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Art. 13 del Codice Deontologico forense: dovere di coscienza professionale

Il Regolamento per la Formazione continua ha risvegliato o no questa coscienza professionale?
1. In occasione della delibera del 25 febbraio 2011, con la quale il CNF, modificando l’art. 11 del Regolamento per la Formazione Continua, ha ridotto il numero complessivo dei crediti formativi da acquisire nel secondo triennio di valutazione 2011/2013, è opportuno porsi nuovamente l’interrogativo se il Regolamento anzidetto abbia raggiunto con successo l’obiettivo di garantire la competenza e la professionalità degli iscritti all’Albo degli avvocati oppure no. Con questo scritto mi prefiggo il compito di dare, più che una risposta all’anzidetto interrogativo, una mia opinione. Prima, però, vorrei soffermarmi sul dovere di aggiornamento professionale, la norma deontologica oggetto di dibattiti e discussione nel mondo forense.

2. Il dovere di aggiornamento professionale costituisce una delle norme deontologiche cardine per un esercizio consapevole e responsabile della professione di avvocato in un ordinamento caratterizzato sia da una normativa assai numerosa e sempre in continua rivoluzione sia da una produzione giurisprudenziale assai complessa, che recentemente, peraltro, ha assunto un ruolo fondamentale, anzi, addirittura incisivo, nelle decisioni delle cause civili[1].

Il dovere in questione non è un principio etico di invenzione moderna. Infatti, già al tempo dell’antica Roma repubblicana, nonostante si avesse a che fare con un sistema normativo meno complesso e sofisticato di quello attuale, rientrava nell’etica professionale dell’avvocato romano, il c.d. patronus, il dovere di curare costantemente la propria preparazione professionale al fine di poter svolgere al meglio l’attività difensiva, in particolare, nell’etica professionale del più antico e illustre avvocato di tutti i tempi, Marco Tullio Cicerone. Precisamente, a parere di Cicerone, per poter agere causam in iudiciis, è necessaria un’accurata preparazione[2] e un quotidiano aggiornamento professionale[3] perché senza di loro la professione forense assumerebbe i connotati della neglegentia e della perfidia, ma soprattutto della stupidità[4].

L’aggiornamento professionale, quindi, non era in principio un dovere coattivamente imposto, la cui violazione, come oggi, comportava l’applicazione di sanzioni disciplinari, ma un consiglio o, meglio, un suggerimento dettato dal buon senso e dall’esperienza sul campo, la cui violazione comportava soltanto una deviazione dal modello ideale di avvocato competente e responsabile nel difendere gli interessi del cliente assistito, modello meditato, appunto, da Cicerone nelle sua esperienza forense.

3. Come è noto, il dovere di aggiornamento professionale è stato inserito nel codice deontologico forense approvato dal Consiglio Nazionale Forense il 17 aprile 1997 e l’art. 13 che lo disciplina è considerato oggi, assieme alle altre norme deontologiche, oltre che come principio etico, come in passato, anche come una vera e propria norma giuridica, secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali, appunto, di recente, con sentenza n. 26810 del 20 dicembre 2007, hanno affermato, ponendo fine così a passati contrasti di interpretazione[5], che le norme del codice deontologico sono fonti normative e non soltanto regole interne della categoria, e/o espressione di poteri di autorganizzazione degli ordini[6].

Inizialmente, il citato art. 13 prescriveva solamente che “è dovere dell’avvocato curare costantemente la propria preparazione professionale, conservando ed accrescendo le conoscenze con particolare riferimento ai settori nei quali è svolta l’attività.” Successivamente, veniva aggiunto alla prescrizione anzidetta il seguente canone: “I. L’avvocato realizza la propria formazione permanente con lo studio individuale e la partecipazione a iniziative culturali in campo giuridico e forense.” Tuttavia, la norma deontologica in questione non si rivelava in alcun modo controllata e obbligatoria. Pertanto, al fine di renderla tale, il Consiglio Nazionale Forense ha aggiunto all’art. 13 in questione il canone del seguente tenore: “II. E’ dovere deontologico dell’avvocato quello di rispettare i regolamenti del Consiglio Nazionale Forense e del Consiglio dell’ordine di appartenenza concernenti gli obblighi e i programmi formativi” e, in data 13 luglio 2007, ha approvato il Regolamento per la Formazione Continua, entrato in vigore il 1° settembre 2007[7], col quale si è reso obbligatorio e controllato, ma, a mio parere, non del tutto, il dovere in esame.

4. In sintesi, il Regolamento anzidetto prevede che tutti gli avvocati, per il solo fatto di essere iscritti all’Albo (ma anche il praticante abilitato al patrocinio, dopo il conseguimento del certificato di compiuta pratica), hanno l’obbligo di mantenere e aggiornare la propria preparazione professionale e, a tal fine, devono partecipare alle attività di formazione professionale permanente (art. 1) che il regolamento distingue in partecipazione ad eventi formativi[8] e svolgimento di attività formative[9]. In merito, ogni iscritto sceglie liberamente le attività formative anzidette da svolgere ai fini dell’assolvimento degli obblighi formativi, assolvimento che consiste nel conseguimento di almeno n. 90 di crediti formativi nel triennio di valutazione, che sono attribuiti secondo i criteri indicati negli artt. 3 e 4, di cui almeno n. 20 crediti formativi in ogni singolo anno formativo, con l’ulteriore precisazione che almeno n. 15 crediti formativi nel triennio devono derivare da attività ed eventi formativi aventi ad oggetto l’ordinamento professionale e previdenziale e la deontologia (art. 2). In proposito, come anticipato all’inizio di questo scritto, il CNF, con delibera del 25 febbraio 2011, modificando l’art. 11 del Regolamento per la Formazione Continua, ha ridotto il numero complessivo dei crediti formativi da acquisire nel secondo triennio di valutazione 2011/2013. Precisamente, ha stabilito che nel triennio di valutazione anzidetto “i crediti formativi da conseguire sono 75”, e non più 90, “col minimo di 15 crediti in ciascuno dei primi due anni del triennio”, precisando, nel contempo, che “di quei complessivi 75 crediti almeno 15 nel triennio dovranno essere conseguiti in materia di ordinamento forense e/o previdenza e/o deontologia e di questi almeno 4 in ciascuno dei primi due anni del triennio”[10].

