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Legge, amministrazione e giudice amministrativo: il ruolo dei principi

Dallo studio dell'autrice del tomo: Diritto Processuale amministrativo, a cura di Aldo Sandulli, edizioni Giuffrè, Milano, 2013; volume 7 della collana “Corso di Diritto amministrativo”, diretta da Sabino Cassese, traggo, in filigrana, l’argomento che intitola il presente saggio.

Invalidità caducante

Quando esiste una precisa relazione di necessità logica e giuridica, per cui l’atto annullato è in diritto e in fatto il presupposto unico e imprescindibile degli atti che seguono, si configura un’invalidità caducante; da verificare altresì nella prospettiva della tutela dei controinteressati e dei terzi, e alla luce della garanzia del principio del contraddittorio.

Peraltro, l’apertura all’opposizione di terzo porta a dare rilievo anche a questioni di principio, ridimensionando la centralità della posizione del ricorrente che era alla base della tesi dell’invalidità caducante.

Negli altri casi – assai più numerosi date le rigide condizioni della fattispecie precedente – si trattava di una mera individualità viziante. L’interessato ha l’onere di presentare motivi aggiunti/un distinto ricorso giurisdizionale, ove voglia far valere l’illegittimità degli atti consequenziali.

Nuova disciplina dei motivi aggiunti

La legge 205/2000 ha dato un ulteriore impulso a questa prospettazione, con la nuova disciplina dei motivi aggiunti e la semplificazione delle fasi processuali che seguono l’impugnazione principale.

Finora, la giurisprudenza ha ammesso motivi formulati sinteticamente e senza una puntuale indicazione delle norme/dei principi che si pretende siano stati violati, purché la controversia non sia generica/ipotetica, ed emerga comunque nei suoi tratti essenziali. Con ciò contravvenendo alla disciplina rigorosa che era prevista dall’articolo 17 del regolamento della procedura dinanzi al Consiglio di Stato del 1907.

Applicazioni nella pratica

Nella pratica, il principio ha trovato applicazione alquanto flessibile.

È usuale, specie in settori di diritto degli appalti pubblici, che i ricorrenti richiamino genericamente la violazione dei principi generali della materia, nazionali e/o comunitarie, privilegiando la delineazione dei fatti contestati. In tali casi, la genericità del motivo non comporta normalmente l’inammissibilità del ricorso, specie quando nella materia si è formato un corpo ben definito di principi giurisprudenziali e la fattispecie è puntualmente definita.

Non sono poi infrequenti i ricorsi con formulazione generica dei motivi, dovuta esplicitamente alla circostanza che il ricorrente non è stato ancora in grado di conoscere appieno l’intera quæstio controversa. In tali casi, egli ha l’onere di affinare i motivi, non appena avuta piena contezza dei fatti e/o degli atti rilevanti, tramite l’esercizio del diritto di accesso/l’esibizione dei documenti ordinata dal giudice.

Rimane ovviamente possibile anche presentare motivi aggiunti, se le circostanze lo richiedono.

Effetti della presentazione del ricorso giurisdizionale

La presentazione del ricorso giurisdizionale non ha effetto sospensivo del provvedimento impugnato; ovvero non ha effetti sulla sua efficacia ed esecuzione.

Così prevedeva nel 1889 la legge Crispi (n. 5992), istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, e così è rimasto nel tempo, malgrado che alcune leggi risalenti prevedessero l’effetto sospensivo dei ricorsi avverso i provvedimenti di alcune pubbliche amministrazioni (ad esempio, la legge 6972/1890).

È evidente il favore del legislatore per la piena operatività dell’amministrazione ed il perseguimento dell’interesse pubblico. Ma, allo stesso tempo, sin dal 1907 la Legge ammetteva espressamente che l’esecuzione del provvedimento impugnato potesse essere sospesa per «gravi ragioni» con decreto motivato della IV Sezione del Consiglio di Stato, sopra istanza del ricorrente.

Su tale base, pur assai sintetica, la giurisprudenza ha sempre riconosciuto che il ricorrente potesse chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto, adducendo gravi motivi. Ulteriore conforto è derivato dalla previsione dell’articolo 39, Testo Unico n. 1054 del 1924, malgrado che anch’essa fosse di formulazione essenziale.

Tutela cautelare

Se gran parte del diritto processuale amministrativo deve al giudice i propri principi, il tema della tutela cautelare è probabilmente la massima espressione del diritto giurisprudenziale.

La circostanza è comune ai maggiori ordinamenti europei, salvo la Spagna, ove è decisivo l’intervento del legislatore.

Tuttavia, in alcuni ordinamenti il legislatore è poi intervenuto a codificare i risultati giurisprudenziali; mentre il modello italiano di tutela cautelare è rimasto eminentemente giurisprudenziale sino al recente codice del processo amministrativo.

Anche la Corte Costituzionale ha contribuito alla valorizzazione della fase cautelare nel giudizio amministrativo, indicando dapprima l’importanza della tutela cautelare e la sua stretta relazione con il merito del ricorso (sentenza n. 284 del 1974); successivamente affermando che il principio del doppio grado della giurisdizione vale anche per la fase cautelare (sentenza n. 8 del 1982); e con le sentenze n. 180 del 1985 e n. 253 del 1994, evocando il principio che la durata.

Con la sentenza n. 190 del 1985 poi, la Corte ha indicato che nelle controversie patrimoniali di pubblico impiego, rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, potessero essere assunti i provvedimenti urgenti più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito.

