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La Criminologia occidentale negli Anni Duemila

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La Criminologia occidentale negli Anni Duemila

 

Presupposti e fondamenti metodici della Criminologia

Francia & Verde (1986)[1] hanno sostenuto che “la Criminologia può trovare il suo oggetto nello studio del male, sicché risulta difficile esimersi dalla domanda sulla libertà, o meno, nel compiere questo male”. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, l'approccio criminalistico prevalente era decisamente determinista. P.e., Lombroso e Ferri postulavano come assente la libera volontà umana, in tanto in quanto il c.d. “uomo delinquente” sarebbe affetto da tare ereditarie geneticamente precostituite ed insormontabili. L'infrattore, quindi, veniva presentato come un “pazzoide malato” non riconducibile alla normalità tipicamente manifestata dall'ordinario cittadino borghese dell'epoca. Del pari, in ambito sociologico, i primi Autori della Criminologia europea affermavano che la precarietà abitativa e la criminogenesi di talune zone geografiche incidono negativamente sull'individuo, trasformandolo in un deviante etero-lesivo. Anche il tal caso, il condizionamento ambientale era percepito come inamovibile e perennemente negativo. Si tratta di tesi financo ridicole, a parere di chi redige; anzi, è profondamente anti-democratico e retribuzionista negare la trattabilità pedagogica del reo, poiché nessun soggetto è irrecuperabile. Tantomeno, un'infrazione penale giovanile non determina necessariamente l'inizio di una vera e propria carriera delinquenziale.

In effetti, Merzagora Betsos (2012)[2] nega che “colpevoli si nasce […] non tutti gli Autori – contemporanei o poco lontani nel tempo o già appartenenti alla storia della Criminologia – assumono posizioni esplicitamente deterministe e, piuttosto, talora dei loro punti di vista sono state date letture deterministiche e deresponsabilizzanti”. D'altronde, il determinismo criminologico va rigettato, nella misura in cui esso si manifesta contrario alla ratio rieducativa del carcere. D'altra parte, nella fattispecie emblematica dell'Ordinamento italiano, i padri costituenti, nel comma 3 Art. 27 Cost., hanno negato l'esistenza di pregiudicati refrattari alla riabilitazione penitenziaria. Il deviante, specialmente in età giovanile, non è quasi mai refrattario ad assimilare stimoli pedagogici. In un contesto non giustizialista e fedele ai principi di proporzionalità della pena, è raro che il borderline metta in atti condotte recidive dopo l'esperienza del carcere, pur se i mass media costruiscono la falsa immagine del delinquente abituale che resiste a qualsivoglia sforzo rieducativo. Anzi, quando un Ordinamento giuridico e sociale reca levati tassi di recidiva, la responsabilità non va attribuita all'ex detenuto, bensì ad un trattamento penitenziario eccessivamente rigoroso e demotivante, come dimostra pure il colossale fallimento della “zero tolerance” negli USA.. Il reo non è un essere irragionevole e, se pazientemente riabilitato, raramente ripete gli errori pregressi; il tutto alla condizione che il sistema sociale dia credito anche al pregiudicato da reinserire nel tessuto collettivo.

Probabilmente, il mito della non-rieducabilità del delinquente nasce da errori di valutazione cagionati da metodi statistici impropri e poco scientifici. Infatti, come chiarisce Radzinowicz (1968)[3], “nell'Ottocento, […] è adombrata una visione del crimine di tipo deterministico, ma […] bisogna tener presente la differenza tra le leggi statistiche valide per i grandi numeri e gli spazi della scelta individuale […]. E' impossibile la previsione sul comportamento futuro di un singolo individuo [e] va confermato il principio della perfetta indipendenza della scelta umana”. In definitiva, Radzinowicz (ibidem)[4] reca il merito di aver contestato la fallacia delle prime Statistiche criminologiche elaborate tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. A parere di chi scrive, come dimostrano le Ricerche dello svizzero Killias, soltanto verso gli Anni Sessanta del Novecento, si è giunti a produrre Statistiche attendibili grazie all'analisi computerizzata dei dati raccolti. Inoltre, vanno rigettati i Censimenti di breve periodo, in tanto in quanto una corretta valutazione della criminalità è seria soltanto se proiettata nel lungo periodo. In epoca attuale, dominano, purtroppo, i sondaggi criminologici di stampo populistico, allestiti per compiacere questa o quell'altra fazione politica. Come suesposto, Killias ha dimostrato la necessità di Ricerche indipendenti e durevoli, nell'ottica della totale non prevedibilità dell'agire umano. Malaugurevolmente, la Criminologia occidentale è stata per troppo tempo influenzata da approcci statistici grossolani ed inficiati da pregiudizi ideologici o, peggio ancora, propagandistici.

