La scuola tra pedagogia e diritto

“Si parla tanto dei bambini ma non si parla ai bambini”. Questo è ciò che avviene, purtroppo, quasi quotidianamente nelle agenzie educative e altrove, a cominciare dalla scuola che, invece, dovrebbe essere uno dei luoghi deputati a dar voce ai bambini e a rendere concreti i loro diritti, come ha ribadito il Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni in un’intervista in occasione dell’inizio dell’anno scolastico 2006/07. Per rivitalizzare questo ruolo della scuola non è necessario riformare e contro-riformare continuamente la legislazione scolastica ma è sufficiente riprendere la migliore tradizione pedagogica e giuridica.

Questo è quanto ho cercato di realizzare personalmente nell’anno scolastico 2005/06 allorquando sono stata chiamata ad insegnare in una classe prima di una scuola primaria di un Istituto Comprensivo della provincia di Potenza occupandomi dell’ambito antropologico, di tecnologia ed informatica e del laboratorio linguistico -espressivo pomeridiano.

Ancor prima dell’inizio dell’anno scolastico mi sono posta non solo come neo-insegnante ma anche come giurista minorile, data la mia formazione post-universitaria; per questo ho letto il Piano dell’offerta formativa (P. O. F.) dell’anno scolastico precedente sulla base del quale ho fissato i cardini del mio percorso lavorativo, secondo quello che ritengo l’ABC della vita relazionale in qualsiasi contesto, scolastico ed extrascolastico, e con qualsiasi soggetto:

Accoglienza del fanciullo,

Benessere del fanciullo,

Codice della vita (nel senso di rispetto, prima, e trasmissione, poi, dei principali valori della vita),

Dimensione uomo e cittadino (il principio ispiratore),

Educazione (la modalità).

Di tutti questi punti soprattutto l’educazione è quella che ha attirato la mia attenzione e permeato tutta la mia attività successiva, innanzitutto perché essa è un diritto del bambino (come stabilito nell’art.28 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989, denominata anche Convenzione di New York) “che contribuisca alla sua cultura generale e gli consenta in una situazione di eguaglianza di possibilità, di sviluppare le sue facoltà, il suo giudizio personale e il suo senso di responsabilità morale e sociale, e di divenire un membro utile alla società” (come emblematicamente definito nell’art.7, par.1 della Dichiarazione dei diritti del bambino del 1959 e che pedagogicamente viene tradotto in “educazione tesa all’emancipazione della persona”).

Il legislatore scolastico ha recuperato quest’aspetto a cominciare dai Nuovi Programmi Didattici del 1985 (che ho preso in considerazione perché ritengo che la legislazione scolastica, dai Decreti Delegati ad oggi, si sia succeduta senza soluzione di continuità) in tutto il loro contenuto, ma specificatamente nella Premessa Generale e nell’istituzione delle cosiddette tre educazioni, educazione all’immagine, educazione al suono e alla musica e educazione motoria.

L’educazione è, poi, uno dei pilastri dell’impianto normativo della tanto declamata quanto deprecata Riforma Moratti, sia nella legge delega n. 53/2003 (in modo particolare articoli 1 e 2) che nei decreti attuativi, per esempio basti considerare nelle “Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati nella Scuola Primaria” tutto l’apparato dell’educazione alla convivenza civile.

Un’altra molla che mi ha spinto a valorizzare l’elemento educativo è stata la lettura di un libro sulle droghe (“Malati di droga”) del farmacologo Silvestrini, secondo il quale l’educazione non è una panacea ma è sicuramente una guida per la prevenzione del disagio giovanile soprattutto se intesa come “procreazione culturale”.

Non ultima, anzi forse per prima, mi ha colpita la citazione di Gandhi riportata nella Premessa del P. O. F. dell’Istituto Comprensivo: ”La vera educazione è quella che rende mentalmente liberi, moralmente eccellenti”.

Riferendomi, inoltre, alla filosofia e alla pedagogia personalistiche cui si è rifatto il legislatore del 2003 ho tentato di concretizzare l’educazione non tanto come rapporto d’esempio da parte dell’educatore (one up) e di emulazione da parte dell’educando (one down), o imposizione-proposizione di divieti e regole, ma piuttosto come relazione, basata sulla philia (amicizia), e dialogo tra “persone” (e non semplicemente individui) uguali nella dignità e libertà, ma diverse per esperienze e conoscenze ed è proprio nello scambio di queste che si realizza il senso dell’educazione nel duplice significato etimologico di educare e educere.

Quotidianamente ho accolto i bambini col sorriso, con abbracci alle femminucce e pacche sulle spalle ai maschietti chiedendo innanzitutto come stessero, ho custodito le loro confidenze e le loro lacrime, ci siamo scambiati regalini, motteggiamenti e vezzeggiativi. Perché solo “il reciproco amore fra chi apprende e chi insegna è il primo e più importante gradino verso la conoscenza” (Erasmo da Rotterdam in Colloqui), a maggior ragione con i bambini in ingresso nella scuola primaria.

