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Diritto/Maestri di diritto, più o meno recenti

Ritratto di Carlo Goldoni, Alessandro Longhi, 1896, Bibliothèque des Arts décoratifs, Parigi
Ritratto di Carlo Goldoni, Alessandro Longhi, 1896, Bibliothèque des Arts décoratifs, Parigi

Mio dottorato. Casi singolari che lo precedettero

 

Vedendomi prossimo ad apparire in toga lunga nelle sale del palazzo, in cui, soltanto qualche anno prima, ero apparso in abito corto, andai a trovare lo zio Indric, presso il quale avevo imparato la pratica. Egli fu molto contento di rivedermi e mi assicurò che potevo contare su di lui. Dovetti, tuttavia, superare numerose difficoltà.

Per essere riconosciuto avvocato in Venezia era necessario innanzitutto essere in possesso di una laurea conseguita all’università di Padova; e, per ottenere le lettere per la laurea, bisognava avere compiuto gli studi di diritto in quella città e avere ivi trascorso cinque anni consecutivi, con le attestazioni di avere seguito le varie classi in quelle pubbliche scuole. Soltanto i forestieri possono presentarsi al collegio, sostenere la tesi e laurearsi immediatamente.

Io ero d’origine modenese, ma ero nato a Venezia, come mio padre: avevo il diritto di godere di tale vantaggio concesso ai forestieri? Non ne so nulla, ma una lettera scritta per ordine del duca di Modena al suo ministro a Venezia mi fece collocare nel numero dei privilegiati.

Eccomi, dunque, nella possibilità di recarmi presto a Padova e di ricevervi il berretto dottorale; ma ecco una nuova difficoltà ancora più grave.

Nel tribunale di Venezia si segue il codice veneziano: né Bartolo, né Baldo, né Giustiniano vengono mai citati, quasi non sono conosciuti; e invece a Padova bisogna conoscerli. A Venezia succede come a Parigi: i giovani perdono il loro tempo in studi inutili.

Anch’io, come gli altri, avevo perduto il mio tempo: avevo studiato il diritto romano a Pavia, a Udine, a Modena; ma da quattro anni ero fuori esercizio, avevo perduto la traccia delle leggi imperiali: mi trovai nella necessità di ridiventare scolaro.

Mi rivolsi a un vecchio amico, il signor Radi, che avevo conosciuto da bambino. Egli, avendo usato il suo tempo molto meglio di me, era diventato un buon avvocato e un maestro di diritto eccellente per istruire i candidati alla laurea, i quali andavano a Padova solo quattro volte all’anno, giusto per farsi vedere e per riportare i certificati di presenza. Il signor Radi era un brav’uomo, ma gli piaceva il gioco; cosicché egli non era molto ricco: i suoi scolari approfittavano delle lezioni e gli sottraevano spesso denaro.

[Carlo Goldoni, Memoires I, Mondadori, 1993, Capitolo XII, pp. 133-134]

 

A proposito di maestri di diritto mi viene in mente quanto si diceva di San Raimondo di Peñafort, docente a Bologna che evidentemente da un lato era osannato dagli studenti ma dall’altro rischiava di essere … mal visto (per non dire altro) dagli altri professori di diritto:

“Raimondo si sentiva nauseato a quella vista. Gli insegnanti cristiani, diceva, dovrebbero essere disinteressati almeno quanto gli stoici dell’età antonina, che, rifiutando di percepire un onorario, non respingevano le offerte libere e spontanee. Tutto il sapere viene da Dio, è proprietà comune. I maestri del passato avevano seguito alla lettera l’invito del profeta Isaia: «Ascoltami, e la tua anima vivrà». Anche in tempi più recenti gli insegnanti avevano fatto resistenza all’azione dei re e delle corti, quando si era tentato di imporre tasse per l'apertura delle scuole.

Si erano impegnati persino i Pontefici in loro difesa contro la rapacità degli esattori. Anzi, in quell’epoca stessa, i maestri avevano cercato più di una volta di reagire. Erano ricorsi anche a satire e a canzonette pur di smuovere il sentimento pubblico al rispetto per la loro condizione di povertà. Famosa quella di Serlon de Wilton, che suona così:

Tractamur misere, dare cogimur

atque tacere.

Ast in decretis legitur: Quicumque docetis

verum dicatis, hoc date sitque satis.

Ergo tibi mando, rex summe, palam lego,

clam do.

Siam trattati miseramente, siam costretti a dare

e tacere.

Ma nei Decreti si legge: Voi tutti che insegnate,

esponete la verità e basterà.

Perciò ti dichiaro, o gran re,

che io do lezione davanti a tutti e pago di nascosto.

Allora perché lo studente povero doveva essere costretto a pagare? Così andava argomentando Raimondo. Più tardi nella sua Summa (L. I, Tit. Ili, 8) sentenzierà che quando i professori hanno ciò che basta per le loro necessità non devono richiedere un onorario per le lezioni.

A Raimondo non mancò una folta schiera di discepoli. In quei giorni erano molti a comprare la scienza a un troppo amaro prezzo. Poteva verificarsi anche questo caso tra i suoi allievi: che uno studente comparisse alle lezioni con un vestito che il giorno dopo veniva usato da un altro, costretto a non frequentare la lezione perché non aveva niente con cui coprirsi! Ma i banchi della sua aula non erano occupati esclusivamente da principianti o da studenti poveri che affrontavano ostacoli di ogni genere. Un cronista del tempo, infatti, scrive che «i nobili specialmente i litterati accorrevano ad ascoltarlo». I primi, assai probabilmente, erano attratti dal suo grande garbo e dall’evidente signorilità del suo tratto, i secondi, dall’eleganza della sua dizione e dalla solidità degli argomenti.

Sempre lo stesso autore prosegue: «i cittadini di Bologna, inteso che non accettava alcun emolumento, temendo che un maestro di tale rinomanza potesse abbandonarli, stabilirono di comune accordo e di propria iniziativa che gli fosse corrisposto dalla Cassa Municipale un sussidio annuale. Ed egli, fedele figlio della Chiesa, versò a Dio e al suo parroco la maggior parte dei suoi guadagni».

Questo è davvero uno dei più eloquenti traguardi toccati dal disinteresse professionale, in un periodo storico in cui questo cominciava a essere raro nelle scuole.”

[P. Thomas, M. Schwertner O.P., San Raimondo di Peñafort giurista e apostolo, Edizioni Studio Domenicano, 1997, Capitolo II, pp. 36-39]