Dopo il secondo conflitto bellico mondiale, la Criminologia, nelle proprie Statistiche autenticamente scientifiche, ha iniziato a notare che la volontà delittuosa dei rei è fortemente influenzata dagli ambienti potenzialmente criminogeni. Il pensiero corre alle degradate periferie delle città europee, ove gli stranieri ed i tossicodipendenti creano micro-cosmi isolati ed assai esposti alla criminalità violenta. A tal proposito, Ponti & Merzagora (1990)[5], negli anni in cui pure l'Italia stava diventando terra d'immigrazione passiva, hanno evidenziato che “pur se il singolo individuo può apparire dotato di un certo margine di libertà nelle sue scelte comportamentali, considerando, invece, tutti gli individui, questo spazio è così ristretto che, date certe circostanze nell'organizzazione sociale, il delitto deve inevitabilmente realizzarsi. In altri termini, nella società sono insite le cause per le quali le azioni umane, per una quota di soggetti, possono essere intese come necessariamente e fatalmente condizionate ad orientarsi in senso delittuoso”. Negli Autori summenzionati, compaiono gli avverbi “ fatalmente e necessariamente”, sintomo di un nuovo determinismo criminologico. In realtà, non manca una “quota” di individui, soprattutto le donne integrate ed esogamiche, che si affrancano dalla criminogenesi sociale ed abitativa. Senza dubbio, l'”ambiente” crea “criminogenesi”, ma, sotto il profilo “crimino-dinamico”, come più volte asserito da Merzagora, rimane intatta la libertà e la responsabilità del singolo.

A parere di chi commenta, ad esempio, una immigrata donna ben inserita, tende, in età adulta, ad abbandonare gli stili di vita delinquenziali tipici del proprio sotto-gruppo culturale d'origine. Alla luce di tali affermazioni, in Ponti & Merzagora (ibidem)[6], pare, dunque, fuori luogo l'espressione “necessariamente e fatalmente”. Dopotutto, il minore straniero di seconda o terza generazione raramente mantiene i comportamenti tipici degli ascendenti e, viceversa, si uniforma, nella maggior parte dei casi, alle abitudini degli autoctoni. In ogni caso, risulta maggiormente accettabile il “determinismo sociale” rispetto al “determinismo biologico” di Lombroso. In effetti, è inaccettabile,e, talvolta, razzista parlare del “delinquente nato” munito di presunte tare somatiche congenite, come il naso trilobato, le orecchie da scimpanzé, la scarsezza dei peli, i denti sovrannumerari, l'indice cefalico anormale e la fronte sfuggente. Può darsi un certo grado di influsso “socio-genetico” sul crimine, ma le osservazioni fisio-patologiche di Lombroso fanno sorridere.