È stato così favorito l’ampliamento delle misure cautelari anche oltre la sospensione del provvedimento impugnato, con contenuti atipici, e si è confermato che la limitazione tradizionale alla “sospensiva” ha rappresentato una scelta del legislatore, non un dato ineludibile.

Pure il giudice comunitario ha offerto un rilevante apporto all’ampliamento della tutela cautelare, partendo – in modo non dissimile dal giudice amministrativo nazionale – da una limitatissima base normativa. La Corte di Giustizia si è riferita al principio generale di effettività della tutela (emblematico ai presenti fini il caso Factortame), ovvero della garanzia di una tutela che deve essere concretamente assicurata dal diritto degli Stati membri, superando, eventualmente, i vincoli dei propri diritti.

Merita ricordare i noti casi Zucherfabrik e Atlanta, ove la Corte, nel primo caso, arriva ad ammettere la sospendibilità dei regolamenti comunitari per non compromettere la tutela giurisdizionale degli interessati; nel secondo a riconoscere che l’articolo 259 Trattato Comunità Europea (sovente acronimata in CE), implica la competenza dei giudici nazionali ad assicurare qualsiasi provvedimento urgente – una “tutela ad ampio raggio”, compreso il provvedimento positivo – che renda provvisoriamente inapplicabile, a vantaggio del singolo, il regolamento la cui validità è contestata.

Merita notare che il giudice dell’Unione Europea ha seguito principi assai simili a quelli dei nostri giudici, specialmente per quanto riguarda la necessaria strumentalità della tutela cautelare rispetto al merito, che non può assumere carattere anticipatorio; nonché per la valenza della tutela per ogni tipo d’interesse, anche pretensivo e positivo.

L’importanza della tutela cautelare è variabile dipendente della qualità e speditezza del processo. È principio recepito, confermato dalla Corte Costituzionale, che il tempo necessario alla decisione di merito non può risultare in danno all’attore/ricorrente che ha ragione.

Nel caso del processo amministrativo, la semplicità delle sue fasi, per cui non vi sono di regola udienze ed occasioni per la deliberazione del ricorso sino alla trattazione del merito, ha reso la fase cautelare più importante che in altri tipi di processo.

L’esame dell’istanza cautelare, solitamente nell’arco di tre settimane (ulteriormente comprimibili alla bisogna), consente non solo di ottenere di presentare al giudice possibili eccezioni processuali e/o questioni particolari (ad esempio la necessità di attività istruttorie), che altrimenti il giudice non avrebbe modo di esaminare se non molto tempo dopo.

Nella fase in esame si cumulano così l’interesse cautelare vero e proprio con quello processuale alla presentazione al giudice di tutti gli elementi utili per assumere la più opportuna conduzione del procedimento. Palesemente, questo secondo interesse è manifestato nell’occasione non propria; ma, in carenza di un’adeguata disciplina processuale su questa prima fase (ad esempio per una prima udienza, anche monocratico, dedicata all’esame delle questioni preliminari ed istruttorie), la trattazione della sospensiva ha, di fatto, inglobato anche altri profili non strettamente cautelari. Per tale motivo, la tutela cautelare – che già ha nelle questioni amministrative più rilievo che in altri rapporti giuridici, stante l’imperium che normalmente caratterizza l’azione dell’amministrazione, cui solo il giudice può porre argine – si è dilatata in modo impressionante. Si aggiunga che i tempi del giudizio amministrativo, pur se oggi mediamente inferiori agli altri tipi di processo, sono comunque tali da rendere di regola scarsamente utile una tutela che giunga tarda, in violazione del principio costituzionale della durata ragionevole del processo, parte del più generale principio sul giusto processo (articolo 111 Costituzione, espressamente richiamato all’articolo 2 codice di procedura civile).

Nulla è cambiato dal punto di vista qualitativo, dopo la tanto auspicata riforma sulla risarcibilità degli interessi legittimi ingiustamente lesi. Nella gran parte dei casi, il risarcimento del danno rappresenta un ristoro patrimoniale, certo apprezzabile, ma quasi mai in grado di risultare una vera e propria alternativa alla domanda del ricorrente. Inoltre, anche il risarcimento attraverso la reintegrazione in forma specifica, di derivazione civilistica, trova nei rapporti amministrativi palesi limiti applicativi e dunque è situazione particolare.

Più efficaci sono state invece le previsioni per il rito accelerato in determinate materie, specie gli appalti pubblici. Le nuove disposizioni degli ultimi lustri, cui i giudici hanno dato piena applicazione, hanno assicurato a questo tipo di contenzioso una procedura con tempi e varietà di decisioni appropriate alla loro importanza economica ed agli interessi pubblici rilevanti.

I riti speciali – che allo stato dell’organizzazione del contenzioso amministrativo non hanno le condizioni per essere generalizzabili a tutte le materie – aumentano però la distanza rispetto alle procedure ordinarie, con conseguenti, oggettive disparità di trattamento e dubbi di ragionevolezza.

Il codice del processo amministrativo disciplina poi la circostanza che dalla decisione della domanda cautelare derivino effetti irreversibili, quasi il converso dell’irreparabilità del danno. Nel caso, il collegio può subordinare la concessione o il diniego della misura cautelare alla presentazione d’idonea cauzione (articolo 55, comma 2, codice processo amministrativo); trattandosi ovviamente di controversia di natura patrimoniale. Tuttavia, ciò non vale quando si tratti di controversie relative a «diritti fondamentali della persona», o ad altri «beni di primario rilievo costituzionale». In realtà, effetti “irreversibili” non dovrebbero mai derivare dalla fase cautelare, in quanto altrimenti si avrebbe l’anticipazione del procedimento principale.

