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Decreto Crescita: i discutibili interventi del Governo in tema di proprietà intellettuale

Esame del Decreto Crescita, dal caso Pernigotti ai “marchi storici”, passando per toponimi e lesa maestà nazionale
Marchio
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Indice:

1. L’impatto del Decreto Crescita e del contrasto all’Italian Sounding

2. I marchi storici

3. L’originario Decreto Crescita

4. La nazionalizzazione dell’impresa titolare del marchio storico e gli aiuti a pioggia

5. Gli altri finanziamenti previsti dal Decreto Crescita

6. L’Italian Sounding come atti di pirateria e le occasioni perse del Decreto Crescita

7. Il bilancio del Decreto Crescita

 

1. L’impatto del Decreto Crescita e del contrasto all’Italian Sounding

Nel cosiddetto “Decreto Crescita” (D.L. 30 aprile 2019, n. 34) – ormai prossimo alla conversione, essendo stata approvata dalla Camera il 24 giugno 2019 la legge di conversione, che ora passa all’esame del Senato – ha trovato spazio anche la proprietà intellettuale, con gli articoli 31 e 32 (il secondo dei quali è pomposamente intitolato “Contrasto all’Italian Sounding e incentivi al deposito di brevetti e marchi”), che seguono purtroppo uno schema ormai sperimentato, non solo nel nostro Paese (e non solo dal suo attuale Governo), anche se sinora i diritti di proprietà industriale erano fortunosamente riusciti quasi sempre a sfuggirvi, forse perché considerati (giustamente) materia troppo tecnica:

sussidi distribuiti senza nessuna visione strategica, ma sulla base di mere suggestioni; 

modifiche puramente nominalistiche adottate per fare “scena” e dimostrare che si è “molto attivi” a difesa degli interessi nazionali; e

interventi concreti, ma controproducenti – compresa l’immancabile istituzione di un nuovo “carrozzone” da 30 milioni una tantum nel 2020, più 400.000 Euro l’anno di stanziamento per 10 nuove assunzioni nella Pubblica Amministrazione –, che allontanano le nostre norme interne da quelle europee, determinando profili di illegittimità e seminando illusioni cui inevitabilmente seguiranno disillusioni quando le nuove disposizioni risulteranno inapplicabili (ma tanto si metterà tutto in conto all’Europa…).

La sola consolazione è che poteva andare molto peggio, se si leggono le proposte di legge depositate in Parlamento sugli stessi temi (anche in questo caso non solo dai partiti di governo, ma anche da alcuni di quelli di opposizione), ed in particolare quella presentata in pompa magna da Matteo Salvini in persona, non sorprendentemente la più statalista e illiberale di tutte.

Per fortuna, su lodevole iniziativa dell’UIBM, nel decreto ha trovato posto anche la norma – predisposta dal gruppo di lavoro di esperti a suo tempo insediato dalla Direzione Generale – che consente di aprire anche una procedura nazionale di brevettazione (e non necessariamente una procedura europea, come avveniva sinora) partendo da una domanda internazionale di brevetto presentata sulla base del Patent Cooperation Treaty: l’adozione di questa disposizione (già presente nell’ordinamento di molti Paesi, come ad esempio la Germania) offre cioè agli operatori un’alternativa più economica, per i casi in cui le prospettive di sfruttamento dell’invenzione non giustificano l’investimento necessario per ottenere un brevetto europeo o comunque non consigliano di farvi ricorso.  Si tratta dunque di una previsione normativa che risponde ad un’esigenza molto sentita nella pratica e certamente benvenuta. 

Non così si può dire di gran parte delle altre norme, che sono sotto più profili eversive, anche se in concreto l’impatto negativo di esse verrà attenuato ed anzi sostanzialmente annullato (tranne naturalmente per il “conto” presentato ai contribuenti), dalla possibilità di depositare marchi dell’Unione Europea, disciplinati direttamente dal Regolamento UE n. 2017/1001 e quindi non soggetti alle disposizioni nazionali.

 

2. I marchi storici

La parte del leone in questo intervento normativo l’hanno fatta quelli che sono stati chiamati “marchi storici”, categoria ignota al diritto previgente (italiano e straniero) e dai contorni quanto mai vaghi: devono essere marchi registrati o usati da almeno cinquant’anni “per la commercializzazione di prodotti o servizi realizzati in un’impresa produttiva nazionale di eccellenza storicamente collegata al territorio nazionale”: definizione che presuppone valutazioni di carattere del tutto discrezionale, essendo arbitraria ed opinabile anzitutto la nozione di “eccellenza”, ma in realtà anche quella di “collegamento al territorio nazionale.