Secondo Lombroso esistono specie umane naturalmente tendenti alla delinquenza, e ciò è profondamente offensivo sotto il profilo della tutela della dignità umana del deviante. Oltretutto, Lombroso ha effettuato i propri studi senza l'appoggio dell'EEG, della PET e di molti altri strumenti più avanzati, ancorché discutibili, perché attualmente oggetto di abusi voluti da una Medicina tracotante ed onnipresente. Villa (1985)[7] riferisce che “Lombroso parla di malati e di diversi; tant'è vero che, quando poi analizza il brigantaggio bancario o la delinquenza politica, si rende conto che le sue teorie sull'atavismo non erano applicabili a questi criminali […] L' autore fa ammenda affermando che la sua grande dimenticanza sta nel fatto di non aver tenuto sufficientemente conto dei molti condotti al delitto non da una sventurata organizzazione o da reiterate o perverse abitudini, specie alcolistiche, ma dall'accidentale incontro di circostanze che spinsero al crimine uomini deboli ed oscillanti tra il bene ed il male”.

Dunque, come si nota, persino Lombroso è stato costretto ad ammettere la sussistenza di condizionamenti sociali più pericolosi delle presunte tare ereditarie.

Purtroppo, anche Ferri, ne “La teoria dell'imputabilità e la negazione del libero arbitrio” sposa le tesi deterministiche di Lombroso e parla di “motivi invincibili”, ovverosia di “tare” psicofisiche inducenti alla delinquenza. Quindi, anche Ferri dilata ultra vires le nozioni di infermità/seminfermità mentali.

Un ruolo importante ha pure Sutherland, il quale pratica un determinismo moderato. Come riferito da Mannheim (1975)[8], la posizione di Sutherland [in materia di libera volontà nel delinquere] è che, quantomeno in molte delle situazioni che si presentano, il comportamento delinquenziale non è determinato in modo assoluto, ma solo in relazione ad altri comportamenti con i quali viene confrontato al momento di fare delle scelte”. In altre parole, Sutherland reca una visione “multifattoriale” della devianza anti-giuridica. Infatti, come rimarcato da Ceretti & Merzagora (1986)[9], “[nelle Opere di Sutherland] si nota una certa confusione fra il concetto di correlazione e quello di causa […] Sono state individuate e descritte, piuttosto accuratamente, le differenze relative [anche] alle caratteristiche fisiche, all'intelligenza, al temperamento, ai tratti psicopatici, all'ambiente familiare e micro-sociale ed alle situazioni economiche. Ancora, sono state determinate […] le differenze percentuali di delinquenza tra Inghilterra ed America […], tra città e campagna, tra differenti quartieri di una stessa città, tra  maschi e femmine, tra neri e bianchi e tra gli immigrati ed i loro figli. Ma, appunto, si tratta di correlazioni, non di nessi causali”

Pertanto, è evidente che Sutherland non si è ancora affrancato dall'approccio eminentemente psico/fisico-patologico di Lombroso; tuttavia, nell'Autore anglofono qui in questione, per la prima volta nella storia della Criminologia occidentale, vengono menzionate eziologie non psichiche della delinquenza. Sutherland, sebbene indirettamente, anticipa la ratio dell'influsso potenzialmente criminogeno delle cc.dd. “agenzie di controllo”, come la famiglia, l'ambito sociale ed il contesto abitativo.

Negli Anni Sessanta del Novecento, la Dottrina criminologica della “nuova difesa sociale” ha, finalmente, abbandonato il determinismo lombrosiano, attraverso il concetto di “pedagogia della responsabilità”, ossia il delinquente può essere socialmente recuperato ed egli non va neutralizzato attraverso un impiego ipertrofico del Diritto Penale. Ancel (1966)[10] si dichiara decisamente favorevole alla “liberante” rieducazione del reo, in tanto in quanto “la politica criminale di difesa sociale poggia sulla responsabilità individuale, la cui realtà esistenziale costituisce uno dei cardini principali del sistema. Questa responsabilità, fondata sul sentimento intimo e personale della libertà dell'individuo, è il principale motore del processo di recupero sociale (resocialisation) dell'individuo […]. Il criminale non va solo rinchiuso, secondo una finalità di difesa sociale, ma va rieducato: per il Criminologo che ritiene che tutto è determinato, e magari determinato dalla conformazione biologica, viceversa, il trattamento rieducativo e ri-socializzativo del delinquente non ha senso”. Come si può notare, Ancel (ibidem)[11] ha provvidenzialmente abbandonato le teorie novecentesche della “tara” criminogena ereditaria. Finalmente, grazie alla corrente di pensiero della “nuova difesa sociale”, il deviante è percepito come “libero” di voler delinquere, ma anche altrettanto “libero” di rieducarsi attraverso un buon trattamento penitenziario che non sia soltanto retributivo.