Non è poi facilmente definibile l’ambito degli interessi essenziali della persona. Infatti, se tale è certamente ad esempio il diritto alla salute, si può discutere se lo sia anche il diritto all’integrità dell’ambiente.

L’esperienza attuativa della novella del 2000 e del codice del processo amministrativo è risultata assai ragionevole, in quanto il giudice ha limitato la prestazione di garanzie principalmente a casi in cui vi siano prevedibili rischi per la solidità patrimoniale di coloro che beneficiano di misure cautelari. Tipico è il caso di sospensiva di provvedimento, che ordina la restituzione di un beneficio che l’amministrazione reputa illegittimamente percepito, accompagnando tale misura con la restituzione di equipollente cauzione, anche tramite fideiussione.

Istruzione nel processo amministrativo

A differenza di quanto avviene nel processo civile, l’istruzione nel processo amministrativo non costituisce il primo momento pubblico di ricostruzione dei fatti.

L’adozione del provvedimento rappresenta il momento espressivo dell’esercizio del potere, reso possibile dal compimento di atti e valutazioni avvenute in sede di procedimento amministrativo. È proprio nell’istruttoria procedimentale che l’amministrazione conosce ed acquisisce i fatti sulla base dei quali individuerà l’interesse prevalente ed adotterà il provvedimento.

Sulla base di questa considerazione, in passato si è talvolta giustificata la povertà dell’istruttoria processuale e una sua sostanziale mortificazione. Se l’amministrazione, che resta pur sempre un soggetto che agisce nel perseguimento di interessi pubblici e ubbidisce al principio d’imparzialità, ha già compiuto una ricostruzione dei fatti, allora al giudice sarebbe sostanzialmente concesso (ed imposto) di dare per acquisita al processo quella ricostruzione.

Un siffatto ragionamento è stato giustamente sottoposto a serrata critica fin dal principio. Ed oggi appare del tutto inaccettabile.

In primo luogo, è stata svelata la contraddittorietà della pretesa neutralità dell’amministrazione nell’esercizio del suo potere rispetto ai destinatari del provvedimento ed ai loro interessi. Così, se è vero che l’istruttoria procedimentale è governata da regole finalizzate a garantire imparzialità e buon andamento, è anche vero che – in concreto – possono darsi (e spesso si danno) casi in cui quelle regole vengono violate. In secondo luogo, poiché l’illegittimità del provvedimento finale è spesso determinata proprio dagli errori e dalle lacune dell’istruttoria procedimentale, l’istruzione probatoria nel processo sul provvedimento, pare poter condurre a rilevare/negare l’illegittimità di quest’ultimo, e deve anzitutto essere istruzione sull’istruttoria procedimentale.

Ne consegue che l’istruttoria procedimentale e l’istruttoria processuale sono, da un lato, distinte per funzione e per oggetto; dall’altro, inevitabilmente intrecciate l’una all’altra. Il rapporto che le lega è inoltre stato ulteriormente arricchito dalle recenti modifiche alla legge sul procedimento amministrativo. Si pensi, ad esempio, al procedimento concluso con un accordo sostitutivo del provvedimento, con riferimento al quale l’analisi degli eventuali inadempimenti, compiuta in sede d’istruzione processuale, non può prescindere dall’esame approfondito delle risultanze procedimentali che hanno dato origine all’accordo e, prima ancora, alla determinazione dell’organo in astratto competente per l’adozione del provvedimento sostitutivo. Si pensi ancora all’obbligo – sancito dall’articolo 10-bis della legge sul procedimento amministrativo – di comunicare all’interessato i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza prima dell’adozione del provvedimento finale, che impone di verificare, in sede d’istruzione processuale, l’adeguatezza dell’istruttoria compiuta sino al momento della comunicazione e le eventuali successive variazioni degli elementi di fatto di cui il provvedimento finale non può non tener conto.

Eguali considerazioni valgono con riferimento all’attuale strutturazione della segnalazione certificata d’inizio attività.

La progressiva trasformazione del processo amministrativo in processo sul rapporto, la pubblicità dell’istruttoria procedimentale, la partecipazione del privato al procedimento e la recente complicazione strutturale del procedimento fanno, oggi più che in passato, dell’istruzione processuale un’istruttoria sull’istruttoria procedimentale.

Incidente di costituzionalità e “pregiudiziale comunitaria”

L’ordinamento non detta specifiche norme con riferimento al caso in cui il giudice amministrativo, durante il processo, ritenga che vi siano fondate ragioni di dubitare della legittimità costituzionale di una norma indispensabile per risolvere la controversia.

In attuazione dei principi generali, l’incidente di costituzionalità (la questione pregiudiziale di costituzionalità, per meglio dire) determina la sospensione necessaria del processo e la remissione degli atti alla Corte Costituzionale.

Nel processo amministrativo, la questione di legittimità costituzionale può assumere contorni più complessi di quanto non accada nel processo civile. Infatti, dalla costituzionalità della norma dipende non tanto la regolazione in via diretta dei rapporti giuridici, quanto il fondamento del potere usato dall’amministrazione.

Poiché la norma della cui costituzionalità si dubita rappresenta il fondamento stesso del provvedimento impugnato, dalla soluzione adottata dalla Corte può dipendere l’esito stesso del processo amministrativo: se viene dichiarata l’incostituzionalità della norma attributiva del potere, dalla declaratoria stessa discende l’esito del processo amministrativo a quo, così che il giudice amministrativo, nella sua decisione, altro non può fare che dichiarare l’illegittimità del provvedimento in ragione del venir meno del suo fondamento legislativo.