Dopo aver indicato i casi di esonero dagli obblighi formativi (art. 5), il regolamento, infine, prevede l’obbligo per ogni iscritto di depositare una sintetica relazione che certifica il percorso formativo seguito nell’anno precedente, indicando gli eventi formativi seguiti e documentando le attività formative svolte, anche mediante autoceritificazione, precisando che costituiscono illecito disciplinare il mancato adempimento dell’obbligo formativo e la mancata o infedele certificazione del percorso formativo seguito (art. 6).

5. Ora, come si è anticipato sopra, l’obiettivo dell’emanazione del regolamento in questione è stato quello di rendere controllato e obbligatorio il dovere di aggiornamento professionale, ma, soprattutto, di garantire la competenza e la professionalità degli avvocati nell’interesse della collettività, come risulta dal punto primo del “considerato che…” del Regolamento medesimo. Infatti, com’è noto, il dovere di aggiornamento professionale è strettamente collegato sia con quello di competenza (art. 12) che con quello di diligenza (art. 8) e, pertanto, violando il dovere di aggiornamento professionale si violano anche i doveri di diligenza e di competenza, con conseguente responsabilità contrattuale in capo all’avvocato, stando all’ultimo orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione citato in precedenza[11]. Ne consegue che competenza e diligenza professionale non possono ovviamente trasparire in un avvocato quando esplica l’attività difensiva se quest’ultimo non si aggiorna e arricchisca continuamente il proprio sapere non solo giuridico, che costituisce l’ovvio strumento per svolgere la professione di avvocato, ma, aggiungo io, anche quello culturale, che è altresì fondamentale quanto quello giuridico per poter esplicare l’attività difensiva[12]. Voglio citare, a sostegno di quest’ultima mia considerazione, le parole di un illustre avvocato penalista del secolo scorso, Genuzio Bentini, il quale ha detto: “L’avvocato ha da essere uomo d’ingegno – è la materia prima con la quale si foggia tutto il professionismo – uomo di cultura, varia, tecnica, generale – è la suppellettile della vita – ma soprattutto uomo di versatilità e di elasticità. Una spugna che s’imbeve, ecco l’anima avvocatesca. Gonfia e grondante di impressioni e competenza, nel punto di aspergere la causa di luce e di vita, e poi, e poi asciutta e riarsa per il nuovo tuffo nell’ondata che sopravviene. L’uomo che professa può e deve ormeggiarsi in un punto dello scibile e della vita e non togliere mai l’ancora, ma l’uomo che difende ha da spaziare per ogni dove.”[13] Quindi, seguendo l’illustre monito del Bentini, l’avvocato deve essere una persona ingegnosa e colta, sia giuridicamente sia generalmente, o, meglio, una persona onnisciente per poter difendere un individuo nelle intricate cause giudiziarie che gli/le si presentano.

A questo punto la domanda sorge o, meglio, dovrebbe sorgere spontanea per tutti gli esercenti la professione forense: era proprio necessario che il CNF adottasse quel regolamento e rendesse l’aggiornamento professionale un dovere coattivamente imposto? Oppure: un/una professionista ha davvero bisogno che qualcuno in alto gli/le imponga di aggiornare il proprio bagaglio giuridico e culturale che, invece, dovrebbe aggiornare spontaneamente al fine di svolgere la propria attività difensiva e nella consapevolezza del ruolo sociale che ricopre nell’ordinamento? La risposta dovrebbe essere ovviamente negativa; pur tuttavia, il regolamento è stato deliberato ed è tuttora in vigore e, quindi, evidentemente è stato necessario adottarlo, ma per quale motivo? Certamente, a mio avviso, né per tutelare l’interesse pubblico al corretto esercizio della professione né per garantire la competenza e la professionalità degli avvocati nell’interesse della collettività, come risulta dal “considerato che…” del Regolamento medesimo, per le osservazioni che adesso si andranno ad articolare.

6. Nel complesso, il Regolamento per la Formazione continua può definirsi una “ciambella non riuscita col buco”. Se da un lato, ha avuto ed ha tuttora il “pregio” di aver fatto “lievitare” l’organizzazione di convegni, seminari, etc., in passato in numero assai esiguo rispetto all’oggi, dall’altro lato, invece, ha avuto ed ha tuttora il “difetto” di non essere uno strumento efficiente di attestazione alla collettività che un avvocato abbia la preparazione professionale a difendere un individuo. In realtà, il Consiglio dell’ordine territoriale non verifica l’effettivo aggiornamento professionale di un avvocato, ma solo che il medesimo abbia partecipato formalmente e astrattamente agli eventi formativi previsti dal regolamento in questione, in particolare convegni, seminari, tavole rotonde, etc., in cui, fatta eccezione per alcuni, la maggior parte degli avvocati è assente fisicamente o, sebbene presente, è mentalmente assente, benché risulti la loro firma nell’elenco dei partecipanti all’evento che dà diritto, alla fine, al ritiro dell’attestato di partecipazione, che, sommato agli altri eventualmente acquisiti, servirà poi, per così dire, a dimostrare al Consiglio dell’ordine di appartenenza di aver adempiuto al dovere di aggiornamento, perché, come si è detto sopra, l’avvocato deve acquisire un numero di crediti formativi durante l’anno per potersi qualificare avvocato preparato professionalmente e, quindi, competente e diligente. Ne consegue, pertanto, che il Regolamento in questione, che avrebbe dovuto essere, secondo l’originario intento del CNF, lo strumento atto a garantire efficacemente e concretamente la competenza professionale dell’avvocato, si sia, invece, rivelato lo strumento atto a garantirla solo in apparenza.