Grazie ad Ancel (ibidem)[12], la Criminologia si è affrancata dal determinismo patologico ed ha sposato l'idea di un carcere conforme, nel caso dell'Ordinamento italiano, al principio della pedagogia rieducativa ex comma 3 Art. 27 Cost. . Ciò non significa aver risolto le mille problematiche connesse al trattamento carcerario, ma, perlomeno, il predetto Autore degli Anni Sessanta del Novecento ha ripristinato la dignità del recluso, inteso come soggetto intelligente e, per conseguenza, capace di rispondere positivamente alla rieducazione degli operatori penitenziari. All'opposto, Lombroso e Ferri esortavano ad una visione animalesca e degradante dell'infrattore. Siffatta prospettiva umanizzante del carcere, oltretutto, è conforme alla clausola rieducativa del reo presente in tutte le Costituzioni europee del secondo dopoguerra.

La Criminologia dell'Europa e del Nordamerica ha aderito ad una visione volontaristica,, anziché deterministica, della delinquenza. Tuttavia, molti progressi degli Anni Quaranta e Cinquanta del Novecento sono stati cancellati da Dottrinari neo-retribuzionisti, operanti soprattutto negli USA, ove la Giuspenalistica domina persino sulle dinamiche comportamentali semplicemente borderline ancorché non etero-lesive. In epoca attuale, molti Criminologi, peraltro estremamente politicizzati, hanno abbandonato la ratio riabilitativa del carcere, il quale si è sciaguratamente trasformato, in molti Paesi, in un contenitore di esseri “indesiderati” da neutralizzare e non da re-inserire gradualmente nella società. Amaramente, Merzagora Betsos (ibidem)[13] evidenzia che oggi, specialmente nell'America del Nord, “si propende per il determinismo sociale; di mote teorie vengono date letture deterministiche e deresponsabilizzanti per l'individuo, e ciò, se non stravolgendo, almeno forzando il pensiero di molti Autori”.

Chi commenta condivide appieno gli asserti di Merzagora Betsos (ibidem)[14]; anzi, per il vero, l'odierna esecuzione penitenziaria appare, in concreto, profondamente contraria all'Art. 3 CEDU, ai sensi del quale “nessuno può essere sottoposto a torture, né a pene o a trattamenti inumani o degradanti”. P.e., in Italia, la disastrosa edilizia carceraria cagiona vere e proprie “torture”, che violano l'Art. 3 CEDU. A parere di chi redige, l'infrattore liberamente delinque, ma altrettanto liberamente egli può assimilare gli impulsi trattamentali del carcere, poiché negare la funzione pedagogica della sanzione criminale significa, di riflesso, negare pure la dignità umana del ristretto. In epoca odierna, esiste una Criminologia neo-lombrosiana contraria a trecento anni di storia dell'Illuminismo. E' quantomai urgente ri-affermare che i condizionamenti sociali recanti alla devianza possono essere rimossi, giacché non esistono tare ereditarie nell'ambito della criminogenesi. Chi autonomamente delinque, autonomamente può emendarsi e tornare alla vita libera, senza il rischio di recidivare.

