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L’art. 1481 comma 2 c.c. contrasta con gli artt. 1375 c.c. e 1150 c.c.

il giardino segreto
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L’art. 1481 comma 2 c.c. contrasta con gli artt. 1375 c.c. e 1150 c.c.

The art. 1481 paragraph 2 of the civil code contrasts with the articles 1375 of the civil code and 1150 c.c. .

The art. 1481 paragraph 2 of the civil code- which establishes the prohibition of the buyer, who at the time of the sale was aware of the risk of claims by the third party, to suspend payment in favor of the seller - contrasts with the articles 1375 of the civil code and 1150 c.c. .


L’art. 1481 c.c. disciplina il caso in cui il compratore sia consapevole del fatto che la cosa da egli acquistata possa essere rivendicata da terzi. Il comma 1 stabilisce che “il compratore può sospendere il pagamento del prezzo, quando ha ragione di temere che la cosa o una parte di essa possa essere rivendicata da terzi, salvo che il venditore presti idonea garanzia”. Quindi, se il venditore garantisce al compratore che la cosa non potrà essere rivendicata dal terzo, in quanto essa era di proprietà del venditore e pertanto quest’ultimo l’ha venduta legittimamente, il compratore può anche non sospendere il pagamento, in quanto in tal caso la sua buona fede è salva.

Il comma 2 prevede che “il pagamento non può essere sospeso se il pericolo era noto al compratore al tempo della vendita”.

Il compratore (Tizio), se già al tempo in cui ha acquistato la cosa, sapeva che questa avrebbe potuto essere rivendicata da terzi (Sempronio), non può adesso sospendere il pagamento, ma deve comunque corrispondere al venditore (Caio) il prezzo.

La norma non prevede la possibilità che il compratore, il quale era in mala fede, adotti adesso un comportamento riparatorio, sospendendo il pagamento del prezzo. Essa intende, invece, punire il compratore stesso, per aver questi acquistato pur sapendo che la cosa avrebbe potuto essere rivendicata dal terzo. Non è ammesso, sostanzialmente, un “pentimento” del compratore, ossia non è previsto che quest’ultimo, sospendendo il pagamento del prezzo, possa privare il venditore di un corrispettivo che è non è certo se sia dovuto, e non è certo in quanto la cosa, con ogni probabilità, al tempo della vendita non era di proprietà del venditore ma era di un terzo.

L’analisi critica che si può fare della norma è che in tal modo il venditore potrebbe conseguire un “arricchimento senza giusta causa”, che è disciplinato dall’art. 2041 c.c., il quale dispone quanto segue: “chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un'altra persona è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a indennizzare quest'ultima della correlativa diminuzione patrimoniale”. In tal caso, l’ “altra persona” ai cui danni il venditore (Caio) si è arricchito è sia il compratore (Tizio), perché è quest’ultimo ad avergli versato tutto quanto il prezzo (visto il divieto di sospensione del pagamento stabilito dall’art. 1481 comma 2 c.c.), sia il terzo rivendicante (Sempronio), in quanto era quest’ultimo il vero proprietario della cosa al tempo in cui è stata venduta.

Tuttavia, il comma 2 art. 1481 c.c. parla di “pericolo di rivendica”, e non di “azione di rivendica che sia già stata esercitata”. Di conseguenza, non può ancora dirsi sussistente il presupposto della “mancanza di una giusta causa” di arricchimento, in quanto tale mancanza si configurerà solo nel caso in cui l’azione di rivendica sarà stata effettivamente esercitata (oppure, meglio ancora, quando la relativa domanda sarà stata accolta dal Giudice).

Il legittimo proprietario della cosa venduta, potrebbe anche decidere di non esercitare la suddetta azione, nonostante che vi siano tutti i presupposti. Pertanto, è proprio tale situazione di incertezza a determinare il divieto di sospensione del pagamento. Fin quando tale azione non venga effettivamente esercitata, il compratore non può sospendere il pagamento, altrimenti il venditore si vedrebbe privato dei propri diritti contrattuali (ossia la ricezione del corrispettivo) sulla base di una semplice “probabilità” dell’esercizio dell’azione di rivendica.

