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Troppo facile sparare sugli ultras

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Troppo facile sparare sugli  ultras. Tutti contro gli uomini neri.

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Il giornalismo, sosteneva Jacques Derrida, non informa sui fatti o dei fatti bensì informa i fatti: li plasma, li orienta, decide ancora prima quali debbano essere fatti e quali no. Così, nell’escalation mediatica che abbiamo vissuto negli ultimi giorni, e nell’emergenza ultras creata dalle redazioni dei giornali e dalle segreterie di partito – dati alla mano, in Italia non esiste e anzi non è mai stata così lontana – la decisione spropositata del Ministro degli Interni Piantedosi, sospendere per due mesi le trasferte ai tifosi di Napoli e Roma, non arriva certo come un fulmine a ciel sereno. 

Cerchiamo però, almeno qui, di esercitare un minimo di onestà intellettuale. Di andare oltre il chiacchiericcio e le frasi fatte, oltre una narrazione dai toni bellici, tribali, talmente polarizzante da scadere nell’irrazionalità; di sfuggire al ricatto mediatico – e ad un metodo già ampiamente collaudato in altre ‘emergenze’ – per cui basta avanzare un paio di domande sulle ricostruzioni ufficiali per essere immediatamente marchiati come filo-ultras, e quindi sillogisticamente difensori dei criminali, collaborazionisti e fiancheggiatori dei teppisti. Come diceva un vecchio filosofo danese “se mi etichetti mi annulli”, ed è forse proprio per questo che negli ultimi anni etichette e patenti si sono sprecate. 

Ad ogni modo, in tuttà onestà, a noi di difendere gli ultras non ce ne frega proprio niente. Anzi. Il problema però sta anche qui, nel fatto che gli unici a cercare di approfondire la questione, oltre i ritornelli di una ‘tolleranza zero’ mai così populista, siano esponenti che fanno già parte di quel mondo: ultras, gente di curva, nella migliore delle ipotesi “giornalisti-tifosi”. Per il resto è tutto un fuoco incrociato di editorialisti e semplici scribacchini, presentatori in studio e anchorman televisivi, politici e pseudo-influencer; ci si sono messi persino gli attori, con l’intervento di Diego Abatantuono che, forse interpellato in quanto ex Zebrone, si è sentito di dire la sua:

«Le trasferte del tifo organizzato vanno abolite». 

Gli ultras sono diventati i nuovi ravers, una categoria marginalissima (e sostanzialmente inoffensiva) ma indifendibile per eccellenza, forse un’utile arma di distrazione di massa – dice qualcuno con malizia – per un governo alle prese con una difficile congiuntura economica, e chiamato ad utilizzare il pugno di ferro con bersagli facili quando non riesce a farlo per l’ordine pubblico in generale e i migranti in particolare (gli sbarchi sono aumentati di più del 50% negli ultimi tre mesi, con buona pace delle promesse da campagna elettorale). Così, continuando a pensare male, sembra che “l’emergenza ultras” arrivi come acqua nel deserto per la politica, e come un dono dal cielo per la sete di moralismo, catartica e purificatrice, del giornalismo nostrano.

Giornalismo che, emotivo e sensazionalista come non mai, ridotto ormai ad un ventriloquio della pancia del Paese o dei palazzi, dipende dai giorni, ha bisogno di creare l’emergenza, di sbattere in prima pagina l’uomo (vestito di) nero; nelle ultime ore è stato un tourbillon di ricostruzioni più o meno surreali, tra mappe degli autogrill stilate dagli ultras per scontrarsi, codici di riconoscimento per ingaggiare battaglie, metodologie di combattimento, patti segreti tra curve, matrici di estrema destra, dress-code e armamentari di guerriglia. Per non parlare poi delle “testimonianze-choc” delle madri di famiglia, di ritorno dalla settimana bianca con i bambini piccoli, che si sono trovate in questo scenario bellico e, allarmate, sono «andati via il più velocemente possibile».

Argomenti di sicuro incasso emotivo che invece non erano stati spolverati, ad esempio, quando un agente della Polizia Stradale, Luigi Spaccarotella, sparò ad altezza uomo due colpi di pistola che attraversarono sei corsie d’autostrada e viaggiarono per più di 60 metri uccidendo infine Gabriele Sandri: allora non passavano famiglie, nessuno tornava dalla settimana bianca né andava a fare una gita fuori porta, né madri né figli, e quel proiettile non avrebbe potuto colpire nessun altro se non un perfido ultras laziale (che stava dormendo in macchina). 