Interessante, nel difficile evolversi della Criminologia occidentale, è pure la novecentesca teoria dell'etichettamento (labelling approach), secondo la quale la criminalità non possiede una natura ontologica, bensì la devianza diviene tale a seguito di costruzioni sociali e culturali “etichettanti”. A tal proposito, Ferracuti (1987)[15] precisa che “Lemert, principale esponente del labelling approach, prende esplicitamente le distanze dal determinismo, affermando che, se si accetta il postulato secondo cui gli esseri umani sono delle creature che formulano valutazioni, allora, nello studio della devianza, viene introdotto un importante processo intermedio che lo distingue dai metodi del positivismo. Questa distinzione si riferisce alla scelta umana ed all'influenza dei valori”. Ecco, di nuovo, una vigorosa negazione del determinismo di Lombroso e Ferri. Secondo Lemert, la devianza non esiste in sé, in senso meta-temporale e meta-geografico, bensì essa è il prodotto di costruzioni valoriali umane, tradotte, successivamente, in norme giuridiche da parte del Legislatore. A parere di chi scrive, tuttavia, il labelling approach non tiene nella debita considerazione l'universalità spazio-temporale di taluni delitti perennemente anti-sociali, come l'omicidio volontario non scriminabile, il furto, lo stupro o la pedofilia.

Vi è, poi, una parte dei Criminologi che assume un atteggiamento indifferentista nei confronti del determinismo socio-psico-patologico. P.e., Merton (1966)[16] sostiene che la “anomia”, ovvero la “perdita di credibilità sociale delle norme” può favorire “ineluttabilmente” certe devianze, ma tale Autore, nella sua produzione scientifica, non ha mai specificato, in forma espressa, se la criminogenesi sia inevitabile e se la volontà del singolo sia bastevole per evitare le infrazioni al Diritto Penale socialmente costituito. Altrettanto vago è pure Cohen (1963)[17], il quale parla della sussistenza di “fattori favorenti la devianza”, specie quella giovanile, tuttavia, tale medesimo Autore dichiara la non minore importanza delle “pressioni sociali e delle discriminazioni di opportunità sui gruppi e sugli individui”. Cohen (ibidem)[18] chiosa evidenziando che “i soggetti forniranno una varietà di risposte a tali pressioni e discriminazioni”, ma non è chiaro se l' Autore qui in parola ammetta, o meno, la decisività suprema della libera scelta del singolo, sebbene egli sia comunque e gravemente condizionato”.

Viceversa, l'ottimo Matza (1976)[19] crede nell'intatta e piena capacità di auto-determinarsi, in tanto in quanto “l'uomo partecipa ad un'attività significante. Egli crea la propria realtà e quella del mondo attorno a lui, attivamente e strenuamente. L'uomo, per natura, trascende le sfere esistenziali in cui è facile applicare i concetti di causa, di forza e di reattività […]. [Nell'individuo] la possibilità di scelta, l'autonomia e la responsabilità […] assumono una prospettiva causale particolare per gli esseri umani, non assimilabile a quella del mondo fisico”. Dunque, Matza (ibidem)[20], sebbene implicitamente, è contrario all'attuale abuso della categoria dell'infermità/seminfermità mentale. Il Dottrinario testé citato lodevolmente e correttamente restituisce l'immagine di un reo che, anche nella sua scelta criminosa, era e rimane capace, se lo vuole, di affrancarsi da condizionamenti sociali, psichici o pseudo-ereditari. Matza (ibidem)[21] rigetta il paradigma deterministico dell'uomo come animale malato e governato da pulsioni violente ed etero-lesive.

Del pari, Merzagora Betsos (ibidem)[22] puntualizza che “con Matza siamo ideologicamente ben lontani da quella Criminologia che […] rischia di far perdere significato alla scelta ed all'azione del singolo, deresponsabilizzandolo, quindi, totalmente in modo eguale a quanto faceva il determinismo lombrosiano”. Anche a parere di chi commenta, va superata l'immagine degradante ed umiliante dell'uomo-animale necessariamente e costantemente schiavo dei propri istinti bestiali. Anche il peggiore dei devianti, prima di decidersi per la delinquenza, possedeva freni inibitori in grado di auto-controllarlo al fine di impedire la consumazione dell'evento criminoso.