 Sulla base dei miei studi e dei miei interessi culturali, vari sono stati i modelli di riferimento: Maria Montessori, Mario Lodi, Jean Piaget, Michael Ende, Gianni Rodari e Roberto Piumini.

Ho sempre ammirato i primi due perché hanno pionieristicamente introdotto la tutela dei diritti dei bambini nella pedagogia e nella didattica.

Ho tenuto presente Piaget perché, dopo l’ultima Riforma scolastica, risulta ancor più attuale in quanto, tra l’altro, ha sottolineato la rilevanza dell’affettività, una delle nuove dimensioni cui deve mirare la scuola, non solo perché è una delle novità delle Indicazioni Nazionali, ma soprattutto per fronteggiare il dilagare dell’analfabetismo emozionale, tra piccoli e sedicenti grandi, che è causa di disagi e conflittualità. Inoltre lo psicologo svizzero ha affermato che la simpatia suppone da una parte una reciproca valorizzazione e d’altra parte una comune scala di valori che permette gli scambi; è questa reciprocità che costituisce l’essenza dei diritti della personalità “di ultima generazione”, i cosiddetti diritti relazionali di cui il primo titolare e fruitore dovrebbe essere il bambino per ”lo sviluppo armonioso della sua personalità” (espressione che compariva già nell’art. 6 Dichiarazione dei diritti del bambino del 1959).

Ho preso in considerazione gli autori per bambini Ende, Rodari e Piumini perché col loro rivolgersi, in ogni senso, ai bambini ci insegnano che dobbiamo essere noi adulti ad accostarci all’uscio della fanciullezza e non il contrario che causa quell’adultizzazione generalizzata dei minori nell’abbigliamento, nel linguaggio, nella gestualità cui si assiste ogni giorno.

Ho tradotto questo innanzitutto nell’adeguare la mia postura ai bambini usando poco o quasi niente la mia postazione alla cattedra, sedendomi vicino a loro o in mezzo a loro in caso di alunni assenti, piegandomi alla loro altezza per ascoltare le letture o le loro esternazioni.

Dell’autore tedesco ho tenuto a mente il racconto “Momo ovvero l’arcana storia dei ladri del tempo e della bambina che restituì agli uomini il tempo trafugato” in cui emergono tre elementi, la fantasia (non come mezzo di fuga dal reale, ma come vera e propria arma per combattere l’arida società circostante), il tempo e l’ascolto, che mi hanno offerto vari spunti.

Per quanto riguarda la fantasia ho cercato di promuoverla quotidianamente sin dai primi giorni dapprima con l’invenzione, da parte mia, di storie con le lettere dell’alfabeto per facilitare la letto-scrittura; poi, per esempio, nella ricomposizione delle sequenze o dei diagrammi di flusso se questa non corrispondeva a quella attesa mi facevo spiegare la loro ricostruzione fantastica lasciandola così o se necessario portandoli all’autocorrezione.

Per quanto concerne il tempo mi sono adoperata per far cogliere tutte le sfaccettature del tempo (meteorologico, cronologico, storico, anagrafico, psicologico), ma principalmente ho rispettato il “loro tempo fanciullesco” facendoglielo vivere appieno, ad esempio consentendo l’uso di un linguaggio fiabesco perciò le sedie con la struttura grigia erano il ronzino, mentre quelle con la struttura bianca erano il cavallo fatato Falada animando così nella quotidianità la lettura della fiaba “La guardiana delle oche”. In egual misura mi sono impegnata per l’assimilazione del concetto di spazio, inteso particolarmente come “diritto allo spazio”, diritto che si ricava dall’interpretazione sistematica di alcune fonti, tra cui la L.285/1997 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” in cui si prescrive all’art.4 lettera d “realizzazione di azioni positive …per il miglioramento della fruizione dell’ambiente urbano e naturale da parte dei minori, per lo sviluppo del benessere e della qualità della vita dei minori” e un’ampia legislazione regionale (es. Emilia Romagna) in cui, tra l’altro, si parla di promozione delle città dei bambini e delle bambine. Per esempio, per l’appropriazione del “loro” spazio ho “accompagnato” gli alunni in “visite guidate” nella scuola (facendo realizzare, poi, semplici piantine) in modo tale che questa non fosse considerata un edificio in cui erano chiusi per otto ore al giorno, ma fosse considerata un’organizzazione di persone e cose indirizzate alla loro crescita: sala dei collegi dei docenti, aula dei sussidi e del sostegno, uscita di sicurezza e così via.