Conviene ricordare che al giudice amministrativo non è consentito di disapplicare gli atti e i provvedimenti che ritenga illegittimi perché emanati sulla base di norme che egli ritenga incostituzionali o perché essi stessi contrastanti con la Costituzione.

La questione di costituzionalità può essere sollevata anche nel corso del giudizio cautelare, non essendo tuttavia precluso al giudice di adottare, in attesa del giudizio della Corte, i provvedimenti cautelari che egli ritenga necessari.

Discorso del tutto analogo deve farsi per la cosiddetta “pregiudiziale comunitaria”. Nell’ipotesi in cui il giudice amministrativo si trovi a dover applicare una norma nazionale che egli ritenga contrastante con il prevalente ordinamento comunitario, può chiedere alla Corte di Giustizia di pronunciarsi in merito. In attesa della pronuncia del giudice comunitario, si dà corso alla sospensione necessaria del processo amministrativo.

Ambiti del principio della domanda

Il principio della domanda opera oltre che per il ricorrente nei confronti delle altre parti del giudizio (amministrazione e controinteressati), quando queste non si limitino a resistere alle pretese del ricorrente, ma introducano in giudizio domande nuove.

Il riferimento non è solo al ricorso incidentale e ai suoi motivi, ma anche, nella giurisdizione esclusiva, ad eventuali domande riconvenzionali dell’amministrazione resistente, nonché alla particolare fattispecie del vizio del provvedimento per mancata comunicazione di avvio del procedimento, disciplinata dall’articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990.

In relazione a tale ultimo caso, l’onere dell’amministrazione di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, e che quindi la mancata comunicazione non produce annullabilità, si accompagna, per la giurisprudenza, a un onere dell’amministrazione convenuta di una specifica richiesta in questo senso. Diversamente, il giudice non potrebbe andare a verificare il contenuto del provvedimento sotto il profilo del suo carattere di necessità, ossia sotto un profilo diverso da quello dedotto nell’impugnazione, pena la violazione della corrispondenza tra chiesto e giudicato.

Per le stesse ragioni, sembra corretto pervenire ad analoghe conclusioni anche per quanto riguarda l’ipotesi di carattere generale contenuta alla prima proposizione del summenzionato articolo e del summenzionato comma, per cui, anche in assenza dell’espressa previsione di un onere di dimostrazione in giudizio (e dovendosi ritenere operante in questo caso il principio inquisitorio per quanto concerne l’accertamento degli elementi rilevanti per il giudizio), si dovrebbe ritenere che l’amministrazione abbia l’onere di chiedere che il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento/sulla formazione degli atti non sia considerato annullabile, se risulta palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello dell’atto in concreto adottato.

Effetti del giudicato amministrativo

Quanto alla consistenza del vincolo che sorge in capo all’amministrazione dalla sentenza di annullamento, a differenza di quanto accade nel giudizio civile, che si forma, di regola, con riferimento a un evento storico/episodio della vita ben identificato e in sé concluso, quello amministrativo opera su una realtà in movimento, visto che l’azione amministrativa, anche in relazione al principio della doverosità dell’esercizio dei poteri correlata alla cura degli interessi pubblici, non può arrestarsi.

Pertanto, il giudicato amministrativo ha, a seconda dei casi, un effetto vincolante pieno, semipieno o secondario (o strumentale):

-l’effetto vincolante è pieno allorché l’atto viene annullato perché mancavano i presupposti soggettivi od oggettivi previsti dalla norma di conferimento del potere (per esempio, il carattere inespropriabile dell’area oggetto invece di un decreto di esproprio), oppure perché all’emanazione di un nuovo provvedimento è comunque decorso il termine perentorio entro il quale il potere doveva essere esercitabile. In questi casi, l’amministrazione non può emanare un nuovo provvedimento sostitutivo di quello annullato.

-L’effetto vincolante è semipieno allorché, per esempio, il vizio accertato riguarda uno solo degli elementi discrezionali dell’atto, di modo che, in sede di riesercizio del potere, l’amministrazione vede limitata, ma non esclusa del tutto, la propria discrezionalità.

-L’effetto vincolante è secondario (o strumentale) allorché l’annullamento dipenda dall'accertamento di un vizio di incompetenza o di un vizio formale o procedurale, così che l’amministrazione, in sede di riesercizio del potere, è tenuta soltanto ad eliminare il vizio e non è vincolata quanto al contenuto del nuovo provvedimento, che può anche essere identico a quello del provvedimento annullato. A quest’ultimo riguardo, va rilevato come, per effetto dell’introduzione del nuovo articolo 21-octies, comma 2, legge 241/1990 ad opera della legge 15/2005, l’annullamento del provvedimento per vizi formali o procedurali può avvenire solo «qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».

Se dunque si escludono i casi di effetto vincolante pieno, il giudicato amministrativo lascia in capo all’amministrazione “spazi liberi” talvolta assai estesi.

La regola circa la futura azione amministrativa, desumibile dagli effetti ripristinatorio e conformativo, è spesso implicita, elastica, condizionata, incompleta:

-implicita, in quanto si desume a contrario dal vizio/dai vizi accertato/i dalla sentenza;

-elastica, almeno in parte, perché l’attività di ripristinazione, che comporta l’eliminazione in concreto, nei limiti del possibile, degli stati di fatto e diritto determinatisi in seguito all'emanazione del provvedimento annullato, richiede all'amministrazione valutazioni talora complesse, e in taluni casi la ripristinazione può risultare in concreto impossibile (per esempio: superamento del limite massimo di età del ricorrente che ha impugnato un diniego di assunzione);

-condizionata all'inesistenza di sopravvenienze di fatto e diritto, delle quali l’amministrazione è tenuta, entro certi limiti, a tener conto;

-incompleta perché essa riguarda esclusivamente i tratti di azione amministrativa sottoposti all'esame del giudice, i quali spesso non esauriscono l’intera vicenda.