Lo spunto per introdurre nel nostro sistema questa nuova disciplina è venuto dalla vicenda della Pernigotti, nota impresa dolciaria del nostro Paese – di cui tuttavia non erano certamente molti tra i consumatori quelli che sapevano dove esattamente fosse collocato il sito produttivo – entrata in crisi alcuni anni fa e passata in proprietà ad un gruppo imprenditoriale turco, che ha deciso di chiudere lo stabilimento italiano. Vicenda certamente triste, soprattutto per i lavoratori che perderanno il posto di lavoro, ma sulla quale è arduo pensare di intervenire facendo leva sui marchi della società.

Qualcuno crede forse che tutta la Coca Cola quotidianamente bevuta in tutto il mondo sia prodotta ad Atlanta, in Georgia, presso il quartier generale della società?

E quanti sono i siti produttivi italiani dove si realizzano prodotti recanti marchi che col nostro Paese non hanno ovviamente nessun legame, né di proprietà, né storico, molti dei quali risalgono a più di un secolo fa, quando della “globalizzazione”, che oggi è di moda dipingere come il Male Assoluto, non esisteva neppure il nome?

E che c’è di diverso tra uno stabilimento italiano della Whirlpool o della Coca Cola e uno turco della Pernigotti, o – per riferirsi anche qui a una vicenda ben nota – a quello polacco che negli Anni Settanta produceva le Fiat 126?

Niente, evidentemente, come i giuristi sanno bene: la stessa Corte di Cassazione è più volte intervenuta per ricordare che il marchio, di per sé, garantisce soltanto l’origine imprenditoriale dei prodotti e servizi per i quali è registrato ed usato, cioè il fatto che un determinato soggetto abbia l’esclusiva (e la responsabilità) su quei prodotti e quei servizi che dal marchio sono contraddistinti.

Una regola diversa vale solo se il marchio comunica, nella percezione del pubblico, anche un legame al territorio, perché in tal caso usarlo per prodotti o servizi che con tale legame non presentano determina un inganno, sanzionato con la decadenza: inganno, s’intende, da valutare caso per caso, in base alla concreta percezione del pubblico e che del resto il titolare può evitare semplicemente comunicando in modo efficace ai consumatori l’avvenuto distacco.

Invece prima un gruppo di deputati di estrema sinistra, poi, superandoli a sinistra, la Lega di Salvini hanno pensato bene di proporre che per i marchi “ultracinquantenni” vi fosse il divieto, a pena di decadenza del marchio, di trasferire la produzione fuori dal comune in cui essa era in atto al momento della prima registrazione: come dire che il marchio Maserati, la cui impresa produttiva aveva originariamente sede a Bologna, mentre ora le autovetture che portano questo marchio sono realizzate a Modena e a Grugliasco, non sarebbe più valido e potrebbe quindi essere liberamente contraffatto.

Addirittura, la proposta della Lega prevedeva un monitoraggio costante di questi marchi da parte del Ministero dello Sviluppo Economico per controllare che la produzione nel sito originario non calasse (come se esista un’impresa al mondo la cui produzione sia costante in ogni momento…), con un’ingerenza nelle scelte imprenditoriali evidentemente incostituzionale e peraltro impraticabile, se non seguendo il metodo sarcasticamente suggerito da Leo Longanesi di prendere in servizio due carabinieri per ogni Italiano…

In questo modo si sarebbe istituito un sistema illegittimo, incostituzionale, inapplicabile e inutile (ed anzi controproducente).

Illegittimo perché avrebbe introdotto un regime d’eccezione contrario sia al TRIPs Agreement (l’Accordo stipulato in sede WTO che impone uno standard minimo di protezione non suscettibile di deroghe per i diritti di proprietà intellettuale), sia al diritto comunitario (ed in specie la Direttiva UE n. 2015/2436), il che ne imporrebbe la disapplicazione in sede giudiziaria.

Incostituzionale perché darebbe luogo a un esproprio senza indennizzo, per giunta in danno anzitutto dei creditori dell’impresa (tra cui di regola i primi sono i lavoratori e il fisco), che si vedrebbero privati di un asset che spesso è il solo valore rimasto a un’impresa in crisi.

Inapplicabile perché la “produzione” è un concetto vago e mutevole (se assemblo componenti fatti altrove, produco? E se ho più stabilimenti, devo tenerli aperti tutti, senza poter razionalizzare o trasferire la mia attività?), soggetto a infinite contestazioni.

