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Concorso tra truffa e appropriazione indebita

Truffa e appropriazione indebita sono entrambi delitti contro il patrimonio e regolati rispettivamente dagli articoli 640 e 646 Codice Penale.

Per quel che riguarda il primo reato, l’articolo 640 del Codice Penale punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1032, chiunque con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.

La giurisprudenza sembra avere ormai abbandonato l’orientamento tradizionale che richiedeva, per la sussistenza del reato in argomento, una condotta "positiva" ingannatrice.

Secondo l’indirizzo attuale, ormai consolidato, l’artifizio o il raggiro richiesti per la sussistenza del reato di truffa possono consistere anche nel silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da parte dì chi abbia il dovere di farle conoscere, potendo risiedere la fonte del dovere di informazione anche in una norma extrapenale come gli articoli 1375 o 1759, codice civile (Cass. pen., sez. Il, 13 novembre 1997, n. 870). È il caso della cosiddetta "truffa contrattuale", illecito di elaborazione giurisprudenziale ancorato alla disciplina dell’art. 40 del codice penale, per cui non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.

Più in generale, ai fini della sussistenza di un reato di truffa, il raggiro non deve necessariamente consistere in una particolare subdola messa in scena, bastando qualsiasi simulazione o dissimulazione posta in essere per indurre in errore (Cass. Sez. V CED n. 163707/83; contra evidenziando la necessità di particolari accorgimenti o speciale astuzia, capaci di eludere le comuni e normali possibilità di controllo Cass. Sez. II CED n. 165024/84).

Per quel che riguarda, invece, l’appropriazione indebita, l’articolo 646 del codice penale punisce con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1032, chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso.

Il delitto di appropriazione indebita si consuma nel momento e nel luogo in cui l’agente tiene consapevolmente un comportamento oggettivamente eccedente la sfera delle facoltà ricomprese nel titolo del suo possesso ed incompatibile con il diritto del proprietario, in quanto significativo dell’immutazione del mero possesso in dominio (come ad esempio l’atto di disposizione del bene riservato al proprietario o l’esplicito rifiuto di restituzione della cosa posseduta). Ne consegue che il momento consumativo non è necessariamente integrato dalla mancata restituzione della cosa nel termine pattuito, potendo ad essa attribuirsi valore sintomatico di una condotta appropriativa pregressa (Cass., Sez. I, Sent. n. 26440 dell’11.7.2002).

Il presupposto del delitto di appropriazione indebita è costituito perciò da un preesistente possesso della cosa altrui da parte dell’agente, e cioè da una situazione di fatto che si concretizzi in un potere autonomo sulla cosa, al di fuori dei poteri di vigilanza e di custodia che spettano giuridicamente al proprietario.

Per qual che riguarda il concorso tra queste due fattispecie di delitto, le tracce in giurisprudenza di tale possibilità sono molto scarne, soprattutto perché di solito i contrasti si hanno riguardo alle distinzioni tra appropriazione indebita e furto, legati principalmente, come già prima evidenziato, alle differenze tra mera detenzione della res e possesso della stessa (per le interpretazioni oscillanti della giurisprudenza vedi Tribunale di Lanciano, sent. 22.6.99; Cass. 21.3.1986, CED 172205; Cass. 23.11.1985, CED 171196; Cass. 7.12.1977, CED 138625 ).

Per la configurabilità del concorso tra truffa e appropriazione indebita, si pone l’attenzione sugli elementi distintivi delle due fattispecie: si arrivano dunque a intravedere come possibile discrimen, gli artifizi e i raggiri, che devono specificamente contrassegnare la condotta di chi compie un reato di truffa ai sensi dell’articolo 640 Codice Penale.

Difatti, deve ravvisarsi il delitto di cui all’art. 646 c.p. e non già quello di truffa, quando l’artifizio o raggiro non risultino necessari alla appropriazione (si pensi al cassiere di una banca che si appropri del denaro della cassa cui era preposto; in questo caso, data la materiale disponibilità di tale denaro per ovvie esigenze lavorative, non sussiste la necessità di ricorrere ad artifizi o raggiri per appropriarsene: vedi Cass. sez. VI, CED n.181845/89).

Sussistono, invece, gli estremi della truffa e non quelli dell’appropriazione indebita, quando si ritenga accertato in fatto che la consegna della cosa è stata ottenuta mediante inganno.

Sono ravvisabili, infine, gli estremi di due distinte azioni criminose, rispettivamente a titolo di truffa e appropriazione indebita, e dunque conseguentemente addebitabili anche a titolo di concorso, quando, ad esempio, da un lato si induca taluno con artifizi e raggiri a concludere un contratto di vendita con patto di riservato dominio ed a consegnare la merce e, dall’altro lato si persuada l’acquirente a disporre della stessa merce prima del versamento dell’intero prezzo (Cass. Sez. V CED n. 106895/68). 