Invece, si può sostenere che il regolamento anzidetto abbia raggiunto uno scopo diverso da quello previsto, ovvero quello di offendere la professionalità di quegli avvocati che, con massima cura e zelo, curavano e curano costantemente e spontaneamente e, quindi, al di là di ogni coattiva imposizione, la propria preparazione professionale pubblicando contributi su riviste giuridiche, sia cartacee che on line, partecipando attivamente, non passivamente, a convegni, seminari, etc., svolgendo altre attività formative giuridiche e culturali diverse da quelle elencate nel regolamento medesimo e, soprattutto, con studio individuale (lettura di riviste giuridiche e monografie tematiche), che, però, stando ai formali dettami della “burocrazia forense”, non è dimostrabile e, quindi, potrebbe dar luogo, anzi, sicuramente dà luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, anche se deve darsi conto del fatto che alcuni Consigli dell’ordine territoriali, deliberando, alla luce del canone II dell’art. 13 del Codice Deontologico, propri regolamenti per la formazione continua, abbiano fatto rientrare nell’elenco delle attività formative ritenute idonee a produrre crediti formativi anche l’abbonamento a riviste giuridiche, in quanto ritenuto sintomatico dell’impegno di studio, di approfondimento e di aggiornamento professionale[14].

In altri termini, con l’emanazione di quel regolamento si è praticamente fatto delle persone che costituiscono il mondo forense, come si dice, di “ogni erba un fascio”, penalizzando, anzi, denigrando quegli avvocati che, invece, svolgono la professione con ammirevole pignoleria professionale, perché a guidarli in quel senso è solo e soltanto la loro “coscienza” professionale, che non tutti hanno e non si può certamente “imporre” o “insegnare” ed “aggiornare continuamente” perché si nasce coscienti, non si diventa o, meglio, si nasce avvocati, non si diventa.

7. E allora, cosa si potrebbe fare per correggere l’“incoscienza” di alcuni avvocati? Io credo che, ironicamente parlando, l’unica cosa da fare sia affidarsi alla “Dea della Coscienza” affinché illumini la via della professionalità e della responsabilità ai colleghi che non l’hanno oppure l’hanno solamente smarrita e sperare che in alto si pensi a provvedimenti più incisivi ed efficaci, ove tali ce ne fossero, per controllare, appunto, le “incoscienze” degli iscritti all’Albo degli avvocati, invece, di elogiare il Regolamento con frasi tipo quella che si legge nella citata delibera del CNF del 25 febbraio 2011, ovvero: “[…] il regolamento ha incontrato un indubbio successo perché oramai tutti gli avvocati hanno acquisito consapevolezza della inderogabile necessità di adempiere il dovere formativo […]”. Ma si è davvero sicuri che gli avvocati, non tutti, come sostiene in via generale il CNF, ma solo quelli, preciso io, che non avevano “consapevolezza” dell’aggiornamento professionale (come si vede, il CNF tende sempre a “fare di ogni erba un fascio”), abbiano acquisita quella “consapevolezza” deontologica con la vigenza dell’anzidetto regolamento? Osservando la realtà forense che ci circonda, credo che, contrariamente a quanto paradossalmente asserito dal CNF nella succitata delibera, il regolamento ha incontrato, invece, un “indubbio insuccesso” perché quegli avvocati che prima non avevano consapevolezza della necessità di adempiere il dovere formativo, non l’hanno tuttora acquisita e non l’acquisiranno, perché manca in loro la “coscienza”. Anzi, in proposito, deve farsi notare che nella succitata delibera si mette proprio in evidenza che “una buona parte degli iscritti non ha adempiuto, totalmente, o quanto meno, parzialmente, all’obbligo formativo”. Quindi, a mio avviso, è chiaro che quanto espresso nella delibera rappresenta solo un audace tentativo del CNF per nascondere l’”indubbio insuccesso” del regolamento ma, soprattutto, per farlo a poco a poco cadere nell’ombra, anzi, per eliminarlo “senza dare troppo nell’occhio”, considerata la deliberata riduzione dei crediti formativi nel secondo triennio di valutazione, che lascia presupporre quanto si è innanzi asserito. Questo lo scopriremo in un futuro prossimo.

Nel frattempo, però, e concludendo, bisogna raccogliere 75 crediti formativi, non più 90, nel triennio 2011/2013 e certificarli al Consiglio dell’ordine di appartenenza, dimostrando così di essere avvocati “formalmente” competenti e diligenti.

E’ proprio il caso di dire che “un numero fa la …differenza professionale!”



[1] In proposito, si ricorda il comma 1 dell’art. 118 disp. att. c.p.c., così come sostituito dall’art. 52, comma 5, della L. 18 giugno 2009, n. 69, che così dispone: “La motivazione della sentenza di cui all’art. 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”. Ancora, l’art. 360bis c.p.c., introdotto dall’art. 47, comma 1, lett. a), della legge innanzi citata, che prescrive l’inammissibilità del ricorso in Cassazione “quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”.

[2] Cic., De off. 1.21.73: “In omnibus autem negotiis priusquam adgrediare, adhibenda est praeparatio diligens”.

[3] Cic., Div. in Caec. 41: “Ego qui, sicut omnes sciunt, in foro iudiciisque ita verser ut eiusdem aetatis aut nemo aut pauci plures causas defenderint, et qui omne tempus quod mihi ab amicorum negotiis datur in his studiis laboribusque consumam, quo paratior ad usum forensem promptiorque esse passim…”.