Inutile, perché mi basta disporre di un marchio dell’Unione Europea (che ovviamente non sarebbe soggetto a queste prescrizioni), o anche di un marchio italiano “nuovo”, ancorché uguale a quello ultracinquantenne, per sottrarmi ai suoi effetti.

E controproducente perché la decadenza del marchio implica che chiunque può usarlo e anche registrarlo: col risultato che norme come quelle che si era proposto di adottare, se davvero potessero funzionare, aprirebbero la strada alla contraffazione di massa.

I Cinesi avrebbero ringraziato Salvini.

 

3. L’originario Decreto Crescita

Le norme originariamente contenute nel Decreto “Crescita” (le virgolette sono davvero d’obbligo) non si erano spinte a tanto.

Il testo del decreto, anche qui su indicazione dell’UIBM, aveva infatti opportunamente seguito la strada che era stata suggerita dalle prime voci critiche per “limitare i danni” e attenuare i profili di illegittimità delle nuove norme: rendere facoltativa l’inclusione dei marchi nel novero di quelli sottoposti al nuovo regime eccezionale così configurato, anche se la norma prevede che l’iscrizione nell’apposito registro possa essere chiesta non solo dal titolare, ma anche dal licenziatario esclusivo del marchio, senza che si preveda che cosa accade se uno dei due è favorevole e l’altro è contrario.

Ma è durata poco: la soggezione “automatica” al nuovo regime è stata reinserita in sede di legge di conversione, che ha reso tale regime applicabile a tutti i marchi che abbiano comunque i “requisiti” (anche qui, data l’indeterminatezza di essi, le virgolette sono d’obbligo) per appartenere alla categoria…

 

4. La nazionalizzazione dell’impresa titolare del marchio storico e gli aiuti a pioggia

Per lo meno non viene prevista la sanzione della decadenza per le imprese che intendano “chiudere il sito produttivo di origine o comunque quello principale” (concetto anche questo quanto mai vago) per “cessazione dell’attività svolta o per delocalizzazione della stessa al di fuori del territorio nazionale” (senza eccezioni per i trasferimenti in altri Paesi dell’Unione Europea, di nuovo in spregio delle norme comunitarie), ma si stabiliscono solo obblighi informativi al Ministero dello Sviluppo Economico, che va avvertito “senza ritardo” (altro concetto del tutto indeterminato), a pena dell’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie (da 5.000 a 50.000 Euro) delle intenzioni del titolare del marchio e degli interventi che intende adottare per evitarla.

A seguito di tale informativa il Ministero “avvia il procedimento” per partecipare nel capitale di rischio dell’impresa titolare o licenziataria del marchio storico, ossia per nazionalizzare, in tutto o in parte, l’impresa decotta, come faceva la vecchia IRI, conformemente al sempiterno motto del capitalismo assistito italiano, efficacemente coniato negli Anni Cinquanta da Ernesto Rossi: “privatizzare i profitti, socializzare le perdite”.

Il tutto, dice pudicamente il legislatore, “a condizioni di mercato” e compatibilmente con gli Orientamenti della Commissione Europea sugli aiuti di Stato destinati a promuovere gli investimenti per il finanziamento del rischio: “fingendo di dimenticare” che il meccanismo previsto è per definizione incompatibile con le prescrizioni di tale comunicazione e con le condizioni di mercato, poiché  prevede che si buttino quattrini dei contribuenti in imprese senza prospettive di ripresa (perché diversamente la stessa operazione la farebbero i privati) per prolungarne l’agonia, secondo il “modello Alitalia”, evidentemente considerato virtuoso e degno di essere ripetuto.

E, come si diceva, per questi interventi non solo si mettono a bilancio 30 milioni di Euro per il solo anno 2020, ma si prevede anche una spesa annua di 400.000 Euro lordi per l’assunzione al Ministero dello Sviluppo Economico di dieci unità (che, considerati i costi, non saranno molto qualificate, nonostante la delicatezza dei compiti…), oltre alla possibilità per le imprese titolari e licenziatarie esclusive di “marchi storici” che rientrino tra le piccole e medie imprese di beneficiare del Fondo di Garanzia per le PMI per i loro interventi di “valorizzazione” di questi marchi.

 

5. Gli altri finanziamenti previsti dal Decreto Crescita

I finanziamenti a pioggia previsti dal decreto però non finiscono qui; e non finiscono nemmeno le modifiche deleterie al Codice della Proprietà Industriale.