Truffa e appropriazione indebita sono entrambi delitti contro il patrimonio e regolati rispettivamente dagli articoli 640 e 646 Codice Penale.

Per quel che riguarda il primo reato, l’articolo 640 del Codice Penale punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1032, chiunque con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.

La giurisprudenza sembra avere ormai abbandonato l’orientamento tradizionale che richiedeva, per la sussistenza del reato in argomento, una condotta "positiva" ingannatrice.

Secondo l’indirizzo attuale, ormai consolidato, l’artifizio o il raggiro richiesti per la sussistenza del reato di truffa possono consistere anche nel silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da parte dì chi abbia il dovere di farle conoscere, potendo risiedere la fonte del dovere di informazione anche in una norma extrapenale come gli articoli 1375 o 1759, codice civile (Cass. pen., sez. Il, 13 novembre 1997, n. 870). È il caso della cosiddetta "truffa contrattuale", illecito di elaborazione giurisprudenziale ancorato alla disciplina dell’art. 40 del codice penale, per cui non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.

Più in generale, ai fini della sussistenza di un reato di truffa, il raggiro non deve necessariamente consistere in una particolare subdola messa in scena, bastando qualsiasi simulazione o dissimulazione posta in essere per indurre in errore (Cass. Sez. V CED n. 163707/83; contra evidenziando la necessità di particolari accorgimenti o speciale astuzia, capaci di eludere le comuni e normali possibilità di controllo Cass. Sez. II CED n. 165024/84).

Per quel che riguarda, invece, l’appropriazione indebita, l’articolo 646 del codice penale punisce con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1032, chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso.

Il delitto di appropriazione indebita si consuma nel momento e nel luogo in cui l’agente tiene consapevolmente un comportamento oggettivamente eccedente la sfera delle facoltà ricomprese nel titolo del suo possesso ed incompatibile con il diritto del proprietario, in quanto significativo dell’immutazione del mero possesso in dominio (come ad esempio l’atto di disposizione del bene riservato al proprietario o l’esplicito rifiuto di restituzione della cosa posseduta). Ne consegue che il momento consumativo non è necessariamente integrato dalla mancata restituzione della cosa nel termine pattuito, potendo ad essa attribuirsi valore sintomatico di una condotta appropriativa pregressa (Cass., Sez. I, Sent. n. 26440 dell’11.7.2002).

Il presupposto del delitto di appropriazione indebita è costituito perciò da un preesistente possesso della cosa altrui da parte dell’agente, e cioè da una situazione di fatto che si concretizzi in un potere autonomo sulla cosa, al di fuori dei poteri di vigilanza e di custodia che spettano giuridicamente al proprietario.

Per qual che riguarda il concorso tra queste due fattispecie di delitto, le tracce in giurisprudenza di tale possibilità sono molto scarne, soprattutto perché di solito i contrasti si hanno riguardo alle distinzioni tra appropriazione indebita e furto, legati principalmente, come già prima evidenziato, alle differenze tra mera detenzione della res e possesso della stessa (per le interpretazioni oscillanti della giurisprudenza vedi Tribunale di Lanciano, sent. 22.6.99; Cass. 21.3.1986, CED 172205; Cass. 23.11.1985, CED 171196; Cass. 7.12.1977, CED 138625 ).

Per la configurabilità del concorso tra truffa e appropriazione indebita, si pone l’attenzione sugli elementi distintivi delle due fattispecie: si arrivano dunque a intravedere come possibile discrimen, gli artifizi e i raggiri, che devono specificamente contrassegnare la condotta di chi compie un reato di truffa ai sensi dell’articolo 640 Codice Penale.

Difatti, deve ravvisarsi il delitto di cui all’art. 646 c.p. e non già quello di truffa, quando l’artifizio o raggiro non risultino necessari alla appropriazione (si pensi al cassiere di una banca che si appropri del denaro della cassa cui era preposto; in questo caso, data la materiale disponibilità di tale denaro per ovvie esigenze lavorative, non sussiste la necessità di ricorrere ad artifizi o raggiri per appropriarsene: vedi Cass. sez. VI, CED n.181845/89).

Sussistono, invece, gli estremi della truffa e non quelli dell’appropriazione indebita, quando si ritenga accertato in fatto che la consegna della cosa è stata ottenuta mediante inganno.

Sono ravvisabili, infine, gli estremi di due distinte azioni criminose, rispettivamente a titolo di truffa e appropriazione indebita, e dunque conseguentemente addebitabili anche a titolo di concorso, quando, ad esempio, da un lato si induca taluno con artifizi e raggiri a concludere un contratto di vendita con patto di riservato dominio ed a consegnare la merce e, dall’altro lato si persuada l’acquirente a disporre della stessa merce prima del versamento dell’intero prezzo (Cass. Sez. V CED n. 106895/68).