione difensiva, ma si spinge oltre.

La sentenza appellata aveva motivato la condanna sul presupposto che i fatti contestati si collocassero all’interno di una procedura selettiva relativa ad una determinata posizione funzionale presso una Pubblica Amministrazione che, si concludeva, rientra nell’ambito applicativo dell’art. 353 c.p.

Ritiene al contrario la sesta sezione della Cassazione che tra le condotte ricomprese nel perimetro della turbativa d’asta “non possano rientrare i concorsi per l’accesso ad impieghi pubblici o le connesse procedure di mobilità del personale tra diverse amministrazioni”.

Argomenta infatti la Corte che l’operatività della norma sarebbe da limitare alle sole procedure indette per l’affidamento di commesse pubbliche o per la cessione di beni pubblici, che erano in origine disciplinate della legislazione sulla contabilità generale dello Stato e che ora trovano il proprio regime organico nei Codice dei contratti pubblici (D.lgs. 50/2016).

In tal senso deporrebbe innanzitutto la ratio della previsione incriminatrice “indiscutibilmente riferita a dette tipologie di procedure contrattuali, finalizzate al acquisizione da parte delle amministrazioni pubbliche di beni e servizi, strutturalmente diverse, dunque da quelle relative alle assunzioni del personale delle pubbliche amministrazioni”.

Ma soprattutto il ragionamento della Cassazione si fonda sul divieto di interpretazione analogica in malam partem.

Si legge infatti che “alla indicata estensione applicativa osta il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale” sicché non sarebbe tollerabile che la sanzione possa colpire il consociato per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore.

La Suprema Corte, in definitiva, compie un deciso revirement del proprio orientamento, passando da una concezione estesa di “gare pubbliche e licitazioni private” a una assai più ristretta, che esclude espressamente l’applicazione dell’art. 353 c.p. a procedure che non concernono l’acquisizione di beni o servizi da parte della Pubblica amministrazione, come appunto i concorsi per l’assunzione di pubblici dipendenti.

A fronte di una così precisa delimitazione del profilo applicativo della turbativa d’asta, la Corte di Cassazione specifica che la violazione di norme all’interno di una selezione per l’assunzione di un dipendente pubblico (campo vastissimo, che comprende dai concorsi universitari alle selezioni per il reclutamento dei profili professionali utili ai Comuni) è comunque presidiato dal nostro sistema penale attraverso una norma sussidiaria.

Tale norma va individuata, secondo la sentenza in commento, nell’art. 323 c.p., ossia il reato di abuso d’ufficio, la cui abolizione è uno dei cardini della Riforma della Giustizia in fase di scrutinio da parte del Parlamento italiano proprio in questi giorni.

Proprio tale norma, nella fisionomia assunta dopo l’intervento del d.l. n. 76/2020, sarebbe lo strumento idoneo a punire il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nella predisposizione e nello svolgimento delle procedure concorsuali (o assimilate) abbia intenzionalmente procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecato ad altri un danno ingiusto.

Va ricordato che il legislatore era intervenuto per definire con maggiore precisione una norma da sempre criticata per la sua indeterminatezza, tanto che oggi il suo presupposto applicativo è “la violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non risultino margini di discrezionalità, ovvero la mancata astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti” (art. 323 c.p.).

Di fronte a questa impostazione del giudice nomofilattico, il progetto di abolizione totale della fattispecie rischia effettivamente di tradursi in un vuoto normativo.

Resta in ogni caso l’importante arresto giurisprudenziale della Suprema Corte, che si pone in contrasto con l’orientamento finora maggioritario in tema di applicabilità del reato di turbativa d’asta.

La sentenza in commento, infatti, sceglie di circoscrivere in modo preciso comportamenti finora ritenuti “coperti” dalla fattispecie in questione, affermando espressamente:

“Ritenere applicabile la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 353 cod. pen. a condotte relative all’assunzione o alla mobilità del personale della pubblica amministrazione rappresenterebbe il risultato di una non consentita operazione di interpretazione analogica in malam partem”.