Poi col mio atteggiamento di ascolto, teso - secondo il significato etimologico - a cogliere quanto mi comunicavano (e non solo mi dicevano) e a rielaborarlo nella mente e nel cuore per dare loro la risposta che mi stavano chiedendo (dalla caramella preferita al conforto per l’intervento chirurgico al fratello) ho cercato di instillare in loro l’educazione all’ascolto (propedeutica al rispetto e all’esercizio del diritto all’ascolto, art. 12 par.2 della Convenzione di New York).

Contemporaneamente dal nostro grande autore italiano ho mutuato la teoria dell’errore creativo (“In ogni errore giace la possibilità di una storia”). Siccome molti bambini avevano difficoltà a trascrivere nel carattere corsivo le vocali a ed o confondendole, ho fatto loro notare che, scambiandole, cambiavano le cose e nascevano delle storie assurde: il sole diventava il sale e dal cielo scendeva nella pasta, la nonna diventava la nanna e così via. Avendo colto il meccanismo, nei bambini più attenti è scattata una rincorsa per individuare nuovi vocaboli fin quando uno di loro ha riflettuto dicendo: ”Maestra, se ci sbagliamo Marta diventa morta?”. Nello stesso modo ho proceduto per un altro errore ricorrente e cioè l’omettere una vocale o una consonante (per cui salita diventava salta, carne diventava cane), per gli errori relativi alle doppie e all’uso dell’h nei digrammi ch e gh e per gli altri digrammi, per gli accenti (es. il papà diventava il papa di Roma). E’ avvenuto così un approccio larvato ed inconsapevole ai cosiddetti giochi linguistici.

Ho menzionato Piumini, il Gianni Rodari di oggi, perché durante un incontro a Matera ha riaffermato la polivalenza del gioco a qualsiasi età (parafrasando “non si gioca più perché si invecchia ma si invecchia perché non si gioca”), ancor di più per la tenera età: il gioco non è solo un divertimento ma è un diritto ed un aspetto ineludibile della vita culturale ed artistica del bambino, (art. 31 della Convenzione del 1989). Per questo, per tutto l’anno scolastico e non solo all’inizio, ho utilizzato un metodo ludico (veri e propri giochi) e ludiforme (attività strettamente scolastiche sotto forma di giochi) sia “riciclando” giochi tradizionali quali il girotondo (per il concetto di spazio aperto e chiuso) e la mosca cieca o la caccia al tesoro (per effettuare piccoli percorsi in classe) sia inventandone di nuovi.

In conformità alla didattica laboratoriale della Riforma morattiana ed in coerenza col laboratorio pomeridiano linguistico -espressivo a me affidato, ho ricondotto le varie discipline in un unico processo di full immersion di educazione linguistica, mirante a far elaborare e rielaborare tutte le forme del linguaggio (il verbale, l’iconico, il musicale, il corporeo, il gestuale, il mimico, il manipolativo). Perché solo fornendo al bambino tutti i mezzi di simbolizzazione, espressione e comunicazione, egli potrà esercitare la libertà di espressione, intesa anche come “libertà di ricercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, a prescinderne dalle frontiere, sia verbalmente che per iscritto o a mezzo stampa o in forma artistica o mediante qualsiasi altro mezzo scelto dal fanciullo” (art.13 par.1 Convenzione di New York). Così, per esempio, per l’educazione stradale (particolarmente per il significato dei principali segnali stradali, dei gesti del vigile urbano e dei colori del semaforo) ho usato e fatto usare i mezzi della comunicazione teatrale, prevalentemente animazione e mimo.

In più, ho aderito e contribuito al “Progetto lettura” (che ho inteso tradurre per i bambini in un vero progetto esistenziale – locuzione usata nelle Indicazioni Nazionali – facendo sviluppare in loro una capacità e voglia di leggersi e leggere intorno, interiorizzazione che concretizza il significato di educazione che deve tendere ad “inculcare nel fanciullo”, di cui all’art.29 della Convenzione del 1989) sin dai primi giorni scolastici con un percorso d’animazione alla e della lettura leggendo fiabe classiche quali “La casa nel bosco” e “La guardiana delle oche”, che sono state anche terreno fertile per l’accertamento ed il consolidamento dei pre-requisiti spaziali e temporali. Nello svolgersi dell’anno scolastico, mi sono dedicata altresì alla lettura di fiabe, preventivamente scelte, di tutto il mondo raccolte e curate da Gianni Rodari (la scelta è caduta sulle fiabe per la valenza didascalica che queste hanno sempre avuto dai tempi di Esopo, internazionali perché l’educazione deve tendere “a preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia fra tutti i popoli, gruppi etnici, nazionali e religiosi, e persone di origine autoctona”, art.29 par.1 lettera d della Convenzione Internazionale).

