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Battiato e il calcio, spirito e materia

Franco Battiato
Franco Battiato

Era il 9 marzo del 1997 quando uscì per La Gazzetta dello Sport un’inedita intervista di Sebastiano Vernazza a Franco Battiato. Qualche mese prima era uscito “L’imboscata”, un album dall’apporto fortemente filosofico grazie ad alcuni testi curati dal filosofo Manlio Sgalambro, che aveva riportato l’artista siciliano in testa al tabellone del mercato discografico.

Eppure, di ben altra classifica e trappola si sarebbe trattato nell’intervista: «Spero che l’agguato riesca. Per il piacere del rovescio, per l’interesse del torneo, per spirito cabalistico». Si parlava del campionato di Serie A e dell’assalto che l’Inter di Moratti prometteva alla Juventus capolista. Musica, filosofia e pallone, la trinità delle passioni di uno dei cantautori più spregiudicati e per questo amati della nostra scena.

Le dichiarazioni alla Rosea sono la prima testimonianza orale del rapporto appassionato, ma intimo, che lega il Maestro al mondo del calcio. Un altro insospettabile calciofilo, la cui levatura culturale contribuisce a riscattare la categoria degli adepti di Eupalla, di fronte agli occhi scettici dell’opinione pubblica. E questo esordio certo dovette incuriosire molto Vernazza: forse un tifoso interista Franco Battiato? No, non ci si lasci ingannare. Il suo sguardo è troppo profondo per essere obnubilato dal radicalismo della fede in una sola maglia.

“No. Simpatizzo per squadre che giocano bene come Vicenza e Atalanta: formazioni senza fuoriclasse, ma con un’anima”

Ecco, l’anima di una squadra, riferimento ad una sorta di misticismo che sul campo fonde insieme e sublima tattica, tecnica ed agonismo. Qualcosa che non si allena e non si può toccare, un particolare modo di affrontare la vita, lo sport ed il calcio. In fondo tutto ciò che chiede un tifoso ai giocatori che difendono i suoi colori; in altra parole l’oggetto dell’infinita ricerca del cantautore nativo di Ionia.

Il suo sguardo è proprio dell’intellettuale che sul rettangolo verde sa cogliere insegnamenti morali ed esistenziali, perfino un afflato poetico. Battiato segue le orme di Camus e Pasolini: una prospettiva sensibile ed indagatrice, alla ricerca della quintessenza del gioco. Qui, dichiara la sua simpatia per Vicenza e Atalanta, due delle più nobili rappresentanti della provincia italiana, una casta destinata ormai a ricercare una gloria che non si concretizza in coppe e trofei, diventate ormai appannaggio del dispotismo metropolitano.

Proprio nella stagione ’96/97, mentre grazie alla sentenza Bosman Nedved, Zidane, Djorkaeff, Zamorano e Thuram (solo per citarne alcuni) iniziavano a calcare i campi del (fu) campionato più bello del mondo, nelle parole di Battiato si poteva intravedere il declino dell’universo calcistico italiano ed internazionale:

“Mi sembra che il calcio di trent’anni fa possa definirsi statuario se paragonato al football di oggi. Vedo tiri incredibili, giocate ad altissime velocità. La competizione sta guastando la purezza dello sport. Falli brutti, tensioni. Un tempo c’era più gentilezza: chi commetteva una scorrettezza si scusava immediatamente. L’aspetto commerciale predomina. Ovunque, non solo nel calcio”.

In effetti si trattava dell’inizio, appena percepibile, di un calcio destinato a diventare sempre meno arte e sempre più spettacolo. In cui, tuttavia, soggiaceva ancora una bellezza originaria, quasi esotica, insita nel gioco e nelle vite di alcuni grandi interpreti. A colpire Battiato fu ad esempio il fantasista dell’Inter Youri Djorkaeff, incarnazione delle sue passioni per il calcio ed il misticismo orientale.