[4] Cic., De orat. 2.24.101: “Ita nonnulla, dum operam suam multam existimari volunt, ut toto foro volitare et a causa ad causam ire videantur, causas dicunt incognitas. In quo est illa quidem magna offensis vel neglegentiae, susceptis rebus, vel perfidiae receptis; sed etiam illa maior opinione, quod nemo potest de ea re, quam non novit, non turpissime dicere. Ita dum inertiae vituperationem, quae maior est, contemnunt, adsequuntur etiam illam, quam magis ipsi fugiunt, tardidatis.”

[5] Da ultimo, Cass., Sez. Un., 10 luglio 2003, n. 10842, secondo la quale “le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli ordini professionali, se non recepite direttamente dal legislatore, non hanno né la natura né le caratteristiche di norme di legge, ma sono espressione di poteri di autorganizzazione degli ordini, si da ripetere la loro autorità, oltre che da consuetudini professionali, anche da norme che i suddetti ordini emanano per fissare gli obblighi di correttezza cui i propri scritti devono attenersi e per regolare la propria funzione disciplinare.” Contra, Cass., Sez. Un., 23 marzo 2004 n. 5776 secondo la quale “nell’ambito della violazione di legge va compresa anche la violazione delle norme del codice deontologico dell’ordine professionale, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo degli avvocati che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare.”

[6] Si ricorda, ancora, che, nella recente sentenza n. 9097 del 3 maggio 2005, le Sezioni Unite della Cassazione definiscono le deliberazioni del Consiglio Nazionale Forense, con le quali procede alla determinazione dei principi di deontologia professionale e delle ipotesi di violazione degli stessi, regolamenti adottati da un’autorità non statale in forza d’autonomo potere che ripete la sua disciplina da leggi speciali, onde si tratta “di legittima fonte secondaria di produzione giuridica.” Le stesse sezioni unite riconoscono, poi, come “(…) l’autonomia degli ordinamenti professionali rispetto a quello statuale – della quale è peculiare espressione l’autodichia attuata mediante sia il codice d’autoregolamentazione di categoria sia la decisione anche giurisdizionale del singolo caso disciplinare – venga tuttora considerata un valore altamente positivo in una società libera e democratica.”

[7] Ai sensi dell’art. 11, comma 2, il primo periodo di valutazione della formazione continua è decorso dal 1° gennaio 2008.

[8] Ai sensi dell’art. 3 del Regolamento per la formazione continua, per “eventi formativi” si intendono: a) corsi di aggiornamento e masters, seminari, convegni, giornate di studio e tavole rotonde, anche se eseguiti con modalità telematiche, purché sia possibile il controllo della partecipazione; b) commissioni di studio, gruppi di lavoro o commissioni consiliari, istituiti dal CNF e dai Consigli dell’ordine, o da organismi nazionali ed internazionali della categoria professionale; c) altri eventi specificamente individuati dal CNF e dai Consigli dell’Ordine.

[9] Ai sensi dell’art. 4 del Regolamento per la formazione continua, per “attività formative” si intendono: a) relazioni o lezioni negli eventi formativi di cui alle lett. a) e b) dell’art. 3, ovvero nelle scuole forensi o nelle scuole di specializzazione per le professioni legali; b) pubblicazioni in materia giuridica su riviste specializzate a diffusione o di rilevanza nazionale, anche on line, ovvero pubblicazioni di libri, saggi, monografie o trattati, anche come opere collettanee, su argomenti giuridici; c) contratti di insegnamento in materie giuridiche stipulati con istituti universitari ed enti equiparati; d) partecipazione alle commissioni per gli esami di Stato di avvocato, per tutta la durata dell’esame; e) il compimento di altre attività di studio ed aggiornamento svolte in autonomia nell’ambito della propria organizzazione professionale, che siano state preventivamente autorizzate e riconosciute come tali dal CNF o dai Consigli dell’ordine competenti.

[10] Si legge nella motivazione della delibera che la riduzione è stata deliberata sulla base, tra l’altro, sia delle dichiarazione della maggioranza dei Consigli territoriali, che hanno ritenuto “eccessivo il carico dei crediti formativi nel numero di 90 complessivi così come stabilito a regime dal Regolamento”, sia del fatto che, a dire del CNF, “occorre garantire gradualismo in attesa di un maggiore rodaggio delle strutture ordinistiche preposte alla funzione formativa”.

[11] In base alla legge, il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 c.c.) e l’obbligazione va adempiuta usando la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176 c.c.) e l’avvocato deve comportarsi secondo correttezza (art. 1175 c.c.). Secondo Cass., Sez. Un., 20 dicembre 2007, n. 26810, le norme deontologiche integrano le anzidette clausole generali e/o elastiche (artt. 1362ss. c.c.) e, pertanto, la loro violazione comporta la violazione di dette norme, in quanto la norma deontologica non è altro che il contenuto specifico delle disposizioni di legge generica. Giuliano Scarselli, La responsabilità civile del difensore per l’infrazione della norma deontologica, in Foro It., 2009, I, 3172, commentando la suddetta sentenza, ha detto che“creando una corrispondenza tra illecito deontologico ed illecito civile, non solo si moralizza e qualifica l’attività del difensore, ma si rende la norma deontologica una norma di tutti, atteso che oggi, tutti, infatti, possono far valere in giudizio le norme deontologiche per l’azione civile di responsabilità contrattuale”.

[12] Secondo Ubaldo Perfetti, Corso di deontologia professionale, Padova, 2008, p. 95, “il dovere di aggiornamento professionale[…]è da intendersi, non come semplice mantenimento di competenze già acquisite, ma come aggiornamento periodico, finalizzato ad ampliare le conoscenze conseguite, per aprirsi alle novità e protratto per tutta la durata dell’attività professionale”.

[13] Genuzio Bentini, Le macchie sulla toga: Psicologia dell’avvocato, Napoli, 1927, p. 23.