In questo quadro potrebbe apparire estraneo l’inserimento della disciplina della tecnologia ed informatica (infatti, questa era la mia preoccupazione iniziale). Invero questa disciplina ben si è raccordata con l’ambito antropologico, in quanto ho fatto in modo di presentarla come attività antropica attraverso le trasformazioni nel tempo (storia) e ho fatto vivere il laboratorio di informatica come un loro spazio scolastico da esplorare, descrivere, rappresentare (geografia). Tra l’altro il computer si è rivelato un ottimo strumento di comunicazione e socializzazione anche per i bambini più inibiti e di facilitazione all’approccio alla lingua inglese per l’uso dei termini tecnici quali computer, mouse, word (tutto questo in un alveo di educazione tecnologica finalizzata ad un uso consapevole e critico del computer e della televisione, per “tutelare il fanciullo contro l’informazione ed i programmi che nuocciano al suo benessere”, secondo l’art.17 lettera e della Convenzione del 1989).

In itinere ho realizzato tre profili educativi propedeutici e finalistici all’educazione alla convivenza civile: educazione alla creatività, educazione alla socialità, educazione alla laboriosità (socialità, laboriosità e creatività, principi esistenziali desumibili dalla nostra Costituzione ed esplicitamente dall’art.4 comma 2 “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, seconda le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”).

Per quanto attiene all’educazione alla creatività (da troppo tempo auspicata da pedagogisti e psicologi), ho cercato di rimuovere gli errori che la scuola ha commesso nei confronti delle generazioni passate reprimendo la creatività, assurta invece a potenziale educativo nei Nuovi Programmi del 1985 e forse un po’ negletta nelle attuali Indicazioni Nazionali. Per la realizzazione dei biglietti augurali per le varie festività (dalla festa dei nonni alla festa della mamma) e per il laboratorio teatrale dei burattini di personaggi tratti dalle fiabe lette o inventati dai bambini, ho fatto adoperare materiali di recupero mandando in visibilio i bambini e conseguendo anche alcuni degli obiettivi dell’educazione ambientale (l’educazione deve tendere ad “inculcare nel fanciullo il rispetto per l’ambiente naturale”, art.29 par.1 lettera e della Convenzione del 1989).

Ho praticato l’educazione alla socialità (finalizzata all’educazione alla cittadinanza e all’educazione all’affettività) mediante il tutoraggio tra bambini facendo aiutare i bambini tra loro, facendo ripetere loro le modalità di esecuzione degli esercizi per casa o altro.

Ho perseguito l’educazione alla laboriosità (finalizzata all’educazione alla cittadinanza e come approccio culturale già espressamente prevista nei Programmi dell’85) mediante tutte le attività pratiche succitate e inculcando il senso di responsabilità per il loro ruolo di scolari e il senso di rispetto verso tutte le professioni a cominciare dal lavoro di casalinga, in quanto inizialmente alla mia domanda su quale lavoro facessero le mamme alcuni bambini mi rispondevano niente, perché stavano in casa.

Mi sono prefissa questi ulteriori obiettivi educativi perché mi sono posta come adulta, prima, e come professionista qualificata, poi, il dovere pedagogico di stimolare la “curiosità intellettuale” e di bandire la “unilateralità intellettuale” e il dovere giuridico di preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società ed allevarlo in particolare nello spirito di pace, di dignità, di tolleranza, d’eguaglianza e di solidarietà (come sancito nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Così operando sono stati conseguiti gli “obiettivi generali del processo formativo” (secondo paragrafo delle Indicazioni Nazionali) relativi al monoennio: valorizzare l’esperienza del fanciullo, la corporeità come valore, la diversità delle persone e delle culture come ricchezza, praticare l’impegno personale e la solidarietà sociale (basti pensare che una volta un alunno ha eseguito, a casa, degli esercizi in più sul sussidio per rendersi disponibile in classe per i compagni in difficoltà).

In tutto questo ho tenuto sempre in considerazione “l’interesse superiore del fanciullo” (art. 3 par. 1 Convenzione di New York), locuzione che rischia di rimanere vacua cui, invece, ho cercato di dare un contenuto grazie anche all’empatia (immedesimazione, secondo la traduzione dal tedesco einfühlung).

Empatizzando o comunque stabilendo una comunicazione - nel senso etimologico di “rendere comune” - con i propri discenti si può rendere veramente la scuola una formazione sociale in cui svolgere la personalità e praticare la solidarietà (come previsto dall’articolo 2 della nostra Costituzione) e rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti (art.3 comma 2 Costituzione): una vera comunità e non solo un’istituzione, espressione ancora usata nei testi della Riforma.