«É francese, ma le sue radici sono armene, della genia dei Calmucchi. Un antico proverbio dice: ci vogliono sette russi per fare un armeno” – Che cosa significa? – Che l’armeno è furbissimo commerciante e ha spiccate qualità mistiche. Paese affascinante, l’Armenia. Mi sovviene una antica leggenda di quelle terre: si dice che se un membro della tribù degli Yasidi fa un cerchio per terra da lì non si esce, si resta prigionieri». Come un difensore irretito in un dribbling, si potrebbe azzardare metaforicamente.

Nella sua vita l’amore per il pallone non è rimasto però sempre relegato ad una dimensione platonica. Nell’intervista emerge che questo rapporto fu anche e soprattutto concreto, con un Battiato che da giovane fu anche un calciatore: «Da ragazzo, tra gli anni ‘50 e ‘60. Ero mediano e mi ritrovai ad agire come libero. Un ruolo nuovo, per l’epoca. Credo di essere stato uno dei primi liberi siciliani. In senso temporale, intendo».

La squadra che contava tra le sue fila il giovane Franco Battiato era quella di Riposto, a metà strada tra Taormina e Catania. Vestendo questa maglia, il Maestro raggiunse anche la Promozione, ma la squadra dovette ritirarsi dal campionato per motivazioni finanziarie. Fu un’esperienza breve, certamente, ma significativa per almeno due episodi. Innanzitutto, perché è proprio alla carriera da calciatore che si deve il profilo del suo iconico naso, come da lui stesso ammesso:

“Confermo. Avevo 12 o 13 anni e un giorno, durante una partita, sbattei contro un palo della porta. Restai svenuto a lungo. Quando tornai in me, il naso era lievitato. Mio fratello suggerì: «Vai a casa e fila a dormire senza farti vedere!». Il mattino dopo la nonna venne a svegliarmi e alla vista della mia faccia prese ad urlare. Era una Sicilia distratta, accadevano cose tribali. Mia madre si preoccupò, ma aspettò una settimana prima di portarmi dal dottore. Il medico sentenziò: «Se l’avessi visto subito, gli avrei ridotto la frattura. Ora non posso fare più niente».

In secondo luogo per la partita che Battiato ha voluto raccontare come la più significativa della sua carriera, contro l’Acireale: «Noi primi in classifica, senza la macchia di una sconfitta. Inchiodammo gli avversari nella loro area, ma non c’era verso di segnare: pali, traverse, deviazioni. Io passai il tempo a grattarmi le caviglie sulla linea di centrocampo. All’ultimo minuto l’ala destra dell’Acireale partì in contropiede ed effettuò un cross per l’ala sinistra. Intercettai maldestramente il passaggio e spedii la palla all’incrocio. Un autogol meraviglioso».

Per la cronaca, alla fine il campionato fu conquistato comunque dal Riposto, ma è interessate notare come Battiato scelga di soffermarsi sull’autogol, l’errore, la sciagura almeno momentanea. Decide di esaltare l’essenza di un gesto tecnico che rimane meraviglioso, anche se indirizzato nella porta sbagliata. L’atto non l’azione, per citare un altro intellettuale che nel calcio sapeva individuare significati che andavano al di là del mero risultato inscritto sul tabellino dei marcatori.

“Il 6 giugno 1985. Libero della nazionale cantanti. Contro la rappresentativa di Lega femminile. Subito dopo essere sceso in campo l’ala sinistra avversaria mi è scappata via. È sempre duro accettare di essere superato da una donna. Anche a 40 anni.

Così, per inseguirla, ci ho messo uno sforzo in più: ho visto il campo ruotarmi attorno e ho deciso di rientrare negli spogliatoi. Non giocavo da 22 anni”.

Così Battiato racconta la sua ultima esperienza da protagonista sul rettangolo verde. Anche qui, si potrebbe andare oltre alle parole: l’ironia nel raccontare il maschio superato dalla femmina, nel suo campo (letteralmente) d’elezione, e la resa di fronte al tempo che passa e l’età che avanza. Arte e mercato, vita e sport, mistica ed insegnamenti esistenziali: gli appassionati avranno sempre bisogno di occhi e menti che sappiano cogliere i significati più reconditi del calcio.