Limiti cronologici del giudicato

In particolare, la questione delle sopravvenienze, in relazione alle quali si pone il problema dei cosiddetti limiti cronologici del giudicato, richiede una difficile composizione tra due opposti interessi: quello del ricorrente nei confronti del quale la sentenza che ha riconosciuto fondate le sue ragioni, che rischia di perdere ogni utilità; quello dell’amministrazione che, in sede di nuovo esercizio del potere, deve tener conto, al fine della miglior cura dell’interesse pubblico, del quadro fattuale e normativo esistente in quel momento.

La giurisprudenza stenta a trovare un giusto equilibrio, e ricorre talora a soluzioni ispirate a ragioni equitative ed alla necessità di evitare che le amministrazioni eludano con troppa facilità il giudicato.

Laddove lo jus superveniens è determinato da atti amministrativi emanati dall’amministrazione (come nel caso dell’entrata in vigore di un piano regolatore che introduca un vincolo d’inedificabilità dell’area dopo l’emanazione di provvedimento di diniego di concessione edilizia, impugnato dinanzi al giudice amministrativo), si è ritenuto che possano essere considerate rilevanti, ai fini del riesercizio del potere, soltanto le sopravvenienze intervenute dopo il passaggio in giudicato o la notifica della sentenza di annullamento.

Effettività della tutela giurisdizionale

Il principio costituzionale dell’effettività della tutela giurisdizionale enunciato dall’articolo 24 Costituzione e richiamato dall’articolo 1 codice processo amministrativo, richiede che la sentenza emanata nei confronti della parte soccombente nel giudizio possa essere portata a esecuzione anche in assenza della cooperazione da parte di quest’ultima.

L’ordinamento può prevedere, a questo fine, forme di tutela giurisdizionale esecutiva indiretta, consistenti in misure coercitive (sanzioni di natura civile o penale), oppure diretta, consistenti nella sostituzione dell’inattività dell’obbligato con l’attività dell’ufficio esecutivo, che appunto pone in essere ciò che la parte soccombente in giudizio avrebbe dovuto fare e non ha fatto.

Il codice di procedura civile contiene nel Libro Terzo un’articolata disciplina del processo di esecuzione, incentrata essenzialmente su tre tecniche di tutela esecutiva diretta:

-l’espropriazione forzata, in relazione ai crediti in denaro;

-l’esecuzione per consegna o rilascio, relativa al trasferimento del possesso su beni mobili e immobili;

-l’esecuzione forzata di obblighi di fare fungibili, e di non fare.

La tutela giurisdizionale esecutiva nei confronti della Pubblica Amministrazione (d’ora innanzi acronimata in PA) solleva tuttavia un problema specifico che l’ha resa storicamente (e la rende in parte ancor oggi) particolarmente delicata.

Infatti, nelle controversie tra soggetti privati, il giudice, in veste di autorità pubblica – espressione di uno dei poteri dello Stato –, attribuisce il torto e la ragione a due soggetti privati. Le controversie nelle quali una parte è la PA, involgono invece, pur sempre, due poteri dello Stato, il potere giudiziario e il potere esecutivo che, in base al principio della separazione dei poteri, godono tendenzialmente di ambiti e prerogative proprie.

Si spiega così, da un lato, perché nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale esecutiva nei confronti della PA si è affermata lentamente e con numerose incertezze; dall’altro lato, perché alcuni ordinamenti privilegiano rimedi di tipo indiretto (sanzioni di tipo pecuniario, come nel sistema francese o in quello tedesco, o di tipo penale, come nel sistema inglese), meno invasive delle prerogative proprie del potere esecutivo anche se potenzialmente meno efficaci.

Il nostro ordinamento si è mosso sin dall’inizio sulla direttrice di privilegiare una forma particolare di tutela esecutiva diretta costituita dal cosiddetto giudizio di ottemperanza, che garantisce un’esecuzione in forma specifica attraverso l’adozione, da parte del giudice (o di un suo delegato), di misure di tipo sostitutivo.

Dallo studio dell'autrice del tomo: Diritto Processuale amministrativo, a cura di Aldo Sandulli, edizioni Giuffrè, Milano, 2013; volume 7 della collana “Corso di Diritto amministrativo”, diretta da Sabino Cassese, traggo, in filigrana, l’argomento che intitola il presente saggio.

Invalidità caducante

Quando esiste una precisa relazione di necessità logica e giuridica, per cui l’atto annullato è in diritto e in fatto il presupposto unico e imprescindibile degli atti che seguono, si configura un’invalidità caducante; da verificare altresì nella prospettiva della tutela dei controinteressati e dei terzi, e alla luce della garanzia del principio del contraddittorio.

Peraltro, l’apertura all’opposizione di terzo porta a dare rilievo anche a questioni di principio, ridimensionando la centralità della posizione del ricorrente che era alla base della tesi dell’invalidità caducante.

Negli altri casi – assai più numerosi date le rigide condizioni della fattispecie precedente – si trattava di una mera individualità viziante. L’interessato ha l’onere di presentare motivi aggiunti/un distinto ricorso giurisdizionale, ove voglia far valere l’illegittimità degli atti consequenziali.

Nuova disciplina dei motivi aggiunti

La legge 205/2000 ha dato un ulteriore impulso a questa prospettazione, con la nuova disciplina dei motivi aggiunti e la semplificazione delle fasi processuali che seguono l’impugnazione principale.