Si potrebbe evitare così il crescente scollamento tra la scuola e la sua “popolazione” che degenera nell’abbandono scolastico dei ragazzi e nella cosiddetta burnout syndrome (“sindrome dello scoppiato”, o più semplicemente sindrome di esaurimento emozionale) dei docenti, fenomeni che causano elevati costi personali, economici e sociali.                                                                         

                                                                                                             

“Si parla tanto dei bambini ma non si parla ai bambini”. Questo è ciò che avviene, purtroppo, quasi quotidianamente nelle agenzie educative e altrove, a cominciare dalla scuola che, invece, dovrebbe essere uno dei luoghi deputati a dar voce ai bambini e a rendere concreti i loro diritti, come ha ribadito il Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni in un’intervista in occasione dell’inizio dell’anno scolastico 2006/07. Per rivitalizzare questo ruolo della scuola non è necessario riformare e contro-riformare continuamente la legislazione scolastica ma è sufficiente riprendere la migliore tradizione pedagogica e giuridica.

Questo è quanto ho cercato di realizzare personalmente nell’anno scolastico 2005/06 allorquando sono stata chiamata ad insegnare in una classe prima di una scuola primaria di un Istituto Comprensivo della provincia di Potenza occupandomi dell’ambito antropologico, di tecnologia ed informatica e del laboratorio linguistico -espressivo pomeridiano.

Ancor prima dell’inizio dell’anno scolastico mi sono posta non solo come neo-insegnante ma anche come giurista minorile, data la mia formazione post-universitaria; per questo ho letto il Piano dell’offerta formativa (P. O. F.) dell’anno scolastico precedente sulla base del quale ho fissato i cardini del mio percorso lavorativo, secondo quello che ritengo l’ABC della vita relazionale in qualsiasi contesto, scolastico ed extrascolastico, e con qualsiasi soggetto:

Accoglienza del fanciullo,

Benessere del fanciullo,

Codice della vita (nel senso di rispetto, prima, e trasmissione, poi, dei principali valori della vita),

Dimensione uomo e cittadino (il principio ispiratore),

Educazione (la modalità).

Di tutti questi punti soprattutto l’educazione è quella che ha attirato la mia attenzione e permeato tutta la mia attività successiva, innanzitutto perché essa è un diritto del bambino (come stabilito nell’art.28 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989, denominata anche Convenzione di New York) “che contribuisca alla sua cultura generale e gli consenta in una situazione di eguaglianza di possibilità, di sviluppare le sue facoltà, il suo giudizio personale e il suo senso di responsabilità morale e sociale, e di divenire un membro utile alla società” (come emblematicamente definito nell’art.7, par.1 della Dichiarazione dei diritti del bambino del 1959 e che pedagogicamente viene tradotto in “educazione tesa all’emancipazione della persona”).

Il legislatore scolastico ha recuperato quest’aspetto a cominciare dai Nuovi Programmi Didattici del 1985 (che ho preso in considerazione perché ritengo che la legislazione scolastica, dai Decreti Delegati ad oggi, si sia succeduta senza soluzione di continuità) in tutto il loro contenuto, ma specificatamente nella Premessa Generale e nell’istituzione delle cosiddette tre educazioni, educazione all’immagine, educazione al suono e alla musica e educazione motoria.

L’educazione è, poi, uno dei pilastri dell’impianto normativo della tanto declamata quanto deprecata Riforma Moratti, sia nella legge delega n. 53/2003 (in modo particolare articoli 1 e 2) che nei decreti attuativi, per esempio basti considerare nelle “Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati nella Scuola Primaria” tutto l’apparato dell’educazione alla convivenza civile.

Un’altra molla che mi ha spinto a valorizzare l’elemento educativo è stata la lettura di un libro sulle droghe (“Malati di droga”) del farmacologo Silvestrini, secondo il quale l’educazione non è una panacea ma è sicuramente una guida per la prevenzione del disagio giovanile soprattutto se intesa come “procreazione culturale”.

Non ultima, anzi forse per prima, mi ha colpita la citazione di Gandhi riportata nella Premessa del P. O. F. dell’Istituto Comprensivo: ”La vera educazione è quella che rende mentalmente liberi, moralmente eccellenti”.

Riferendomi, inoltre, alla filosofia e alla pedagogia personalistiche cui si è rifatto il legislatore del 2003 ho tentato di concretizzare l’educazione non tanto come rapporto d’esempio da parte dell’educatore (one up) e di emulazione da parte dell’educando (one down), o imposizione-proposizione di divieti e regole, ma piuttosto come relazione, basata sulla philia (amicizia), e dialogo tra “persone” (e non semplicemente individui) uguali nella dignità e libertà, ma diverse per esperienze e conoscenze ed è proprio nello scambio di queste che si realizza il senso dell’educazione nel duplice significato etimologico di educare e educere.

Quotidianamente ho accolto i bambini col sorriso, con abbracci alle femminucce e pacche sulle spalle ai maschietti chiedendo innanzitutto come stessero, ho custodito le loro confidenze e le loro lacrime, ci siamo scambiati regalini, motteggiamenti e vezzeggiativi. Perché solo “il reciproco amore fra chi apprende e chi insegna è il primo e più importante gradino verso la conoscenza” (Erasmo da Rotterdam in Colloqui), a maggior ragione con i bambini in ingresso nella scuola primaria.

