x

x

Il sistema del “politicamente corrotto” e l’Italia che finge di essere una nazione

Italia
Italia

Giancristiano Desiderio dedica il suo breve saggio L’individualismo statalista “Agli Italiani, naturalmente”, con la I maiuscola. Ma l’impietoso ritratto che ne esce, quello di un popolo “di sana e corrotta costituzione”, non dà adito a speranze di riscatto. Lavorare per il bene comune non fa parte del nostro Dna: ogni italiano, furbo, concreto e scrupoloso nella gestione degli affari privati, è concentrato solamente a coltivare il proprio orticello. Nel governo della vita pubblica le cose cambiano, qui si dimostra superficiale, astratto, invidioso e borioso.

La sottomissione secolare alla Chiesa, la divisione territoriale in staterelli, regni, città e ducati, e l’intromissione dello “straniero” hanno impedito in Italia lo sviluppo dei tre pilastri della vita pubblica moderna: individuo, Stato e nazione. Gli italiani non hanno una patria, non hanno un’identità definita, allo Stato italiano non corrisponde una nazione e viceversa. Gli italiani sono a casa soltanto fra le mura domestiche, eppure vogliono che lo Stato sia ovunque, con il risultato che è là dove non serve, e non è là dove invece servirebbe.

La politica si riduce a una carnevalesca messa in scena basata sulla finzione, banali recite collettive in cui i politici sanno di mentire e i cittadini fingono di credere alle loro menzogne. Ecco dunque il carattere illiberale della democrazia italiana degenerata in partitocrazia, in sistema mafioso e familistico che non prevede l’alternanza democratica al governo, ma l’instaurazione di un regime incentrato su un blocco con cui accordarsi.

 

Qui di seguito un significativo estratto

 

Dunque, gli italiani fingono. Lo fanno per tradizione e per necessità. Fingono di credere nello Stato. Perché? Perché lo Stato – le istituzioni – non è nato dagli italiani ma, al contrario, gli italiani sono nati dallo Stato. Non sono state le libertà civili a dar vita allo Stato come forma istituzionale posta a garanzia delle libertà ma, all’inverso, lo Stato ha tentato di dar vita alle libertà civili degli italiani. Così fu ieri, così è oggi che le libertà sono scadute a diritti costruiti dalla legislazione. Ci va di mezzo, in questo modo, la qualità o il carattere della nostra libertà – i costumi, gli abiti morali, le abitudini, l’intraprendenza, le industrie, l’indipendenza della cultura; ossia tutto quel mondo che non riguarda solo la libertà dello Stato, ma anche e soprattutto la libertà dallo Stato – di quella libertà nostra che è priva di responsabilità, di vigore, di volontà, che non va oltre i ristretti confini della famiglia e che traducendo il pubblico in statale e l’etica in ministero è la quintessenza dell’individualismo statalista.

La famosa frase attribuita a Massimo D’Azeglio «s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani» ha in sé dell’ironia ma soprattutto è ambigua e illusoria: chi ha fatto l’Italia se non c’erano gli italiani e come si potranno fare gli italiani se l’Italia non è stata fatta da loro? Questa frase è la nostra biografia nazionale e individuale, intellettuale, morale e psicologica. C’è tutto. Ciò che siamo e ciò che non siamo, ciò che avremmo voluto essere ma che non siamo diventati. A “fare gli italiani” ci hanno provato in tanti, inutilmente: sono stati mandati al fronte, sono stati messi in camicia nera, rossa, bianca, verde e ora persino a stelle senza strisce, ma niente da fare. Sul tema si possono citare intere biblioteche e bibliografie: Cavour e Mazzini, Vittorio Emanuele e Garibaldi, moderati e democratici, liberali e cattolici, città e campagna, borghesi e contadini, Risorgimento eroico e senza eroi, Giolitti e i socialisti, Sturzo e i popolari, Mussolini e il fascismo, De Gasperi e i democristiani, Togliatti e i comunisti. Tutto vero. Interessante. Ma il punto è un altro.