A tal proposito, nella sfilza di articoli un po’ da pubblici ministeri, un po’ da Cetto La Qualunque, c’è anche chi ha imputato la morte di Sandri alla violenza degli ultras, in un pezzo intitolato ‘Le vere star del tifo’ che attacca a testa bassa gli hooligans nostrani e lega Badia al Pino a Badia al Pino, il 2007 al 2023, scrivendo che 15 anni fa ci fu «una incredibile battaglia con un ragazzo che resta a terra ammazzato, il povero Gabriele Sandri», come se questo fosse stato ucciso dai tifosi rivali e non da un membro delle forze dell’ordine – ricordiamo anche che il colpo partì quando la rissa tra qualche tifoso laziale e juventino era già ampiamente terminata. 

Un racconto a reti unificate che ha scavato in profondità nei chiaroscuri del mondo ultras ma che, al contrario, è rimasto in superficie quando si trattava di interrogarsi più approfonditamente, ponendosi il problema di chi dovesse «amministrare e tracciare lo spostamento delle tifoserie più numerose del Paese: Osservatorio, CASMS, riunioni fiume di Prefetti, Questori. Un posto normale e sviluppato del globo avrebbe ammesso l’inutilità di divieti e avrebbe posto pesanti interrogativi su tutta la giornata. E al massimo ci si sarebbe occupato di punire i colpevoli (…) Sarebbe bello, quanto utopico, se questi giornalisti (se fossero in buona fede) ponessero domande e perplessità su tutto il resto», come scrive sul suo profilo il giornalista Simone Meloni. 

È proprio questo il punto ma, per l’ennesima volta, abbiamo deciso di abdicare alla razionalità per sprofondare nel campo dell’emotività, del facile e rinfrancante giustizialismo d’accatto.

Così il sistema mass-mediatico e l’opinione pubblica si sono ritrovati nella richiesta di condanne esemplari, e la retorica giornalistica si è saldata con il senso comune: giornali e Bar di tutto il Paese uniti dietro a formule vuote e irresistibilmente populiste quali “questi non sono tifosi”, “i danni li paghiamo noi”, “potevano restare ferite donne e bambini”. Un copione accompagnato dalle solite invocazioni sulle “famiglie allo stadio”, che secondo molti non andrebbero a vedere le partite per il pericolo di scontri – che negli impianti o subito fuori non si verificano da anni – e non per le strutture fatiscienti, il livello infimo del nostro campionato e soprattutto le alternative di intrattentimento migliori. 

Una trama riproposta anche da importanti giornalisti eppure una retorica che, con questi ultras, ha gioco facile. Inutile negarlo: molti di loro, soprattutto nelle grandi piazze, laddove maggiori sono gli interessi, sono brutti, volgari, feroci, inutilmente cattivi e prepotenti. La mutazione antropologica delle curve di mezza Italia negli ultimi decenni, specchio d’altronde del Paese, è desolante, per certi versi spaventosa: un autentico genocidio di umanità, laddove la parola umanità è spogliata di connotazioni morali. E non è questione di incidenti, che anzi negli ultimi anni sono calati drasticamente ad opera dei tifosi – come è costretto ad ammettere, dati alla mano, pure il Presidente della Lega Serie A Casini – bensì di spirito, contenuti, valori. 

Che piacessero o meno, una volta le curve erano sì luoghi di violenza ma anche di avanguardie, vecchi ideali, nuove sintesi, codici e leggi non scritte; oggi sono sempre più spesso luoghi di malaffare, di personalismi criminali, di gerarchie stabilite in base al grado di narcotraffico e ai legami con le organizzazione criminali; templi del tardo-nichilismo, etico ed estetico. Laddove il vecchio mondo (degli ultras) è morto e quello nuovo tarda a comparire, è in questo chiaroscuro, parafrasando Gramsci, che nascono i mostri. Ecco: tanti ultras oggi sono irrimediabilmente brutti, mostruosi, non più attrattivi da fuori bensì respingenti, repellenti. I migliori alleati possibili di chi vuole condannarli all’oblio. 

I media lo sanno e vanno a riprendere proprio loro, riproponendo a ciclo continuo le immagini più violente e disturbanti; un metodo surrettizio per demonizzare un’intera categoria e colpire un certo modello di tifo, troppo ingombrante, che i potenti del calcio già da anni stanno provando ad eradicare (Florentino Perez, Andrea Agnelli, Al-Khelaifi etc., per non parlare delle varie leghe nazionali e internazionali). Non a caso in Europa, a differenza di quanto accadeva fino a 10-15 anni fa, gli scontri negli stadi o subito fuori si sono drasticamente ridotti, e ciò contribuisce ad alimentare i dubbi di chi si chiede perché debba intervenire la giustizia sportiva – riscontrando quindi un coinvolgimento, seppur indiretto, dei club – per dei gruppi di persone che si scontrano in un autogrill o in un parcheggio.