 Sulla base dei miei studi e dei miei interessi culturali, vari sono stati i modelli di riferimento: Maria Montessori, Mario Lodi, Jean Piaget, Michael Ende, Gianni Rodari e Roberto Piumini.

Ho sempre ammirato i primi due perché hanno pionieristicamente introdotto la tutela dei diritti dei bambini nella pedagogia e nella didattica.

Ho tenuto presente Piaget perché, dopo l’ultima Riforma scolastica, risulta ancor più attuale in quanto, tra l’altro, ha sottolineato la rilevanza dell’affettività, una delle nuove dimensioni cui deve mirare la scuola, non solo perché è una delle novità delle Indicazioni Nazionali, ma soprattutto per fronteggiare il dilagare dell’analfabetismo emozionale, tra piccoli e sedicenti grandi, che è causa di disagi e conflittualità. Inoltre lo psicologo svizzero ha affermato che la simpatia suppone da una parte una reciproca valorizzazione e d’altra parte una comune scala di valori che permette gli scambi; è questa reciprocità che costituisce l’essenza dei diritti della personalità “di ultima generazione”, i cosiddetti diritti relazionali di cui il primo titolare e fruitore dovrebbe essere il bambino per ”lo sviluppo armonioso della sua personalità” (espressione che compariva già nell’art. 6 Dichiarazione dei diritti del bambino del 1959).

Ho preso in considerazione gli autori per bambini Ende, Rodari e Piumini perché col loro rivolgersi, in ogni senso, ai bambini ci insegnano che dobbiamo essere noi adulti ad accostarci all’uscio della fanciullezza e non il contrario che causa quell’adultizzazione generalizzata dei minori nell’abbigliamento, nel linguaggio, nella gestualità cui si assiste ogni giorno.

Ho tradotto questo innanzitutto nell’adeguare la mia postura ai bambini usando poco o quasi niente la mia postazione alla cattedra, sedendomi vicino a loro o in mezzo a loro in caso di alunni assenti, piegandomi alla loro altezza per ascoltare le letture o le loro esternazioni.

Dell’autore tedesco ho tenuto a mente il racconto “Momo ovvero l’arcana storia dei ladri del tempo e della bambina che restituì agli uomini il tempo trafugato” in cui emergono tre elementi, la fantasia (non come mezzo di fuga dal reale, ma come vera e propria arma per combattere l’arida società circostante), il tempo e l’ascolto, che mi hanno offerto vari spunti.

Per quanto riguarda la fantasia ho cercato di promuoverla quotidianamente sin dai primi giorni dapprima con l’invenzione, da parte mia, di storie con le lettere dell’alfabeto per facilitare la letto-scrittura; poi, per esempio, nella ricomposizione delle sequenze o dei diagrammi di flusso se questa non corrispondeva a quella attesa mi facevo spiegare la loro ricostruzione fantastica lasciandola così o se necessario portandoli all’autocorrezione.

Per quanto concerne il tempo mi sono adoperata per far cogliere tutte le sfaccettature del tempo (meteorologico, cronologico, storico, anagrafico, psicologico), ma principalmente ho rispettato il “loro tempo fanciullesco” facendoglielo vivere appieno, ad esempio consentendo l’uso di un linguaggio fiabesco perciò le sedie con la struttura grigia erano il ronzino, mentre quelle con la struttura bianca erano il cavallo fatato Falada animando così nella quotidianità la lettura della fiaba “La guardiana delle oche”. In egual misura mi sono impegnata per l’assimilazione del concetto di spazio, inteso particolarmente come “diritto allo spazio”, diritto che si ricava dall’interpretazione sistematica di alcune fonti, tra cui la L.285/1997 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” in cui si prescrive all’art.4 lettera d “realizzazione di azioni positive …per il miglioramento della fruizione dell’ambiente urbano e naturale da parte dei minori, per lo sviluppo del benessere e della qualità della vita dei minori” e un’ampia legislazione regionale (es. Emilia Romagna) in cui, tra l’altro, si parla di promozione delle città dei bambini e delle bambine. Per esempio, per l’appropriazione del “loro” spazio ho “accompagnato” gli alunni in “visite guidate” nella scuola (facendo realizzare, poi, semplici piantine) in modo tale che questa non fosse considerata un edificio in cui erano chiusi per otto ore al giorno, ma fosse considerata un’organizzazione di persone e cose indirizzate alla loro crescita: sala dei collegi dei docenti, aula dei sussidi e del sostegno, uscita di sicurezza e così via.