 

Il determinismo criminologico

Negli Anni Duemila, la neuroscienze hanno assai influenzato la Criminologia, con la conseguenza che molti Dottrinari sono diventati fautori del determinismo biologico. Purtroppo, è tornato il concetto novecentesco di “tara ereditaria”. Secondo Merzagora Betsos (ibidem)[23], questo rinnovato richiamo a Lombroso e Ferri “è dovuto al fatto che è più facile ritenere che tutto quanto è biologico ci sia dato, non dipenda da noi (la società è, invece, un costrutto umano), lo troviamo già confezionato e, pertanto, poco possiamo fare per intervenire. Vi sarebbe cioè una certa fede nella fissità deterministica della natura, contrapposta alla plasticità della cultura. Se con ciò intendiamo dire che nascendo non siamo liberi di essere un pollo o una lenticchia, questo è senz'altro vero, ma anche la natura consente spazi di libertà”. Le neuroscienze sono il prodotto di una Medicina superba, che pretende di sostituirsi al Magistrato e che nega, in maniera assoluta ed assolutizzante, òla ratio penalistica della “capacità d'intendere e di volere”.

Oggi esiste una certa psicopatologia forense che predica, sempre e comunque, la sussistenza di un certo grado di infermità mentale; sicché si “patologizza” l'essere umano e lo si riduce ad un animale malato e non in grado di auto-determinarsi. Le neuroscienze negano la dignità umana e la signoria dell'uomo sulla realtà materiale. In effetti, Dawkins (1979)[24] si esprime anch'egli in chiave anti-umanista, affermando che “la società umana è l'inevitabile conseguenza di un lunghissimo processo di adattamento, dove gli attori non sono gli individui o i gruppi, bensì i geni […]. Noi siamo macchine da sopravvivenza, robot semoventi ciecamente programmati per preservare quelle molecole egoiste note con il nome di geni”. Le tesi “socio-biologiche” di Dawkins (ibidem)[25] recano, seppur con sottile eleganza retorica, a soluzioni di stampo eugenetico. P.e., la sociobiologia, spesso e volentieri, richiama la teoria di Darwin, ovverosia la sopravvivenza sarebbe riservata agli individui più forti.

Come si può ben intuire, una consimile ideologia si avvicina molto al concetto nazista di “soluzione finale”. Inoltre, predicare la presunta sussistenza di “difetti ereditari” conduce inevitabilmente ad un orribile incremento delle interruzioni volontarie di gravidanza. In effetti, il regime nazionalsocialista provvedeva alla sterilizzazione delle donne Rom. Analogo razzismo eugenetico è stato presente, una quarantina d'anni fa, pure nell'assistenzialismo esasperato di Stato pseudo-moderni come la Svizzera e la Svezia. In particolar modo, la sociobiologia manifesta un'insuperabile insofferenza nei confronti degli uomini e delle donne con sindrome di down; ciononostante, nessun serio Studio accademico ha mai riscontrato una potenziale connessione tra le anomalie del corredo cromosomico e l'aggressività etero-lesiva. Di più, l'aggressività non sempre si traduce in atti delinquenziali e, in ogni caso, le predette tesi deterministiche non recano chiavi ermeneutiche idonee per spiegare lo white collar crime, che, senza alcun dubbio, nulla ha a che fare con presunti difetti genetici.

