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La solitudine dei vinti e dei vincitori

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Le barricate sul divano di casa o negli stadi le fai per conto delle baronie calcistiche, che creano falsi miti di progresso o di conservazione in un mondo in cui non c’è più nulla da conservare. Ma quasi peggio dei golpisti di mezzanotte che sventolano questa formuletta magica e messianica della Superlega, ci sono i dirigenti di UEFA, FIFA e Federazioni, che dopo essersi nascosti dietro un’etica di cartapesta adesso si preparano a cantare vittoria con una retorica falsamente populista e nostalgica.

Ma guai a sottovalutare il silenzio – a parte alcune nobili eccezioni, giunte soprattutto da Oltremanica – di troppe icone calcistiche: i guardiani della magia, i custodi della mitologia, i taumaturghi del campo, coloro che dovrebbero insorgere per primi contro una catena di montaggio che vuole spremerli, annichilirli, distruggerli, riducendo la loro speranza di vita professionale già cortissima allo stato attuale.

La verità è che dopo questa vicenda umanoide, cioè post-umana, ci sentiamo tutti più soli. Sono soli i dirigenti che operano in stanze chiuse; sono soli i calciatori costretti a reprimere qualsiasi istinto di sopravvivenza e di contestazione; sono soli soprattutto i tifosi, che siano fanatici della curva o telespettatori compulsivi, i quali dopo essere stati allontanati dagli spalti per ragioni sanitarie adesso vengono tenuti lontani dalle grandi decisioni sul futuro di uno sport che, almeno a livello morale, gli dovrebbe appartenere.

E nella matrice umanoide, cioè post-umana, si fanno i conti con il mutamento antropologico assecondandolo nella sua fase più avanzata invece di rimetterlo in discussione. Se come scrive giustamente Giancarlo Dotto sul Corriere dello Sport non si tratta di “una guerra di religione”, siamo invece dentro ad una dimensione elitaria in cui due diversi clan, con la stessa visione del mondo, lottano per conquistare la gestione burocratica, economica e amministrativa del potere.

La SuperLega infatti non è una rivoluzione ma l’accelerazione di un processo già in atto, perfettamente organico allo spirito del tempo, che adesso porteranno avanti gli anti-superleghisti. L’obiettivo non è tanto quello di offrire un “prodotto migliore”, ma di fare del calcio un gioco a pezzi riproducibile sulle nuove piattaforme digitali di oggi, in primis Instagram e Tik Tok, e di domani. E parallelamente di rimuovere le emozioni e i sentimenti più umani come il dolore, la sofferenza, la rabbia, l’odio, la noia.

Non contano più i novanta minuti, il risultato finale, tantomeno lo sforzo collettivo di una squadra, o il suo retroterra storico-culturale, bensì la capacità di una partita di generare “clip” spettacolari in cui si vedono le grandi giocate dei “top player” o gli attimi salienti – scusate, si dice highlights – che riescono in un modo o nell’altro a catturare l’attenzione di una persona, e di conseguenza a tenere alto un livello di concentrazione che non era mai stato così basso nella storia dell’umanità. A rivelarlo è stato lo stesso Andrea Agnelli nell’intervista pubblicata su La Repubblica:

“I più giovani vogliono vedere i grandi eventi e sono meno legati agli elementi di campanilismo che hanno segnato le generazioni precedenti, compresa la mia […] e il dato più allarmante è che il 40 per cento di coloro che hanno fra i 16 e 24 anni non ha interesse nel mondo del calcio.

Andare a creare una competizione che simuli ciò che fanno sulle piattaforme digitali significa andargli incontro e fronteggiare la competizione di Fortnite o Call of Duty che sono i veri centri di attenzione dei ragazzi di oggi, che spenderanno domani. Il calcio sta vivendo una crisi enorme di appetibilità verso le nuove generazioni”.

Per quanto la fotografia sia lucida e corretta, la grandezza di un uomo si misura dal coraggio di sovvertire un ordine costituito dannoso, a meno che non si ritenga nobile e giusto paragonare il gioco del calcio alla simulazione del gioco del calcio. Allora piuttosto che alimentare un processo di destrutturazione della società diventa necessario insegnare a quelle nuove generazioni, senza moralità e nostalgia, a fare i conti con sé stesse nella dimensione di individui parte di una collettività imperfetta ma perfettibile.

Non a caso è proprio nella collettività che quelle emozioni e quei sentimenti più disumani, che si vorrebbero rimuovere dall’esperienza umana e calcistica, riacquisiscono un senso, perché è nella collettività che si superano. Rivendichiamo dunque il nostro diritto ad annoiarci davanti a una partita di novanta minuti, ad arrabbiarci per un errore arbitrale, a soffrire per una sconfitta, a odiare il nostro avversario.

Ma soprattutto, come scrive il giornalista Mattia Ferraresi nel suo magnifico libro Solitudine (Einaudi), pretendiamo tutto ciò quello che ci è stato levato: «ordinamenti, strutture, sistemi, partiti, chiese, leggi, abitudini, tradizioni, dogmi, codici, regimi, opinioni, usanze, costumi e perfino assetti biologici». Perché a furia di divincolarci dalle autorità, dalle gerarchie e dalle costrizioni tradizionali ci siamo ritrovati soli con uno smartphone in mano a scrollare, dall’alto verso il basso. Sedotti, accontentati, impotenti.