Il codice di giustizia sportiva, l’articolo 26 per la precisione, prevede infatti la possibilità di ritenere le società responsabili delle violenze: «sia all’interno dell’impianto sportivo, sia nelle aree esterne immediatamente adiacenti». 

Non però in un autogrill che dista centinaia di chilometri dall’impianto “incriminato” più vicino. Perché, allora, vietare le trasferte per una rissa che ha bloccato un’autostrada? Perché la giustizia sportiva? Per quale ragione la stragrande maggioranza dei tifosi, che non va in trasferta con spranghe e coltelli ma al massimo con qualche striscione e bandiera (i romanisti in trasferta a Milano ad esempio erano 3000, quelli coinvolti negli scontri massimo un centinaio), ebbene perché questi tifosi devono essere penalizzati per “responsabilità indiretta” a causa di violenze che non avvengono nemmeno nei pressi dello stadio, ma in una stazione di servizio? Ma di cosa stiamo parlando? 

Sarebbe come vietare le manifestazioni solo perché dei fanatici si staccano dal corteo e distruggono la città – richiesta peraltro che troverebbe anch’essa, nel Paese, molti consensi. Club e tifosi devono così scontare l’incapacità degli organi preposti a gestire l’ordine pubblico e prevenire incidenti, il tutto per saziare un’opinione pubblica irrazionale (e condizionata mediaticamente) che richiede in maniera scomposta verdetti, punizioni, condanne: «sarebbe singolare che al coro di indignazione non venissero prese delle decisioni», ha affermato il ministro Piantedosi. Ecco l’indignazione come base legislativa, più forte della ragione e degli stessi codici di giustizia.

D’altronde gli ultras, quegli uomini neri, armati, quei reietti emarginati e violenti, così irriducibili all’ordine borghese, non hanno diritto neanche a un processo e ad un avvocato d’ufficio. Di più, vanno aboliti come categoria umana. Poco importa che siano stati protagonisti o meno delle violenze, poco importa la “personalità della responsabilità” sancita dall’articolo 27 della nostra Costituzione, ma ancor prima dal buon senso di qualsivoglia società civile; qui si tratta di ultras, e come tali responsabili di un peccato originale: di uno stile di vita, ancor prima che di tifo, da eliminare una volta per tutte. 

Ebbene noi che ultras non lo siamo stati e non lo saremo mai, noi che anche volendo siamo uomini di pensiero e non di azione, siamo qui per lanciare, un po’ come Toro Seduto ai ‘civilizzatori’, un avvertimento. Sì perché quando avremo bloccato l’ultimo striscione, fatto ammainare l’ultima bandiera, quando avremo spento l’ultima torcia e comminato l’ultima diffida, solo allora ci renderemo conto che il calcio, non senza tifosi bensì senza ultras, sarà senza colori

Quando avremo trasformato anche l’ultimo stadio in un teatro capiremo che il calcio che abbiamo voluto, quello che avevano in mente i potenti del pallone, depurato dai suoi retaggi novecenteschi con la complicità di media e politica, sarà diventato semplicemente uno sport: uno spettacolo per consumatori, un intrattenimento, da casa così come nella “esperienza” – o experience che dir si voglia – dello stadio, da vivere rigorosamente al proprio posto. Ci renderemo conto che peggio delle dinamiche criminali di alcune curve ci sarà l’omologazione delle stesse, trasformate in settori escusivi ma ancor prima escludenti; e che aveva ragione il Pasolini maturo, disilluso ma mai così lucido, giunto alla conclusione per cui

«la povertà non è il peggiore dei mali, e nemmeno lo sfruttamento. Il gran male dell’uomo non consiste né nella povertà né nello sfruttamento, ma nella perdita della singolarità umana sotto l’impero del consumismo». 

Lo stesso vale per la criminalità e la violenza, assai preferibili, nella loro minima percentuale, rispetto alla disumanizzazione del nuovo calcio a misura di storie instagram e video tik-tok. A quel puntoforse rimpiangeremo quei pazzi fuori tempo massimo, ultimi mohicani e banditi, ribelli senza causa e reietti per necessità; pure i più mostruosi, esaltati, violenti, effetto collaterale di un movimento di strada e riflesso di una società senza più un Dio.

Ci accorgeremo che qualche disagio alla circolazione e una cinquantina di feriti all’anno (46 l’anno scorso quelli riconducibili alle partite di Serie A, tra agenti e civili) non erano poi questa grande emergenza nazionale. E capiremo che in fondo i violenti bastava arrestarli, come prevede la legge, senza penalizzare club e tifosi. Risparmiandoci l’intervento dei ministri, i processi delle televisioni, gli inviti a “vietare le trasferte del tifo organizzato”; e i fondi, dal sapore mai così amaro, dei giornali.