Né sembra che il compratore possa domandare, a seguito della consapevolezza di tale pericolo, la risoluzione del contratto di vendita, in quanto, ai sensi dell’art. 1479 comma 1 c.c., “il compratore può chiedere la risoluzione del contratto, se, quando l'ha concluso, ignorava che la cosa non era di proprietà del venditore, e se frattanto il venditore non gliene ha fatto acquistare la proprietà”. La possibilità di domandare la risoluzione sussiste solo quando egli non sapeva che la cosa fosse di proprietà del venditore, il che presuppone che il diritto di proprietà del venditore sia già stato o accertato giudizialmente mediante sentenza di accoglimento dell’azione di rivendica, oppure, quanto meno, sia stato “manifestato” con l’esercizio di quest’ultima. La risoluzione, quindi, non si può domandare nel caso di “semplice pericolo” di rivendica.

Il compratore, sospendendo il pagamento del prezzo, vorrebbe cautelarsi dagli effetti derivanti da un’eventuale azione di rivendica, che sarebbero i seguenti: restituzione del bene al legittimo proprietario e risarcimento danni per essere stato in mala fede al momento dell’acquisto, in quanto appunto era a conoscenza del pericolo della rivendica. Egli, quindi, si vedrebbe privato della possibilità di godere del bene ed inoltre potrebbe essere condannato al risarcimento per violazione dei principi di buona fede e correttezza ex art. 1337 c.c. . Pertanto, un’eventuale domanda di risoluzione gli eviterebbe di pagare per intero il prezzo per l’acquisto di una cosa della quale poi, nel caso di esercizio (con ogni probabilità di successo) dell’azione di rivendica da parte del terzo, non potrebbe più godere.

Ebbene, l’art. 1481 comma 2 c.c., tra l’interesse del compratore a non adempiere ad una prestazione (il pagamento del corrispettivo) con il rischio poi di non poter godere dei benefici di quest’ultima (ossia il godimento del bene), e l’interesse del venditore a conseguire i vantaggi di tale prestazione (ossia il ricevimento del corrispettivo), tutela quest’ultimo. Si preferisce garantire la certezza del rapporto giuridico sorto dalla vendita, piuttosto che tutelare il timore di una delle parti (il compratore) di non poter successivamente godere appieno dei vantaggi derivanti dalla prestazione della controparte (il venditore), e ciò in quanto tale timore (ossia il pericolo della rivendica) in realtà è sorto solo successivamente alla stipula del contratto di vendita, mentre, in sede di stipula, la parte era in mala fede.

La mala fede del compratore ex art. 1481 comma 2 c.c., consistente nel fatto che egli era a conoscenza del pericolo di rivendica, corrisponde al “dolo”, il quale, ex art. 1439 c.c., costituisce uno dei presupposti per l’annullamento del contratto.

Ma la parte può chiedere l’annullamento solo nel caso di dolo della controparte, e non anche quando essa stessa sia stata in dolo (come accade nel caso dell’art. 1481 comma 2 c.c.).

La parte, se è stata essa stessa in mala fede, non può agire per l’annullamento del contratto.

Pertanto, non sembra che il divieto di sospensione del pagamento del prezzo, stabilito dall’art. 1481 comma 2 c.c., possa essere superato attribuendo al compratore il diritto di chiedere l’annullamento del contratto.

Pertanto, non sembrerebbero esservi ragioni per dubitare sulla legittimità del divieto di sospensione del pagamento del prezzo, previsto dalla norma in commento.

Tuttavia, occorre rilevare quanto segue.

Ai sensi dell’art. 1375 c.c., “il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”.

La buona fede rappresenta un obbligo comportamentale che deve essere assolto dalle parti del contratto non soltanto nei loro reciproci rapporti, ma anche nei riguardi dei terzi che, a valere su quel contratto, potrebbero legittimamente accampare dei diritti.

P. es., l’art. 1396 c.c. prevede che “le modificazioni e la revoca della procura devono essere portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. In mancanza, esse non sono opponibili ai terzi, se non si prova che questi le conoscevano al momento della conclusione del contratto”.