Anche nella psicologia non mancano Dottrinari deterministi. P.e., Alexander & Staub (1978)[26] reputano che “dalle tentazioni deterministiche non si salvano neppure gli psicologi e, dunque, i criminologi, […] soprattutto quelli che individuano nelle carenze o nelle insufficienze del Super-Io fattori importanti per la condotta criminale […] Il libero arbitrio è relegato ad essere l'aspirazione narcisistica dei moralisti, nei quali il Super-Io domina la psiche”. Chi scrive non concorda con un consimile approccio psicanalitico, culturalmente affascinante ancorché privo di traduzioni psicoterapeutiche o pedagogiche concrete. Provvidenzialmente, sempre in ambito psicanalitico, Gulotta (1973)[27] ripristina il concetto di “responsabilità”, poiché un ordinario soggetto maggiorenne e ragionante può e deve rispondere delle proprie infrazioni anti-sociali e/o anti-giuridiche. Analogo è il parere razionalista di Greene & Cohen (2001)[28], secondo i quali “c'è chi arriva a sostenere che siano i nostri cervelli a commettere reati. Noi saremmo innocenti. Noi ? Forse noi non siamo solo il nostro cervello, noi siamo tutto l'insieme […] L'agente morale in senso giuridico è l'intero pacchetto, composto dal cervello e da tutto il resto”. Similmente, l'approccio biologico-determinista è criticato negativamente pure da Levy (2009)[29], in tanto in quanto “dire che siamo vittime di circostanze neuronali è dire che siamo vittime di noi stessi. Pur volendo aderire ad un'impostazione riduzionista, rimane quantomeno l'affermazione secondo cui il luogo in cui tutti i processi si ricongiungono è l'agente stesso nella sua globalità”. Dal canto suo, Merzagora Betsos (ibidem)[30] parla di una “libertà morale condizionata”, nel senso che la libertà umana sussiste, ma è pur vero che la delinquenza non è mai completamente “avulsa dalle nostre esperienze di vita e dagli innumerevoli fattori che ci condizionano”

 

[1]Francia & Verde, Criminologia: riflessioni sull'oggetto. In Criminologia, 7, 18, 1986

[2]Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce ? Criminologia. Determinismo, neuroscienze. Raffaello Cortina, Milano, 2012

[3]Radzinowicz, Ideologia e criminalità. Uno studio del delitto nel suo contesto storico e sociale, traduzione italiana Giuffrè, Milano, 1968

[4]Radzinowicz (ibidem), op. cit.

[5]Ponti & Merzagora, La responsabilità morale in criminologia, in Ceretti & Merzagora (a cura di), Criminologia e responsabilità morale, CEDAM, Padova, 1990

[6]Ponti & Merzagora (ibidem), op. cit.

[7]Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell'antropologia criminale. Franco Angeli, Milano, 1985

[8]Mannheim, Trattato di Criminologia comparata, traduzione italiana Einaudi, Torino, 1975

[9]Ceretti & Merzagora, (a cura di), La criminalità dei colletti bianchi e altri scritti, Unicopli, Milano, 1986

[10]Ancel, La nuova difesa sociale, Traduzione italiana Giuffrè, Milano, 1966

[11]Ancel (ibidem), op. cit.

[12]Ancel (ibidem), op. cit.

[13]Merzagora Betsos (ibidem), op. cit.

[14]Merzagora Betsos (ibidem), op. cit.

[15]Ferracuti, (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, Vol. 4, Criminologia e società, Giuffrè, Milano, 1987

[16]Merton, Struttura sociale e anomia, in Teoria e struttura sociale, traduzione italiana Il Mulino, Bologna, 1966

[17]Cohen, Ragazzi delinquenti, traduzione italiana Feltrinelli, Milano, 1963

[18]Cohen (ibidem), op. cit.

[19]Matza, Come si diventa devianti, Traduzione italiana Il Mulino, Bologna, 1976

[20]Matza (ibidem), op. cit.

[21]Matza (ibidem), op. cit.

[22]Merzagora Betsos (ibidem), op. cit.

[23]Merzagora Betsos (ibidem), op. cit.

[24]Dawkins, Il gene egoista, Traduzione italiana Zanichelli, Bologna, 1979

[25]Dawkins (ibidem), op. cit.

[26]Alexander & Staub, Il delinquente, il giudice e il pubblico. Un'analisi psicologica, traduzione italiana Giuffrè, Milano, 1978

[27]Gulotta, Psicoanalisi e responsabilità penale, Giuffrè, Milano, 1973

[28]Greene & Cohen, For the law, neuroscience changes nothing and everything, In Philosophical Transactions of the Royal Society Serie B: Biological Sciences, 359, 2001

[29]Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, Traduzione italiana Apogeo, Milano, 2009

[30]Merzagora Betsos (ibidem), op. cit.