Il calcio non è uno show

Tutto ormai si deve confezionare e vendere, come se fosse un prodotto. Riprendiamoci il nostro tempo, riprendiamoci il calcio.
Calcio
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La società dello spettacolo in cui viviamo ci ha fatto ormai capire, senza troppi fronzoli, che l'immagine è più importante della realtà, la pubblicità più del prodotto. È un processo inarrestabile, il volto seducente della globalizzazione che si espande a macchia d'olio colonizzando l'immaginario, come direbbe Latouche. E un errore che spesso si fa, approcciandosi al mondo del calcio, è quello di isolarlo, di non inserirlo nell'epoca storica come se questo potesse rappresentare un'oasi incontaminata, un luogo della passione e dell'autenticità: purtroppo, non è così.

La tentazione della nostalgia da bar in effetti è notevole, e noi siamo i primi a voler redimere il Bar Sport. Quell'angolo di libertà in cui si può parlare, sproloquiare, fuggendo dal logorio del mondo moderno… cosa c'è di meglio.

Tuttavia, dobbiamo fare uno sforzo di onestà, e riconoscere che il calcio ha seguito la via tracciata da tanti altri settori, - dalla politica al lavoro, dall'economia all'industria - in quello che qualcuno definirebbe “tardo-capitalismo”.

E a proposito di capitalismo, il buon Marx divideva tra struttura e sovrastruttura: la struttura erano i rapporti di produzione (e quindi di forza), la sovrastruttura invece l'ideologia con cui il potere mascherava e giustificava la struttura, rendendola appetibile per quei poveri dannati che, invece, ne subivano gli effetti.

Ad ogni modo noi siamo indolenti e Marx è complicato, quindi la struttura - seppur del mondo del calcio -, la rimandiamo a un'altra volta, con tutti i suoi macabri rapporti di produzione; oggi ci occupiamo invece della sovrastruttura, dell'ideologia con cui viene venduto il prodotto calcio. Per essere ancora più chiari, della pubblicità che viene fatta del calcio.

Certo il materialismo e l'analisi delle categorie economiche dovrebbero avere poco a che fare con un pallone che rotola. E poi, nei rigidi schemi marxiani, non c'è spazio per tutti quei sentimenti profondamente umani fondanti dello sport: tutto deve essere impegnato, sempre, dall'arte al pallone… insomma Marx in un Bar Sport non potrebbe proprio entrare, rischierebbe di vedersi lanciato in testa un boccale di birra o cose simili.

Tuttavia, il suo concetto di ideologia come espediente del potere per giustificarsi è molto interessante, e si adatta perfettamente anche al fenomeno-calcio.

Ma qual è oggi l'ideologia del football? Qual è la propaganda con cui “si vende” il prodotto-calcio?

Purtroppo è una categoria che con lo sport non c'entra nulla, ovvero lo spettacolo: per dirla ancora meglio, lo show. E allora giù a vendere il pallone come uno spettacolo patinato permanente, con le classifiche dei gol più belli con i tormentoni dance in sottofondo; e ancora avanti con Sky Calcio Show, i selfie di Wanda Nara, i profili social dei giocatori. E poi le prime pagine dei giornali e i servizi sportivi, che alla vigilia di Inter - Juventus sono sicuri: non è Milano contro Torino, non è più nemmeno il derby d'Italia. È Icardi vs Cristiano Ronaldo.

Per lo show d'altronde serve l'uomo copertina, raffigurato sui poster o su giganteschi cartelloni pubblicitari, serve il volto spendibile. Non è un caso che gli americani non siano riusciti a vendere il calcio.

Scrive Simon Kuper nel suo bellissimo libro “Calcio e potere” (Isbn Edizioni) che il pubblico americano non apprezzò il pallone perché aveva già sport “picchiali e sfondali”, e dovendo loro confezionare tutto, non riuscirono a creare una pubblicità del prodotto efficace per la grande platea maschile.

D'altronde il pallone non è uno sport-spettacolo: ha bisogno dei suoi tempi, spesso ci si “annoia” per partite intere, e di base non si presta nemmeno a una narrazione individualistica, che è il mezzo più diretto per vendere (l'uomo-copertina, come detto in precedenza).

Il calcio è cultura perché si inscrive nel carattere e nella tradizione di tanti popoli, europei e sudamericani. È una rappresentazione sacra direbbe Pasolini, o semplicemente una rappresentazione nel senso più alto del termine: l'uomo in fondo è un animale rappresentativo, come scriveva Wittgenstein. E le rappresentazioni possono essere la religione, la morale, la politica, la guerra ma anche lo sport.

Non è spettacolo, è molto di più.

Il punto, adesso, sta nello spiegarlo alle nuove generazioni.