[14] In tal senso, dispone, ad esempio, il Regolamento per la Formazione continua adottato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Foggia.

1. In occasione della delibera del 25 febbraio 2011, con la quale il CNF, modificando l’art. 11 del Regolamento per la Formazione Continua, ha ridotto il numero complessivo dei crediti formativi da acquisire nel secondo triennio di valutazione 2011/2013, è opportuno porsi nuovamente l’interrogativo se il Regolamento anzidetto abbia raggiunto con successo l’obiettivo di garantire la competenza e la professionalità degli iscritti all’Albo degli avvocati oppure no. Con questo scritto mi prefiggo il compito di dare, più che una risposta all’anzidetto interrogativo, una mia opinione. Prima, però, vorrei soffermarmi sul dovere di aggiornamento professionale, la norma deontologica oggetto di dibattiti e discussione nel mondo forense.

2. Il dovere di aggiornamento professionale costituisce una delle norme deontologiche cardine per un esercizio consapevole e responsabile della professione di avvocato in un ordinamento caratterizzato sia da una normativa assai numerosa e sempre in continua rivoluzione sia da una produzione giurisprudenziale assai complessa, che recentemente, peraltro, ha assunto un ruolo fondamentale, anzi, addirittura incisivo, nelle decisioni delle cause civili[1].

Il dovere in questione non è un principio etico di invenzione moderna. Infatti, già al tempo dell’antica Roma repubblicana, nonostante si avesse a che fare con un sistema normativo meno complesso e sofisticato di quello attuale, rientrava nell’etica professionale dell’avvocato romano, il c.d. patronus, il dovere di curare costantemente la propria preparazione professionale al fine di poter svolgere al meglio l’attività difensiva, in particolare, nell’etica professionale del più antico e illustre avvocato di tutti i tempi, Marco Tullio Cicerone. Precisamente, a parere di Cicerone, per poter agere causam in iudiciis, è necessaria un’accurata preparazione[2] e un quotidiano aggiornamento professionale[3] perché senza di loro la professione forense assumerebbe i connotati della neglegentia e della perfidia, ma soprattutto della stupidità[4].

L’aggiornamento professionale, quindi, non era in principio un dovere coattivamente imposto, la cui violazione, come oggi, comportava l’applicazione di sanzioni disciplinari, ma un consiglio o, meglio, un suggerimento dettato dal buon senso e dall’esperienza sul campo, la cui violazione comportava soltanto una deviazione dal modello ideale di avvocato competente e responsabile nel difendere gli interessi del cliente assistito, modello meditato, appunto, da Cicerone nelle sua esperienza forense.

3. Come è noto, il dovere di aggiornamento professionale è stato inserito nel codice deontologico forense approvato dal Consiglio Nazionale Forense il 17 aprile 1997 e l’art. 13 che lo disciplina è considerato oggi, assieme alle altre norme deontologiche, oltre che come principio etico, come in passato, anche come una vera e propria norma giuridica, secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali, appunto, di recente, con sentenza n. 26810 del 20 dicembre 2007, hanno affermato, ponendo fine così a passati contrasti di interpretazione[5], che le norme del codice deontologico sono fonti normative e non soltanto regole interne della categoria, e/o espressione di poteri di autorganizzazione degli ordini[6].

Inizialmente, il citato art. 13 prescriveva solamente che “è dovere dell’avvocato curare costantemente la propria preparazione professionale, conservando ed accrescendo le conoscenze con particolare riferimento ai settori nei quali è svolta l’attività.” Successivamente, veniva aggiunto alla prescrizione anzidetta il seguente canone: “I. L’avvocato realizza la propria formazione permanente con lo studio individuale e la partecipazione a iniziative culturali in campo giuridico e forense.” Tuttavia, la norma deontologica in questione non si rivelava in alcun modo controllata e obbligatoria. Pertanto, al fine di renderla tale, il Consiglio Nazionale Forense ha aggiunto all’art. 13 in questione il canone del seguente tenore: “II. E’ dovere deontologico dell’avvocato quello di rispettare i regolamenti del Consiglio Nazionale Forense e del Consiglio dell’ordine di appartenenza concernenti gli obblighi e i programmi formativi” e, in data 13 luglio 2007, ha approvato il Regolamento per la Formazione Continua, entrato in vigore il 1° settembre 2007[7], col quale si è reso obbligatorio e controllato, ma, a mio parere, non del tutto, il dovere in esame.

4. In sintesi, il Regolamento anzidetto prevede che tutti gli avvocati, per il solo fatto di essere iscritti all’Albo (ma anche il praticante abilitato al patrocinio, dopo il conseguimento del certificato di compiuta pratica), hanno l’obbligo di mantenere e aggiornare la propria preparazione professionale e, a tal fine, devono partecipare alle attività di formazione professionale permanente (art. 1) che il regolamento distingue in partecipazione ad eventi formativi[8] e svolgimento di attività formative[9]. In merito, ogni iscritto sceglie liberamente le attività formative anzidette da svolgere ai fini dell’assolvimento degli obblighi formativi, assolvimento che consiste nel conseguimento di almeno n. 90 di crediti formativi nel triennio di valutazione, che sono attribuiti secondo i criteri indicati negli artt. 3 e 4, di cui almeno n. 20 crediti formativi in ogni singolo anno formativo, con l’ulteriore precisazione che almeno n. 15 crediti formativi nel triennio devono derivare da attività ed eventi formativi aventi ad oggetto l’ordinamento professionale e previdenziale e la deontologia (art. 2). In proposito, come anticipato all’inizio di questo scritto, il CNF, con delibera del 25 febbraio 2011, modificando l’art. 11 del Regolamento per la Formazione Continua, ha ridotto il numero complessivo dei crediti formativi da acquisire nel secondo triennio di valutazione 2011/2013. Precisamente, ha stabilito che nel triennio di valutazione anzidetto “i crediti formativi da conseguire sono 75”, e non più 90, “col minimo di 15 crediti in ciascuno dei primi due anni del triennio”, precisando, nel contempo, che “di quei complessivi 75 crediti almeno 15 nel triennio dovranno essere conseguiti in materia di ordinamento forense e/o previdenza e/o deontologia e di questi almeno 4 in ciascuno dei primi due anni del triennio”[10].