Finora, la giurisprudenza ha ammesso motivi formulati sinteticamente e senza una puntuale indicazione delle norme/dei principi che si pretende siano stati violati, purché la controversia non sia generica/ipotetica, ed emerga comunque nei suoi tratti essenziali. Con ciò contravvenendo alla disciplina rigorosa che era prevista dall’articolo 17 del regolamento della procedura dinanzi al Consiglio di Stato del 1907.

Applicazioni nella pratica

Nella pratica, il principio ha trovato applicazione alquanto flessibile.

È usuale, specie in settori di diritto degli appalti pubblici, che i ricorrenti richiamino genericamente la violazione dei principi generali della materia, nazionali e/o comunitarie, privilegiando la delineazione dei fatti contestati. In tali casi, la genericità del motivo non comporta normalmente l’inammissibilità del ricorso, specie quando nella materia si è formato un corpo ben definito di principi giurisprudenziali e la fattispecie è puntualmente definita.

Non sono poi infrequenti i ricorsi con formulazione generica dei motivi, dovuta esplicitamente alla circostanza che il ricorrente non è stato ancora in grado di conoscere appieno l’intera quæstio controversa. In tali casi, egli ha l’onere di affinare i motivi, non appena avuta piena contezza dei fatti e/o degli atti rilevanti, tramite l’esercizio del diritto di accesso/l’esibizione dei documenti ordinata dal giudice.

Rimane ovviamente possibile anche presentare motivi aggiunti, se le circostanze lo richiedono.

Effetti della presentazione del ricorso giurisdizionale

La presentazione del ricorso giurisdizionale non ha effetto sospensivo del provvedimento impugnato; ovvero non ha effetti sulla sua efficacia ed esecuzione.

Così prevedeva nel 1889 la legge Crispi (n. 5992), istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, e così è rimasto nel tempo, malgrado che alcune leggi risalenti prevedessero l’effetto sospensivo dei ricorsi avverso i provvedimenti di alcune pubbliche amministrazioni (ad esempio, la legge 6972/1890).

È evidente il favore del legislatore per la piena operatività dell’amministrazione ed il perseguimento dell’interesse pubblico. Ma, allo stesso tempo, sin dal 1907 la Legge ammetteva espressamente che l’esecuzione del provvedimento impugnato potesse essere sospesa per «gravi ragioni» con decreto motivato della IV Sezione del Consiglio di Stato, sopra istanza del ricorrente.

Su tale base, pur assai sintetica, la giurisprudenza ha sempre riconosciuto che il ricorrente potesse chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto, adducendo gravi motivi. Ulteriore conforto è derivato dalla previsione dell’articolo 39, Testo Unico n. 1054 del 1924, malgrado che anch’essa fosse di formulazione essenziale.

Tutela cautelare

Se gran parte del diritto processuale amministrativo deve al giudice i propri principi, il tema della tutela cautelare è probabilmente la massima espressione del diritto giurisprudenziale.

La circostanza è comune ai maggiori ordinamenti europei, salvo la Spagna, ove è decisivo l’intervento del legislatore.

Tuttavia, in alcuni ordinamenti il legislatore è poi intervenuto a codificare i risultati giurisprudenziali; mentre il modello italiano di tutela cautelare è rimasto eminentemente giurisprudenziale sino al recente codice del processo amministrativo.

Anche la Corte Costituzionale ha contribuito alla valorizzazione della fase cautelare nel giudizio amministrativo, indicando dapprima l’importanza della tutela cautelare e la sua stretta relazione con il merito del ricorso (sentenza n. 284 del 1974); successivamente affermando che il principio del doppio grado della giurisdizione vale anche per la fase cautelare (sentenza n. 8 del 1982); e con le sentenze n. 180 del 1985 e n. 253 del 1994, evocando il principio che la durata.

Con la sentenza n. 190 del 1985 poi, la Corte ha indicato che nelle controversie patrimoniali di pubblico impiego, rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, potessero essere assunti i provvedimenti urgenti più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito.

È stato così favorito l’ampliamento delle misure cautelari anche oltre la sospensione del provvedimento impugnato, con contenuti atipici, e si è confermato che la limitazione tradizionale alla “sospensiva” ha rappresentato una scelta del legislatore, non un dato ineludibile.

Pure il giudice comunitario ha offerto un rilevante apporto all’ampliamento della tutela cautelare, partendo – in modo non dissimile dal giudice amministrativo nazionale – da una limitatissima base normativa. La Corte di Giustizia si è riferita al principio generale di effettività della tutela (emblematico ai presenti fini il caso Factortame), ovvero della garanzia di una tutela che deve essere concretamente assicurata dal diritto degli Stati membri, superando, eventualmente, i vincoli dei propri diritti.

Merita ricordare i noti casi Zucherfabrik e Atlanta, ove la Corte, nel primo caso, arriva ad ammettere la sospendibilità dei regolamenti comunitari per non compromettere la tutela giurisdizionale degli interessati; nel secondo a riconoscere che l’articolo 259 Trattato Comunità Europea (sovente acronimata in CE), implica la competenza dei giudici nazionali ad assicurare qualsiasi provvedimento urgente – una “tutela ad ampio raggio”, compreso il provvedimento positivo – che renda provvisoriamente inapplicabile, a vantaggio del singolo, il regolamento la cui validità è contestata.

Merita notare che il giudice dell’Unione Europea ha seguito principi assai simili a quelli dei nostri giudici, specialmente per quanto riguarda la necessaria strumentalità della tutela cautelare rispetto al merito, che non può assumere carattere anticipatorio; nonché per la valenza della tutela per ogni tipo d’interesse, anche pretensivo e positivo.