Ma, più in generale, basti pensare a tutte le norme del codice civile in base alle quali le sentenze che accolgono la domanda di una delle parti del contratto non pregiudica il terzo acquirente in buona fede, il quale abbia trascritto il suo titolo di acquisto prima che venisse trascritta la domanda giudiziale.

Ebbene, come il terzo, per tutelare i propri diritti nei confronti delle parti del contratto, deve dimostrare di essere stato in buona fede nei loro riguardi, allo stesso modo le parti dovrebbero considerarsi tenute a comportarsi in buona fede nei confronti di quei terzi i quali potrebbero rivendicare (legittimamente) dei diritti sulla cosa oggetto del contratto stesso.

Altrimenti, il terzo sarebbe solo destinatario dell’obbligo di buona fede, e non anche titolare del “diritto alla buona fede”, e quindi egli, rispetto alle parti contrattuali, rimarrebbe sempre in una condizione di inferiorità.

Pertanto, alla parte contrattuale, anche quando inizialmente sia stata in mala fede nei confronti del terzo, dovrebbe essere riconosciuto il diritto – dovere di interrompere l’adempimento della prestazione (in tal caso, il pagamento del prezzo) nel caso in cui essa intenda, successivamente alla stipula del contratto, venire in soccorso del terzo, dimostrando a quest’ultimo di non voler ledere i suoi diritti ove vi sia un fondato motivo per ritenere che il contratto abbia provocato tale lesione, a prescindere dal fatto che il terzo abbia già o meno esercitato l’azione di rivendica.

L’art. 1150 c.c. stabilisce che “il possessore, anche se di mala fede, ha diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni straordinarie. Ha anche diritto a indennità per i miglioramenti recati alla cosa, purché sussistano al tempo della restituzione”.

Chi ha posseduto una cosa ben sapendo che questa fosse di altri, ed è quindi stato in mala fede, se nel periodo del suo possesso ha eseguito attività che hanno oggettivamente arricchito la sfera giuridica di chi della cosa era il vero proprietario, ha diritto non soltanto al rimborso delle spese ma anche ad ottenere una somma pari al valore di tale arricchimento.

Pertanto, il principio è quello in base al quale il possessore di mala fede deve comunque essere premiato nel caso in cui abbia ampliato la sfera giuridica del legittimo proprietario della cosa.

Allora, si potrebbe, per tale ragione, ritenere che il compratore, il quale al tempo dell’acquisto era consapevole del pericolo di rivendica da parte del terzo (legittimo) proprietario, debba essere, se non “premiato”, quanto meno “tutelato” nel caso in cui egli intenda sospendere il pagamento del prezzo, riconoscendogli appunto tale diritto di sospensione.

Che il possessore di mala fede abbia comunque, nonostante il suo stato soggettivo di “dolo permanente”, il diritto di ottenere un’utilità economica, e che invece il compratore, il quale è stato in mala fede all’inizio ma poi adesso si ravvede e vorrebbe sospendere il pagamento del prezzo (quindi “dolo non permanente”), debba essere costretto a corrispondere comunque al venditore il prezzo di vendita, appare un meccanismo piuttosto “curioso”, al punto tale che l’art. 1481 comma 2 c.c. potrebbe essere oggetto di una questione di legittimità costituzionale ex art. 3 Cost. .

Ciò anche perché, mentre nel caso di cui all’art. 1150 c.c., la “mala fede” sembra riferirsi ad una situazione di già accertata appartenenza del diritto di proprietà al terzo, invece nel caso di cui all’art. 1481 comma 2 c.c. la “mala fede” è riferita alla conoscenza non di un già avvenuto accertamento del diritto di proprietà in capo al terzo, ma solo di un “pericolo di rivendica” da parte di quest’ultimo.

Pertanto, l’art. 1481 comma 2 c.c. – il quale stabilisce il divieto compratore, che al tempo della vendita era consapevole del pericolo di rivendica da parte del terzo, di sospendere il pagamento in favore del venditore – contrasta con gli artt. 1375 c.c. e 1150 c.c. .