Dopo aver indicato i casi di esonero dagli obblighi formativi (art. 5), il regolamento, infine, prevede l’obbligo per ogni iscritto di depositare una sintetica relazione che certifica il percorso formativo seguito nell’anno precedente, indicando gli eventi formativi seguiti e documentando le attività formative svolte, anche mediante autoceritificazione, precisando che costituiscono illecito disciplinare il mancato adempimento dell’obbligo formativo e la mancata o infedele certificazione del percorso formativo seguito (art. 6).

5. Ora, come si è anticipato sopra, l’obiettivo dell’emanazione del regolamento in questione è stato quello di rendere controllato e obbligatorio il dovere di aggiornamento professionale, ma, soprattutto, di garantire la competenza e la professionalità degli avvocati nell’interesse della collettività, come risulta dal punto primo del “considerato che…” del Regolamento medesimo. Infatti, com’è noto, il dovere di aggiornamento professionale è strettamente collegato sia con quello di competenza (art. 12) che con quello di diligenza (art. 8) e, pertanto, violando il dovere di aggiornamento professionale si violano anche i doveri di diligenza e di competenza, con conseguente responsabilità contrattuale in capo all’avvocato, stando all’ultimo orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione citato in precedenza[11]. Ne consegue che competenza e diligenza professionale non possono ovviamente trasparire in un avvocato quando esplica l’attività difensiva se quest’ultimo non si aggiorna e arricchisca continuamente il proprio sapere non solo giuridico, che costituisce l’ovvio strumento per svolgere la professione di avvocato, ma, aggiungo io, anche quello culturale, che è altresì fondamentale quanto quello giuridico per poter esplicare l’attività difensiva[12]. Voglio citare, a sostegno di quest’ultima mia considerazione, le parole di un illustre avvocato penalista del secolo scorso, Genuzio Bentini, il quale ha detto: “L’avvocato ha da essere uomo d’ingegno – è la materia prima con la quale si foggia tutto il professionismo – uomo di cultura, varia, tecnica, generale – è la suppellettile della vita – ma soprattutto uomo di versatilità e di elasticità. Una spugna che s’imbeve, ecco l’anima avvocatesca. Gonfia e grondante di impressioni e competenza, nel punto di aspergere la causa di luce e di vita, e poi, e poi asciutta e riarsa per il nuovo tuffo nell’ondata che sopravviene. L’uomo che professa può e deve ormeggiarsi in un punto dello scibile e della vita e non togliere mai l’ancora, ma l’uomo che difende ha da spaziare per ogni dove.”[13] Quindi, seguendo l’illustre monito del Bentini, l’avvocato deve essere una persona ingegnosa e colta, sia giuridicamente sia generalmente, o, meglio, una persona onnisciente per poter difendere un individuo nelle intricate cause giudiziarie che gli/le si presentano.

A questo punto la domanda sorge o, meglio, dovrebbe sorgere spontanea per tutti gli esercenti la professione forense: era proprio necessario che il CNF adottasse quel regolamento e rendesse l’aggiornamento professionale un dovere coattivamente imposto? Oppure: un/una professionista ha davvero bisogno che qualcuno in alto gli/le imponga di aggiornare il proprio bagaglio giuridico e culturale che, invece, dovrebbe aggiornare spontaneamente al fine di svolgere la propria attività difensiva e nella consapevolezza del ruolo sociale che ricopre nell’ordinamento? La risposta dovrebbe essere ovviamente negativa; pur tuttavia, il regolamento è stato deliberato ed è tuttora in vigore e, quindi, evidentemente è stato necessario adottarlo, ma per quale motivo? Certamente, a mio avviso, né per tutelare l’interesse pubblico al corretto esercizio della professione né per garantire la competenza e la professionalità degli avvocati nell’interesse della collettività, come risulta dal “considerato che…” del Regolamento medesimo, per le osservazioni che adesso si andranno ad articolare.

6. Nel complesso, il Regolamento per la Formazione continua può definirsi una “ciambella non riuscita col buco”. Se da un lato, ha avuto ed ha tuttora il “pregio” di aver fatto “lievitare” l’organizzazione di convegni, seminari, etc., in passato in numero assai esiguo rispetto all’oggi, dall’altro lato, invece, ha avuto ed ha tuttora il “difetto” di non essere uno strumento efficiente di attestazione alla collettività che un avvocato abbia la preparazione professionale a difendere un individuo. In realtà, il Consiglio dell’ordine territoriale non verifica l’effettivo aggiornamento professionale di un avvocato, ma solo che il medesimo abbia partecipato formalmente e astrattamente agli eventi formativi previsti dal regolamento in questione, in particolare convegni, seminari, tavole rotonde, etc., in cui, fatta eccezione per alcuni, la maggior parte degli avvocati è assente fisicamente o, sebbene presente, è mentalmente assente, benché risulti la loro firma nell’elenco dei partecipanti all’evento che dà diritto, alla fine, al ritiro dell’attestato di partecipazione, che, sommato agli altri eventualmente acquisiti, servirà poi, per così dire, a dimostrare al Consiglio dell’ordine di appartenenza di aver adempiuto al dovere di aggiornamento, perché, come si è detto sopra, l’avvocato deve acquisire un numero di crediti formativi durante l’anno per potersi qualificare avvocato preparato professionalmente e, quindi, competente e diligente. Ne consegue, pertanto, che il Regolamento in questione, che avrebbe dovuto essere, secondo l’originario intento del CNF, lo strumento atto a garantire efficacemente e concretamente la competenza professionale dell’avvocato, si sia, invece, rivelato lo strumento atto a garantirla solo in apparenza.