Siamo un paese a metà che è giunto tardi all’unità nazionale e ha tentato di darsi e farsi uno Stato, ma non è mai uscito dai limiti e dai confini dell’Italia delle regioni e dei comuni. Cos’è il federalismo se non l’ammissione di questa sconfitta storica? L’Italia federalista o della devolution o del regionalismo dei governatori non è né una riforma, né una conquista, né una vittoria. È una resa. L’unica, vera invenzione politica italiana è il Comune – il signore e la Signoria, il Principe e i cortigiani ne sono uno sviluppo – e gli italiani sentono come proprio solo il Comune e si accapigliano e azzuffano con passione con calcolo e perfino fierezza solo nel Comune. Qui c’è l’Italia vera; lì, nella nazione, c’è l’Italia falsa. Semplicemente non siamo una nazione ma un aggregato o insieme di regioni, città, comuni, municipi, paesi, tipicità. Fingiamo di essere una nazione ed è in questa finzione che si svolge la vita pubblica italiana in cui diamo mostra di credere in ciò che non siamo, non vogliamo, non sappiamo.

La commedia è la cifra stilistica dell’anima nazionale. La recita è la ragion pratica della politica. Tutti ne abbiamo esperienza. Tutti abbiamo ascoltato almeno una volta nella vita il discorso vuoto di un politico: un deputato, un ministro e, per li rami, un sottosegretario, un presidente di Regione, un sindaco, un assessore. La caratteristica di fondo del discorso pubblico del politico italiano è la falsità: il politico non crede in ciò che dice. Calcolo? Astuzia? Machiavellismo? No. Banale recita. Il politico non solo dice il falso, ma è autorizzato a dirlo. Da chi? Dagli italiani che fingono di credergli. Finge chi parla, finge chi ascolta. È una recita collettiva. Corale. La nazione messa in scena. Perciò alla fine ciò che conta è il retroscena.

Gli italiani non sono italiani, ma fanno gli italiani. Sentono di doversi fare, proprio come voleva, ma in altro senso, D’Azeglio. Quel che Raffaele La Capria dice per i napoletani – che recitano a fare i napoletani – vale per tutti: romani, milanesi, siciliani, pugliesi, emiliani, romagnoli, veneziani, sardi, toscani. Sono loro finché stanno a casa loro, ma quando escono di casa recitano a fare gli italiani. Gli italiani fanno gli italiani perché chi sono realmente non è facile saperlo. L’antica questione dell’identità – che in un paese serio non è neanche posta perché è risolta nell’unico modo possibile: con la storia nazionale alla quale si sente di appartenere – è per noi un rompicapo. Gli inglesi si sa chi sono. Sono: “Dio salvi la regina”, il governo del primo ministro, l’individuo e le istituzioni liberali, la democrazia più antica del mondo. Sanno talmente bene chi sono che non hanno rinunciato alla sterlina e hanno scelto la Brexit. La Francia avrà la fissa per la grandeur e il 14 luglio e per Bonaparte, ma è la più antica nazione europea. La Germania ha i sensi di colpa per aver dato fuoco al vecchio continente, ma sa chi è e cosa vuole e se c’è chi sa costruire nazioni questi sono i tedeschi. La Spagna non è da un pezzo l’impero su cui non tramonta mai il sole, tuttavia un’Europa senza la Spagna è inconcepibile. Ma noi chi siamo? Chi siamo – intendo – quando siamo noi stessi ossia nella nostra identità nazionale e non quando siamo gli italiani nel mondo o gli italiani a casa nostra. Perché proprio questo è il punto: gli italiani sono universali, ma non sono nazionali. Hanno contribuito come pochi altri popoli a costruire la patria del mondo moderno, ma qual è la nostra patria? Noi chi siamo? Tutto e niente. E per essere qualcuno o qualcosa dobbiamo metterci in mostra, dobbiamo far vedere chi siamo. Appunto, dobbiamo fare gli italiani. È il nostro limite che a volte può diventare anche la nostra virtù perché ci salvaguarda dal cadere nel fanatismo (ma non sempre la salvaguardia funziona).

Giancristiano Desiderio, L’individualismo statalista. La vera religione degli Italiani, Liberilibri, collana Oche del Campidoglio, pagg. 134, euro 15.00, ISBN 978-88-98094-42-4.