L’importanza della tutela cautelare è variabile dipendente della qualità e speditezza del processo. È principio recepito, confermato dalla Corte Costituzionale, che il tempo necessario alla decisione di merito non può risultare in danno all’attore/ricorrente che ha ragione.

Nel caso del processo amministrativo, la semplicità delle sue fasi, per cui non vi sono di regola udienze ed occasioni per la deliberazione del ricorso sino alla trattazione del merito, ha reso la fase cautelare più importante che in altri tipi di processo.

L’esame dell’istanza cautelare, solitamente nell’arco di tre settimane (ulteriormente comprimibili alla bisogna), consente non solo di ottenere di presentare al giudice possibili eccezioni processuali e/o questioni particolari (ad esempio la necessità di attività istruttorie), che altrimenti il giudice non avrebbe modo di esaminare se non molto tempo dopo.

Nella fase in esame si cumulano così l’interesse cautelare vero e proprio con quello processuale alla presentazione al giudice di tutti gli elementi utili per assumere la più opportuna conduzione del procedimento. Palesemente, questo secondo interesse è manifestato nell’occasione non propria; ma, in carenza di un’adeguata disciplina processuale su questa prima fase (ad esempio per una prima udienza, anche monocratico, dedicata all’esame delle questioni preliminari ed istruttorie), la trattazione della sospensiva ha, di fatto, inglobato anche altri profili non strettamente cautelari. Per tale motivo, la tutela cautelare – che già ha nelle questioni amministrative più rilievo che in altri rapporti giuridici, stante l’imperium che normalmente caratterizza l’azione dell’amministrazione, cui solo il giudice può porre argine – si è dilatata in modo impressionante. Si aggiunga che i tempi del giudizio amministrativo, pur se oggi mediamente inferiori agli altri tipi di processo, sono comunque tali da rendere di regola scarsamente utile una tutela che giunga tarda, in violazione del principio costituzionale della durata ragionevole del processo, parte del più generale principio sul giusto processo (articolo 111 Costituzione, espressamente richiamato all’articolo 2 codice di procedura civile).

Nulla è cambiato dal punto di vista qualitativo, dopo la tanto auspicata riforma sulla risarcibilità degli interessi legittimi ingiustamente lesi. Nella gran parte dei casi, il risarcimento del danno rappresenta un ristoro patrimoniale, certo apprezzabile, ma quasi mai in grado di risultare una vera e propria alternativa alla domanda del ricorrente. Inoltre, anche il risarcimento attraverso la reintegrazione in forma specifica, di derivazione civilistica, trova nei rapporti amministrativi palesi limiti applicativi e dunque è situazione particolare.

Più efficaci sono state invece le previsioni per il rito accelerato in determinate materie, specie gli appalti pubblici. Le nuove disposizioni degli ultimi lustri, cui i giudici hanno dato piena applicazione, hanno assicurato a questo tipo di contenzioso una procedura con tempi e varietà di decisioni appropriate alla loro importanza economica ed agli interessi pubblici rilevanti.

I riti speciali – che allo stato dell’organizzazione del contenzioso amministrativo non hanno le condizioni per essere generalizzabili a tutte le materie – aumentano però la distanza rispetto alle procedure ordinarie, con conseguenti, oggettive disparità di trattamento e dubbi di ragionevolezza.

Il codice del processo amministrativo disciplina poi la circostanza che dalla decisione della domanda cautelare derivino effetti irreversibili, quasi il converso dell’irreparabilità del danno. Nel caso, il collegio può subordinare la concessione o il diniego della misura cautelare alla presentazione d’idonea cauzione (articolo 55, comma 2, codice processo amministrativo); trattandosi ovviamente di controversia di natura patrimoniale. Tuttavia, ciò non vale quando si tratti di controversie relative a «diritti fondamentali della persona», o ad altri «beni di primario rilievo costituzionale». In realtà, effetti “irreversibili” non dovrebbero mai derivare dalla fase cautelare, in quanto altrimenti si avrebbe l’anticipazione del procedimento principale.

Non è poi facilmente definibile l’ambito degli interessi essenziali della persona. Infatti, se tale è certamente ad esempio il diritto alla salute, si può discutere se lo sia anche il diritto all’integrità dell’ambiente.

L’esperienza attuativa della novella del 2000 e del codice del processo amministrativo è risultata assai ragionevole, in quanto il giudice ha limitato la prestazione di garanzie principalmente a casi in cui vi siano prevedibili rischi per la solidità patrimoniale di coloro che beneficiano di misure cautelari. Tipico è il caso di sospensiva di provvedimento, che ordina la restituzione di un beneficio che l’amministrazione reputa illegittimamente percepito, accompagnando tale misura con la restituzione di equipollente cauzione, anche tramite fideiussione.

Istruzione nel processo amministrativo

A differenza di quanto avviene nel processo civile, l’istruzione nel processo amministrativo non costituisce il primo momento pubblico di ricostruzione dei fatti.

L’adozione del provvedimento rappresenta il momento espressivo dell’esercizio del potere, reso possibile dal compimento di atti e valutazioni avvenute in sede di procedimento amministrativo. È proprio nell’istruttoria procedimentale che l’amministrazione conosce ed acquisisce i fatti sulla base dei quali individuerà l’interesse prevalente ed adotterà il provvedimento.