Invece, si può sostenere che il regolamento anzidetto abbia raggiunto uno scopo diverso da quello previsto, ovvero quello di offendere la professionalità di quegli avvocati che, con massima cura e zelo, curavano e curano costantemente e spontaneamente e, quindi, al di là di ogni coattiva imposizione, la propria preparazione professionale pubblicando contributi su riviste giuridiche, sia cartacee che on line, partecipando attivamente, non passivamente, a convegni, seminari, etc., svolgendo altre attività formative giuridiche e culturali diverse da quelle elencate nel regolamento medesimo e, soprattutto, con studio individuale (lettura di riviste giuridiche e monografie tematiche), che, però, stando ai formali dettami della “burocrazia forense”, non è dimostrabile e, quindi, potrebbe dar luogo, anzi, sicuramente dà luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, anche se deve darsi conto del fatto che alcuni Consigli dell’ordine territoriali, deliberando, alla luce del canone II dell’art. 13 del Codice Deontologico, propri regolamenti per la formazione continua, abbiano fatto rientrare nell’elenco delle attività formative ritenute idonee a produrre crediti formativi anche l’abbonamento a riviste giuridiche, in quanto ritenuto sintomatico dell’impegno di studio, di approfondimento e di aggiornamento professionale[14].

In altri termini, con l’emanazione di quel regolamento si è praticamente fatto delle persone che costituiscono il mondo forense, come si dice, di “ogni erba un fascio”, penalizzando, anzi, denigrando quegli avvocati che, invece, svolgono la professione con ammirevole pignoleria professionale, perché a guidarli in quel senso è solo e soltanto la loro “coscienza” professionale, che non tutti hanno e non si può certamente “imporre” o “insegnare” ed “aggiornare continuamente” perché si nasce coscienti, non si diventa o, meglio, si nasce avvocati, non si diventa.

7. E allora, cosa si potrebbe fare per correggere l’“incoscienza” di alcuni avvocati? Io credo che, ironicamente parlando, l’unica cosa da fare sia affidarsi alla “Dea della Coscienza” affinché illumini la via della professionalità e della responsabilità ai colleghi che non l’hanno oppure l’hanno solamente smarrita e sperare che in alto si pensi a provvedimenti più incisivi ed efficaci, ove tali ce ne fossero, per controllare, appunto, le “incoscienze” degli iscritti all’Albo degli avvocati, invece, di elogiare il Regolamento con frasi tipo quella che si legge nella citata delibera del CNF del 25 febbraio 2011, ovvero: “[…] il regolamento ha incontrato un indubbio successo perché oramai tutti gli avvocati hanno acquisito consapevolezza della inderogabile necessità di adempiere il dovere formativo […]”. Ma si è davvero sicuri che gli avvocati, non tutti, come sostiene in via generale il CNF, ma solo quelli, preciso io, che non avevano “consapevolezza” dell’aggiornamento professionale (come si vede, il CNF tende sempre a “fare di ogni erba un fascio”), abbiano acquisita quella “consapevolezza” deontologica con la vigenza dell’anzidetto regolamento? Osservando la realtà forense che ci circonda, credo che, contrariamente a quanto paradossalmente asserito dal CNF nella succitata delibera, il regolamento ha incontrato, invece, un “indubbio insuccesso” perché quegli avvocati che prima non avevano consapevolezza della necessità di adempiere il dovere formativo, non l’hanno tuttora acquisita e non l’acquisiranno, perché manca in loro la “coscienza”. Anzi, in proposito, deve farsi notare che nella succitata delibera si mette proprio in evidenza che “una buona parte degli iscritti non ha adempiuto, totalmente, o quanto meno, parzialmente, all’obbligo formativo”. Quindi, a mio avviso, è chiaro che quanto espresso nella delibera rappresenta solo un audace tentativo del CNF per nascondere l’”indubbio insuccesso” del regolamento ma, soprattutto, per farlo a poco a poco cadere nell’ombra, anzi, per eliminarlo “senza dare troppo nell’occhio”, considerata la deliberata riduzione dei crediti formativi nel secondo triennio di valutazione, che lascia presupporre quanto si è innanzi asserito. Questo lo scopriremo in un futuro prossimo.

Nel frattempo, però, e concludendo, bisogna raccogliere 75 crediti formativi, non più 90, nel triennio 2011/2013 e certificarli al Consiglio dell’ordine di appartenenza, dimostrando così di essere avvocati “formalmente” competenti e diligenti.

E’ proprio il caso di dire che “un numero fa la …differenza professionale!”



[1] In proposito, si ricorda il comma 1 dell’art. 118 disp. att. c.p.c., così come sostituito dall’art. 52, comma 5, della L. 18 giugno 2009, n. 69, che così dispone: “La motivazione della sentenza di cui all’art. 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”. Ancora, l’art. 360bis c.p.c., introdotto dall’art. 47, comma 1, lett. a), della legge innanzi citata, che prescrive l’inammissibilità del ricorso in Cassazione “quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”.

[2] Cic., De off. 1.21.73: “In omnibus autem negotiis priusquam adgrediare, adhibenda est praeparatio diligens”.

[3] Cic., Div. in Caec. 41: “Ego qui, sicut omnes sciunt, in foro iudiciisque ita verser ut eiusdem aetatis aut nemo aut pauci plures causas defenderint, et qui omne tempus quod mihi ab amicorum negotiis datur in his studiis laboribusque consumam, quo paratior ad usum forensem promptiorque esse passim…”.