Poi col mio atteggiamento di ascolto, teso - secondo il significato etimologico - a cogliere quanto mi comunicavano (e non solo mi dicevano) e a rielaborarlo nella mente e nel cuore per dare loro la risposta che mi stavano chiedendo (dalla caramella preferita al conforto per l’intervento chirurgico al fratello) ho cercato di instillare in loro l’educazione all’ascolto (propedeutica al rispetto e all’esercizio del diritto all’ascolto, art. 12 par.2 della Convenzione di New York).

Contemporaneamente dal nostro grande autore italiano ho mutuato la teoria dell’errore creativo (“In ogni errore giace la possibilità di una storia”). Siccome molti bambini avevano difficoltà a trascrivere nel carattere corsivo le vocali a ed o confondendole, ho fatto loro notare che, scambiandole, cambiavano le cose e nascevano delle storie assurde: il sole diventava il sale e dal cielo scendeva nella pasta, la nonna diventava la nanna e così via. Avendo colto il meccanismo, nei bambini più attenti è scattata una rincorsa per individuare nuovi vocaboli fin quando uno di loro ha riflettuto dicendo: ”Maestra, se ci sbagliamo Marta diventa morta?”. Nello stesso modo ho proceduto per un altro errore ricorrente e cioè l’omettere una vocale o una consonante (per cui salita diventava salta, carne diventava cane), per gli errori relativi alle doppie e all’uso dell’h nei digrammi ch e gh e per gli altri digrammi, per gli accenti (es. il papà diventava il papa di Roma). E’ avvenuto così un approccio larvato ed inconsapevole ai cosiddetti giochi linguistici.

Ho menzionato Piumini, il Gianni Rodari di oggi, perché durante un incontro a Matera ha riaffermato la polivalenza del gioco a qualsiasi età (parafrasando “non si gioca più perché si invecchia ma si invecchia perché non si gioca”), ancor di più per la tenera età: il gioco non è solo un divertimento ma è un diritto ed un aspetto ineludibile della vita culturale ed artistica del bambino, (art. 31 della Convenzione del 1989). Per questo, per tutto l’anno scolastico e non solo all’inizio, ho utilizzato un metodo ludico (veri e propri giochi) e ludiforme (attività strettamente scolastiche sotto forma di giochi) sia “riciclando” giochi tradizionali quali il girotondo (per il concetto di spazio aperto e chiuso) e la mosca cieca o la caccia al tesoro (per effettuare piccoli percorsi in classe) sia inventandone di nuovi.

In conformità alla didattica laboratoriale della Riforma morattiana ed in coerenza col laboratorio pomeridiano linguistico -espressivo a me affidato, ho ricondotto le varie discipline in un unico processo di full immersion di educazione linguistica, mirante a far elaborare e rielaborare tutte le forme del linguaggio (il verbale, l’iconico, il musicale, il corporeo, il gestuale, il mimico, il manipolativo). Perché solo fornendo al bambino tutti i mezzi di simbolizzazione, espressione e comunicazione, egli potrà esercitare la libertà di espressione, intesa anche come “libertà di ricercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, a prescinderne dalle frontiere, sia verbalmente che per iscritto o a mezzo stampa o in forma artistica o mediante qualsiasi altro mezzo scelto dal fanciullo” (art.13 par.1 Convenzione di New York). Così, per esempio, per l’educazione stradale (particolarmente per il significato dei principali segnali stradali, dei gesti del vigile urbano e dei colori del semaforo) ho usato e fatto usare i mezzi della comunicazione teatrale, prevalentemente animazione e mimo.

In più, ho aderito e contribuito al “Progetto lettura” (che ho inteso tradurre per i bambini in un vero progetto esistenziale – locuzione usata nelle Indicazioni Nazionali – facendo sviluppare in loro una capacità e voglia di leggersi e leggere intorno, interiorizzazione che concretizza il significato di educazione che deve tendere ad “inculcare nel fanciullo”, di cui all’art.29 della Convenzione del 1989) sin dai primi giorni scolastici con un percorso d’animazione alla e della lettura leggendo fiabe classiche quali “La casa nel bosco” e “La guardiana delle oche”, che sono state anche terreno fertile per l’accertamento ed il consolidamento dei pre-requisiti spaziali e temporali. Nello svolgersi dell’anno scolastico, mi sono dedicata altresì alla lettura di fiabe, preventivamente scelte, di tutto il mondo raccolte e curate da Gianni Rodari (la scelta è caduta sulle fiabe per la valenza didascalica che queste hanno sempre avuto dai tempi di Esopo, internazionali perché l’educazione deve tendere “a preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia fra tutti i popoli, gruppi etnici, nazionali e religiosi, e persone di origine autoctona”, art.29 par.1 lettera d della Convenzione Internazionale).