Sotto il primo profilo si prevede un’agevolazione a favore dei “consorzi nazionali che operano nei mercati esteri al fine di assicurare la tutela dell’originalità dei prodotti italiani”, sino a un massimo di 30.000 Euro all’anno per ciascun soggetto (e con un fondo complessivo di 1,5 milioni di Euro l’anno), per contribuire sino al 50% alle spese sostenute “per la tutela legale dei propri prodotti colpiti dal fenomeno dell’Italian Sounding”, cioè dell’adozione da parte di produttori stranieri di segni distintivi che ricordano il nostro Paese: “dimenticando” che questa condotta, quando non determini inganno del pubblico o agganciamento a marchi o (là dove sono protette: e accade sostanzialmente solo in Europa) a denominazioni geografiche, è in sé lecita; e soprattutto dimenticando che questo fenomeno si può arginare essenzialmente attraverso l’educazione e la cultura, insegnando cioè ai consumatori dei Paesi dove esso si verifica a distinguere ed apprezzare i nostri prodotti, in primo luogo del comparto agroalimentare.

In questo caso la conversione ha consentito di tener conto di quest’ovvio rilievo e si sono così aggiunte tra le attività finanziabili anche le “campagne informative e di comunicazione finalizzate a consentire l’immediata identificazione del prodotto italiano rispetto ad altri prodotti”.

Altri finanziamenti sono poi previsti a favore delle start-up innovative per “supportare la valorizzazione del processo di innovazione”, compreso il costo della “acquisizione di servizi di consulenza relativi alla verifica della brevettabilità dell’invenzione e all’effettuazione delle ricerche di anteriorità preventive” (ricerche che, per il vero sono già svolte dall’Ufficio Europeo dei Brevetti, grazie a una convenzione stipulata con l’UIBM in vigore dal 2008, che mette gratuitamente a disposizione di coloro che depositano una domanda italiana di brevetto per invenzione il rapporto di ricerca europeo, in tempo utile per poter estendere all’estero tale domanda rivendicandone la priorità), per la “promozione all’estero di marchi collettivi e di certificazione italiani” e più in generale per il finanziamento delle (più organiche) misure di agevolazione già esistenti a favore delle PMI in materia di marchi, brevetti e modelli.      

 

6. L’Italian Sounding come atti di pirateria e le occasioni perse del Decreto Crescita

Il Codice della Proprietà Industriale viene inoltre modificato anche agli articoli 144 e 145, qualificando come atti di “pirateria” le attività di Italian Sounding (assai discutibilmente, tanto più che si tratta di fenomeni che di regola avvengono all’estero e dunque non sono soggetti alle nostre norme interne) ed estendendo anche alla repressione di esse l’attività del Consiglio Nazionale Anticontraffazione (che viene infatti ribattezzato “Consiglio Nazionale per la lotta alla contraffazione e all’Italian Sounding”) e soprattutto all’articolo 10.

Quest’ultima norma viene integrata sotto due profili: da un lato per includere tra i segni la cui registrazione richiede l’autorizzazione da parte dell’autorità competente “i segni riconducibili alle forze dell’ordine e alle forze armate e i nomi di Stati e di enti pubblici territoriali italiani”, con una previsione

superflua nella prima parte, poiché già non si dubitava della riserva di registrazione per i segni distintivi delle forze armate e di quelli degli Stati, e

pericolosa nella seconda, se mai dovesse essere interpretata come riserva di registrazione non solo per la denominazione degli enti – “Comune di Firenze”, “Regione Lombardia” – ma anche per i corrispondenti toponimi (Firenze, Lombardia), anche quando non avessero un collegamento con le caratteristiche dei prodotti o servizi contrassegnati.

Dall’altro lato, viene introdotto nell’articolo 10 un divieto di registrazione per le “parole, figure o segni” (“catalogo” proveniente dalla legge marchi nella versione anteriore alla riforma del 1992, quando venne sostituito dalla più sobria espressione “segni”, di per sé onnicomprensiva) che siano “lesivi dell’immagine o della reputazione dell’Italia”, con una dizione che ignora il già vigente divieto di registrazione dei segni contrari alla legge e all’ordine pubblico e introduce una valutazione “politica” dal suono sinistramente maccartista e particolarmente delicata, visto che competerà all’UIBM applicare la norma in sede di registrazione.       