[4] Cic., De orat. 2.24.101: “Ita nonnulla, dum operam suam multam existimari volunt, ut toto foro volitare et a causa ad causam ire videantur, causas dicunt incognitas. In quo est illa quidem magna offensis vel neglegentiae, susceptis rebus, vel perfidiae receptis; sed etiam illa maior opinione, quod nemo potest de ea re, quam non novit, non turpissime dicere. Ita dum inertiae vituperationem, quae maior est, contemnunt, adsequuntur etiam illam, quam magis ipsi fugiunt, tardidatis.”

[5] Da ultimo, Cass., Sez. Un., 10 luglio 2003, n. 10842, secondo la quale “le disposizioni dei codici deontologici predisposti dagli ordini professionali, se non recepite direttamente dal legislatore, non hanno né la natura né le caratteristiche di norme di legge, ma sono espressione di poteri di autorganizzazione degli ordini, si da ripetere la loro autorità, oltre che da consuetudini professionali, anche da norme che i suddetti ordini emanano per fissare gli obblighi di correttezza cui i propri scritti devono attenersi e per regolare la propria funzione disciplinare.” Contra, Cass., Sez. Un., 23 marzo 2004 n. 5776 secondo la quale “nell’ambito della violazione di legge va compresa anche la violazione delle norme del codice deontologico dell’ordine professionale, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo degli avvocati che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare.”

[6] Si ricorda, ancora, che, nella recente sentenza n. 9097 del 3 maggio 2005, le Sezioni Unite della Cassazione definiscono le deliberazioni del Consiglio Nazionale Forense, con le quali procede alla determinazione dei principi di deontologia professionale e delle ipotesi di violazione degli stessi, regolamenti adottati da un’autorità non statale in forza d’autonomo potere che ripete la sua disciplina da leggi speciali, onde si tratta “di legittima fonte secondaria di produzione giuridica.” Le stesse sezioni unite riconoscono, poi, come “(…) l’autonomia degli ordinamenti professionali rispetto a quello statuale – della quale è peculiare espressione l’autodichia attuata mediante sia il codice d’autoregolamentazione di categoria sia la decisione anche giurisdizionale del singolo caso disciplinare – venga tuttora considerata un valore altamente positivo in una società libera e democratica.”

[7] Ai sensi dell’art. 11, comma 2, il primo periodo di valutazione della formazione continua è decorso dal 1° gennaio 2008.

[8] Ai sensi dell’art. 3 del Regolamento per la formazione continua, per “eventi formativi” si intendono: a) corsi di aggiornamento e masters, seminari, convegni, giornate di studio e tavole rotonde, anche se eseguiti con modalità telematiche, purché sia possibile il controllo della partecipazione; b) commissioni di studio, gruppi di lavoro o commissioni consiliari, istituiti dal CNF e dai Consigli dell’ordine, o da organismi nazionali ed internazionali della categoria professionale; c) altri eventi specificamente individuati dal CNF e dai Consigli dell’Ordine.

[9] Ai sensi dell’art. 4 del Regolamento per la formazione continua, per “attività formative” si intendono: a) relazioni o lezioni negli eventi formativi di cui alle lett. a) e b) dell’art. 3, ovvero nelle scuole forensi o nelle scuole di specializzazione per le professioni legali; b) pubblicazioni in materia giuridica su riviste specializzate a diffusione o di rilevanza nazionale, anche on line, ovvero pubblicazioni di libri, saggi, monografie o trattati, anche come opere collettanee, su argomenti giuridici; c) contratti di insegnamento in materie giuridiche stipulati con istituti universitari ed enti equiparati; d) partecipazione alle commissioni per gli esami di Stato di avvocato, per tutta la durata dell’esame; e) il compimento di altre attività di studio ed aggiornamento svolte in autonomia nell’ambito della propria organizzazione professionale, che siano state preventivamente autorizzate e riconosciute come tali dal CNF o dai Consigli dell’ordine competenti.

[10] Si legge nella motivazione della delibera che la riduzione è stata deliberata sulla base, tra l’altro, sia delle dichiarazione della maggioranza dei Consigli territoriali, che hanno ritenuto “eccessivo il carico dei crediti formativi nel numero di 90 complessivi così come stabilito a regime dal Regolamento”, sia del fatto che, a dire del CNF, “occorre garantire gradualismo in attesa di un maggiore rodaggio delle strutture ordinistiche preposte alla funzione formativa”.

[11] In base alla legge, il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 c.c.) e l’obbligazione va adempiuta usando la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176 c.c.) e l’avvocato deve comportarsi secondo correttezza (art. 1175 c.c.). Secondo Cass., Sez. Un., 20 dicembre 2007, n. 26810, le norme deontologiche integrano le anzidette clausole generali e/o elastiche (artt. 1362ss. c.c.) e, pertanto, la loro violazione comporta la violazione di dette norme, in quanto la norma deontologica non è altro che il contenuto specifico delle disposizioni di legge generica. Giuliano Scarselli, La responsabilità civile del difensore per l’infrazione della norma deontologica, in Foro It., 2009, I, 3172, commentando la suddetta sentenza, ha detto che“creando una corrispondenza tra illecito deontologico ed illecito civile, non solo si moralizza e qualifica l’attività del difensore, ma si rende la norma deontologica una norma di tutti, atteso che oggi, tutti, infatti, possono far valere in giudizio le norme deontologiche per l’azione civile di responsabilità contrattuale”.

[12] Secondo Ubaldo Perfetti, Corso di deontologia professionale, Padova, 2008, p. 95, “il dovere di aggiornamento professionale[…]è da intendersi, non come semplice mantenimento di competenze già acquisite, ma come aggiornamento periodico, finalizzato ad ampliare le conoscenze conseguite, per aprirsi alle novità e protratto per tutta la durata dell’attività professionale”.

[13] Genuzio Bentini, Le macchie sulla toga: Psicologia dell’avvocato, Napoli, 1927, p. 23.

[14] In tal senso, dispone, ad esempio, il Regolamento per la Formazione continua adottato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Foggia.