In questo quadro potrebbe apparire estraneo l’inserimento della disciplina della tecnologia ed informatica (infatti, questa era la mia preoccupazione iniziale). Invero questa disciplina ben si è raccordata con l’ambito antropologico, in quanto ho fatto in modo di presentarla come attività antropica attraverso le trasformazioni nel tempo (storia) e ho fatto vivere il laboratorio di informatica come un loro spazio scolastico da esplorare, descrivere, rappresentare (geografia). Tra l’altro il computer si è rivelato un ottimo strumento di comunicazione e socializzazione anche per i bambini più inibiti e di facilitazione all’approccio alla lingua inglese per l’uso dei termini tecnici quali computer, mouse, word (tutto questo in un alveo di educazione tecnologica finalizzata ad un uso consapevole e critico del computer e della televisione, per “tutelare il fanciullo contro l’informazione ed i programmi che nuocciano al suo benessere”, secondo l’art.17 lettera e della Convenzione del 1989).

In itinere ho realizzato tre profili educativi propedeutici e finalistici all’educazione alla convivenza civile: educazione alla creatività, educazione alla socialità, educazione alla laboriosità (socialità, laboriosità e creatività, principi esistenziali desumibili dalla nostra Costituzione ed esplicitamente dall’art.4 comma 2 “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, seconda le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”).

Per quanto attiene all’educazione alla creatività (da troppo tempo auspicata da pedagogisti e psicologi), ho cercato di rimuovere gli errori che la scuola ha commesso nei confronti delle generazioni passate reprimendo la creatività, assurta invece a potenziale educativo nei Nuovi Programmi del 1985 e forse un po’ negletta nelle attuali Indicazioni Nazionali. Per la realizzazione dei biglietti augurali per le varie festività (dalla festa dei nonni alla festa della mamma) e per il laboratorio teatrale dei burattini di personaggi tratti dalle fiabe lette o inventati dai bambini, ho fatto adoperare materiali di recupero mandando in visibilio i bambini e conseguendo anche alcuni degli obiettivi dell’educazione ambientale (l’educazione deve tendere ad “inculcare nel fanciullo il rispetto per l’ambiente naturale”, art.29 par.1 lettera e della Convenzione del 1989).

Ho praticato l’educazione alla socialità (finalizzata all’educazione alla cittadinanza e all’educazione all’affettività) mediante il tutoraggio tra bambini facendo aiutare i bambini tra loro, facendo ripetere loro le modalità di esecuzione degli esercizi per casa o altro.

Ho perseguito l’educazione alla laboriosità (finalizzata all’educazione alla cittadinanza e come approccio culturale già espressamente prevista nei Programmi dell’85) mediante tutte le attività pratiche succitate e inculcando il senso di responsabilità per il loro ruolo di scolari e il senso di rispetto verso tutte le professioni a cominciare dal lavoro di casalinga, in quanto inizialmente alla mia domanda su quale lavoro facessero le mamme alcuni bambini mi rispondevano niente, perché stavano in casa.

Mi sono prefissa questi ulteriori obiettivi educativi perché mi sono posta come adulta, prima, e come professionista qualificata, poi, il dovere pedagogico di stimolare la “curiosità intellettuale” e di bandire la “unilateralità intellettuale” e il dovere giuridico di preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società ed allevarlo in particolare nello spirito di pace, di dignità, di tolleranza, d’eguaglianza e di solidarietà (come sancito nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Così operando sono stati conseguiti gli “obiettivi generali del processo formativo” (secondo paragrafo delle Indicazioni Nazionali) relativi al monoennio: valorizzare l’esperienza del fanciullo, la corporeità come valore, la diversità delle persone e delle culture come ricchezza, praticare l’impegno personale e la solidarietà sociale (basti pensare che una volta un alunno ha eseguito, a casa, degli esercizi in più sul sussidio per rendersi disponibile in classe per i compagni in difficoltà).

In tutto questo ho tenuto sempre in considerazione “l’interesse superiore del fanciullo” (art. 3 par. 1 Convenzione di New York), locuzione che rischia di rimanere vacua cui, invece, ho cercato di dare un contenuto grazie anche all’empatia (immedesimazione, secondo la traduzione dal tedesco einfühlung).

Empatizzando o comunque stabilendo una comunicazione - nel senso etimologico di “rendere comune” - con i propri discenti si può rendere veramente la scuola una formazione sociale in cui svolgere la personalità e praticare la solidarietà (come previsto dall’articolo 2 della nostra Costituzione) e rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti (art.3 comma 2 Costituzione): una vera comunità e non solo un’istituzione, espressione ancora usata nei testi della Riforma.

Si potrebbe evitare così il crescente scollamento tra la scuola e la sua “popolazione” che degenera nell’abbandono scolastico dei ragazzi e nella cosiddetta burnout syndrome (“sindrome dello scoppiato”, o più semplicemente sindrome di esaurimento emozionale) dei docenti, fenomeni che causano elevati costi personali, economici e sociali.