Niente da fare, invece, nonostante le giuste richieste in tal senso dell’UIBM,

né per l’introduzione (volontaria e senza oneri per gli enti pubblici, anzi con potenziali introiti per il Poligrafico) del sigillo di Stato sui prodotti realizzati in Italia, per innalzare il livello della protezione all’estero sull’origine di essi,

né per il recupero della norma che restituiva alle Università e agli altri enti pubblici di ricerca la titolarità delle invenzioni realizzate dai loro ricercatori, già prevista in occasione della riforma del 2010, conformemente alla delega allora conferita al Governo, che però non venne esercitata sul punto.

Si è così perduta un’altra volta l’occasione per effettuare due interventi veramente utili per il progresso del Paese.  

 

7. Il bilancio del Decreto Crescita

Con l’eccezione dell’introduzione dei brevetti IT-PCT, il bilancio di questo intervento normativo per la proprietà intellettuale è dunque nettamente deficitario: e ciò tanto più che la preoccupazione di evitare la separazione tra i marchi legati ad una tradizione localizzata e gli asset aziendali in cui questa tradizione si incarna trovava già una risposta perfettamente adeguata nelle norme previgenti, se opportunamente valorizzate.

L’articolo 23, comma 4° del Codice della Proprietà Industriale (Decreto Legislativo n. 30/2005) prevede infatti che “In ogni caso, dal trasferimento e dalla licenza del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico”; e addirittura, anche al di fuori del contesto di una cessione, l’articolo 14, comma 2° lett. b sanziona con la decadenza (cioè con la perdita del diritto al marchio) ogni caso in cui il marchio “sia divenuto idoneo ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato”.

Commentando queste norme, avevo avuto modo di far notare che ad essere sanzionato non è solo l’inganno che cada sulle componenti “fisiche” dei prodotti (come accade ad esempio quando esso viene usato per prodotti che non hanno più le caratteristiche qualitative che il pubblico ricollegava al marchio stesso: caso questo in cui l’ingannevolezza è pacifica), ma “tutte le componenti del messaggio comunicato dal marchio, e non solo quelle strettamente materiali” che siano rilevanti per il pubblico, perché nell’economia attuale “vi sono … anche caratteristiche «immateriali» (ed anzitutto la paternità e la coerenza stilistica) che assumono importanza decisiva per i consumatori” e proprio “la circostanza che i marchi vengano oggi protetti anche contro gli usi non confusorî di segni eguali o simili ad essi, quando tali usi ledano la reputazione di cui il marchio gode o si aggancino alla stessa, rende … necessaria una protezione particolarmente estesa e pregnante contro l’inganno del pubblico, nella prospettiva del contemperamento degli interessi dei diversi soggetti in gioco – titolare, concorrenti e consumatori – e del coordinamento delle norme in materia di marchi con quelle che riguardano altri aspetti della comunicazione d’impresa, come la pubblicità e la stessa responsabilità del produttore per prodotti difettosi” (così espressamente Galli, Lo ‘statuto di non decettività’ del marchio: attualità e prospettive di un concetto giuridico, in Studi in memoria di P. Frassi, Milano, 2010; nello stesso senso si veda anche Riva, Commento all’articolo 14 CPI, in Galli-Gambino, Codice commentato della Proprietà Industriale e Intellettuale, Torino, 2011).

In un noto caso, sulla base di questa norma il Tribunale di Milano ha vietato l’uso del marchio “Massimo Piombo”, corrispondente al nome di un noto stilista, al soggetto che lo aveva rilevato dal fallimento della società dello stilista e che intendeva usarlo senza aver prima reso noto al pubblico che lo stilista non aveva più nessun ruolo nell’ideazione dei capi per i quali il marchio andava usato, appunto perché i Giudici milanesi hanno ritenuto che in tal caso l’uso sarebbe stato ingannevole.

In un’altra vicenda la norma è stata interpretata in modo diverso, ma al riguardo si attende ora la pronuncia della Corte di Cassazione.

Si deve anche aggiungere che la decadenza per ingannevolezza sopravvenuta del marchio può essere fatta valere in giudizio, davanti ai Giudici competenti (le Sezioni Specializzate dell’Impresa), da chiunque vi abbia interesse e quindi anche dai sindacati dei lavoratori ed ovviamente dagli enti pubblici interessati: ventilare questa possibilità può quindi valere a scongiurare il distacco dei “marchi storici” dagli asset cui sono legati nella percezione del pubblico, contribuendo a mantenere il legame col territorio, senza necessità di introdurre nuove norme di dubbia legittimità. Ma occorreva saperlo…

Insomma, il vecchio motto di Luigi Einaudi “conoscere per deliberare” è più che mai attuale e, purtroppo, più che mai irrealizzato.