Il senso di giustizia nelle canzoni di Fabrizio de Andrè
“Con l’andare del tempo si scopre che gli uomini sono dei meccanismi talmente complessi, che tante volte agiscono indipendentemente dalla loro volontà. Allora finisci per trovare poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Se estendi questo tipo di indulgenza anche a te stesso, riesci ad avere un rapporto meno contrastato con il tuo prossimo. La cosa curiosa è che l’avevo capito fin da quando avevo vent’anni e scrivevo cose come «se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo».”
Questa frase è di Fabrizio De André e se c'è un cantautore o un autore di canzoni che si è costantemente, in maniera più o meno palese, occupato di giustizia, questo è proprio Fabrizio De André. Per il quale tale interesse non è episodico, ma talmente costante che non sembra eccessivo dire che il “senso di giustizia” rappresenti per lui una delle basi, se non proprio la base, di tutta la sua poetica.
Il primo “manifesto” della giustizia secondo De André è rappresentato dai versi finali di Città Vecchia, canzone che si occupa del piccolo mondo criminale dell’angiporto genovese, e cui faceva riferimento il cantautore nella citazione all’inizio:
Se tu penserai, se giudicherai
da buon borghese
li condannerai a cinquemila anni
più le spese
ma se capirai, se li cercherai
fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo.
Ecco qui il codice giuridico deandreiano: se il delinquente è comunque una “vittima di questo mondo”, con quale autorità un giudice può condannarlo e punirlo?
Da qui deriva la contestazione e lo sberleffo verso chi la giustizia la amministra.
Prendiamo Il gorilla: la canzone non è sua ma bensì di George Brassens, ma lui sceglie di tradurla (piuttosto fedelmente) perché ci si identifica. Come molti sanno, racconta del gorilla di un circo che, trovata la libertà, pensa di sfogare i propri… bassi istinti a lungo repressi e dovendo scegliere tra “una vecchia” e un giudice, inopinatamente sceglie il secondo che non gradisce e infatti
negli intervalli gridava “mamma!”
gridava “mamma!” come quel tale
cui il giorno prima come ad un pollo
con una sentenza un po' originale
aveva fatto tagliare il collo.
Insomma una sorta di nemesi divina.
E troviamo un altro giudice-carnefice in Un giudice, canzone anch’essa non di De André ma adattata da una poesia di Edgar Lee Masters con cui, ancora, De André deve aver sentito un’affinità. Qui troviamo un nano che, sbeffeggiato per una vita, si vendica amministrando la giustizia… a modo suo. Ennesima dimostrazione di come De Andrè giudichi ingiusta quella giustizia che si trasforma in mero strumento per esercitare il proprio potere.
Emblematico in questo senso anche tutto l’album “Storia di un impiegato” che attraverso diverse canzoni narra la storia di un uomo “normale” che vessato dal potere decide un atto sovversivo e clamoroso: far esplodere una bomba. Che però per un errore, invece di provocare un disastro fa esplodere solo un’edicola. Il protagonista, catturato e imputato di tentata strage, si scopre essere stato lui stesso “strumento del potere” che l'ha usato per eliminare quanto ostacolava il suo dominio totale, finendo per assumere, lui imputato, inconsapevolmente la veste sia di giudice che di carnefice, in un ribaltamento di ruoli che esprime la pessima considerazione di De André nei confronti della giustizia. Da cui prende le distanze come nel finale di Canzone del padre in cui il bombarolo che viene condannato canta
non mi aspettavo un vostro errore
uomini e donne di tribunale
se fossi stato al vostro posto…
ma al vostro posto non ci so stare
Quindi De André che “al posto dei giudici” non ci sa e non ci vuole stare, ha sempre durissimamente contestato l’azione e la legittimità stessa della giustizia terrena. Ma APPARENTEMENTE è arrivato a contestare in qualche modo anche quella divina
In Il testamento di Tito – canzone che dà voce a uno dei ladroni sulla croce accanto a quella di Cristo – prende in esame uno a uno i dieci comandamenti e li demolisce con la propria logica:
Onora il padre, onora la madre
e onora anche il loro bastone,
bacia la mano che ruppe il tuo naso
perché le chiedevi un boccone:
Ricorda di santificare le feste.
Facile per noi ladroni
entrare nei templi che rigurgitan salmi
di schiavi e dei loro padroni
senza finire legati agli altari
sgozzati come animali.
(…)
Il quinto dice non devi rubare
e forse io l'ho rispettato
vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie
di quelli che avevan rubato:
ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio.
(…)
Il settimo dice non ammazzare
se del cielo vuoi essere degno.
Guardatela oggi, questa legge di Dio,
tre volte inchiodata nel legno
Ma a guardare bene, forse quello che lui contesta non è tanto la legge di Dio quanto l'interpretazione che per loro tornaconto ne danno gli uomini: se è vero che in un'altra canzone, Preghiera in gennaio scritta dopo il suicidio di Luigi Tenco, contesta duramente il fatto che all'epoca la chiesa negava esequie religiose a chi si toglieva la vita, sostenendo che per loro fosse precluso il regno dei cieli
Quando attraverserà
l'ultimo vecchio ponte
ai suicidi dirà
baciandoli alla fronte
venite in Paradiso
là dove vado anch'io
perché non c'è l'inferno
nel mondo del buon Dio.
Dio di misericordia
il tuo bel Paradiso
lo hai fatto soprattutto
per chi non ha sorriso
per quelli che han vissuto
con la coscienza pura
l'inferno esiste solo
per chi ne ha paura.
Dunque, ancora una volta, forse è l'interpretazione umana, non la legge di Dio ciò che lui contesta.
E il concetto di giustizia sempre e comunque in difesa degli ultimi non è una teoria che De André abbia riservato solo alle canzoni. Non è una mera enunciazione teorica. La sera del 27 agosto 1979, lui e la compagna Dori Ghezzi furono sequestrati in Sardegna e rimasero prigionieri per quattro mesi nelle grotte del Supramonte. Durante il processo, il cantautore, coerente con le proprie idee di difensore degli oppressi, perdona, anzi giustifica i propri carcerieri (cosa che invece non fa con i mandanti). A testimonianza di una convinzione che non è solo soggetto di espressione artistica, ma anche principio di vita reale.
In sintesi, per Fabrizio De André, la legge degli uomini non potrà mai reggere al vaglio di una visione di reale giustizia, e ce lo ribadisce, per l’ultima volta, in una delle sue ultime canzoni, Khorakhanè (a forza di essere vento).
e se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e sfortuna
allo specchio di questa kampina
ai miei occhi limpidi come un addio,
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio.
Insomma, per lui, solo di Dio è la giustizia giusta, non degli uomini, nessuno dei quali è in grandi di assumere il Suo “punto di vista”.
E tuttavia, la giustizia, andrà comunque amministrata anche in terra: quindi come se ne esce?
Come tutti i grandi, come Bob Dylan, ad esempio, De André fa domande, ci invita a meditare su certi temi, ma si guarda bene dal dare risposte non reputandosi in grado di insegnare niente a nessuno.
Non sappiamo se con gli anni e la saggezza della vecchiaia avrebbe cambiato prospettiva: l'11 gennaio 1999, a 59 anni, De André ci lasciava, chissà, forse con il tempo avrebbe trovato una risposta, o forse, anche per lui come per Dylan, la risposta avrebbe continuato a soffiare nel vento.