Sulla base di questa considerazione, in passato si è talvolta giustificata la povertà dell’istruttoria processuale e una sua sostanziale mortificazione. Se l’amministrazione, che resta pur sempre un soggetto che agisce nel perseguimento di interessi pubblici e ubbidisce al principio d’imparzialità, ha già compiuto una ricostruzione dei fatti, allora al giudice sarebbe sostanzialmente concesso (ed imposto) di dare per acquisita al processo quella ricostruzione.

Un siffatto ragionamento è stato giustamente sottoposto a serrata critica fin dal principio. Ed oggi appare del tutto inaccettabile.

In primo luogo, è stata svelata la contraddittorietà della pretesa neutralità dell’amministrazione nell’esercizio del suo potere rispetto ai destinatari del provvedimento ed ai loro interessi. Così, se è vero che l’istruttoria procedimentale è governata da regole finalizzate a garantire imparzialità e buon andamento, è anche vero che – in concreto – possono darsi (e spesso si danno) casi in cui quelle regole vengono violate. In secondo luogo, poiché l’illegittimità del provvedimento finale è spesso determinata proprio dagli errori e dalle lacune dell’istruttoria procedimentale, l’istruzione probatoria nel processo sul provvedimento, pare poter condurre a rilevare/negare l’illegittimità di quest’ultimo, e deve anzitutto essere istruzione sull’istruttoria procedimentale.

Ne consegue che l’istruttoria procedimentale e l’istruttoria processuale sono, da un lato, distinte per funzione e per oggetto; dall’altro, inevitabilmente intrecciate l’una all’altra. Il rapporto che le lega è inoltre stato ulteriormente arricchito dalle recenti modifiche alla legge sul procedimento amministrativo. Si pensi, ad esempio, al procedimento concluso con un accordo sostitutivo del provvedimento, con riferimento al quale l’analisi degli eventuali inadempimenti, compiuta in sede d’istruzione processuale, non può prescindere dall’esame approfondito delle risultanze procedimentali che hanno dato origine all’accordo e, prima ancora, alla determinazione dell’organo in astratto competente per l’adozione del provvedimento sostitutivo. Si pensi ancora all’obbligo – sancito dall’articolo 10-bis della legge sul procedimento amministrativo – di comunicare all’interessato i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza prima dell’adozione del provvedimento finale, che impone di verificare, in sede d’istruzione processuale, l’adeguatezza dell’istruttoria compiuta sino al momento della comunicazione e le eventuali successive variazioni degli elementi di fatto di cui il provvedimento finale non può non tener conto.

Eguali considerazioni valgono con riferimento all’attuale strutturazione della segnalazione certificata d’inizio attività.

La progressiva trasformazione del processo amministrativo in processo sul rapporto, la pubblicità dell’istruttoria procedimentale, la partecipazione del privato al procedimento e la recente complicazione strutturale del procedimento fanno, oggi più che in passato, dell’istruzione processuale un’istruttoria sull’istruttoria procedimentale.

Incidente di costituzionalità e “pregiudiziale comunitaria”

L’ordinamento non detta specifiche norme con riferimento al caso in cui il giudice amministrativo, durante il processo, ritenga che vi siano fondate ragioni di dubitare della legittimità costituzionale di una norma indispensabile per risolvere la controversia.

In attuazione dei principi generali, l’incidente di costituzionalità (la questione pregiudiziale di costituzionalità, per meglio dire) determina la sospensione necessaria del processo e la remissione degli atti alla Corte Costituzionale.

Nel processo amministrativo, la questione di legittimità costituzionale può assumere contorni più complessi di quanto non accada nel processo civile. Infatti, dalla costituzionalità della norma dipende non tanto la regolazione in via diretta dei rapporti giuridici, quanto il fondamento del potere usato dall’amministrazione.

Poiché la norma della cui costituzionalità si dubita rappresenta il fondamento stesso del provvedimento impugnato, dalla soluzione adottata dalla Corte può dipendere l’esito stesso del processo amministrativo: se viene dichiarata l’incostituzionalità della norma attributiva del potere, dalla declaratoria stessa discende l’esito del processo amministrativo a quo, così che il giudice amministrativo, nella sua decisione, altro non può fare che dichiarare l’illegittimità del provvedimento in ragione del venir meno del suo fondamento legislativo.

Conviene ricordare che al giudice amministrativo non è consentito di disapplicare gli atti e i provvedimenti che ritenga illegittimi perché emanati sulla base di norme che egli ritenga incostituzionali o perché essi stessi contrastanti con la Costituzione.

La questione di costituzionalità può essere sollevata anche nel corso del giudizio cautelare, non essendo tuttavia precluso al giudice di adottare, in attesa del giudizio della Corte, i provvedimenti cautelari che egli ritenga necessari.

Discorso del tutto analogo deve farsi per la cosiddetta “pregiudiziale comunitaria”. Nell’ipotesi in cui il giudice amministrativo si trovi a dover applicare una norma nazionale che egli ritenga contrastante con il prevalente ordinamento comunitario, può chiedere alla Corte di Giustizia di pronunciarsi in merito. In attesa della pronuncia del giudice comunitario, si dà corso alla sospensione necessaria del processo amministrativo.

Ambiti del principio della domanda

Il principio della domanda opera oltre che per il ricorrente nei confronti delle altre parti del giudizio (amministrazione e controinteressati), quando queste non si limitino a resistere alle pretese del ricorrente, ma introducano in giudizio domande nuove.

Il riferimento non è solo al ricorso incidentale e ai suoi motivi, ma anche, nella giurisdizione esclusiva, ad eventuali domande riconvenzionali dell’amministrazione resistente, nonché alla particolare fattispecie del vizio del provvedimento per mancata comunicazione di avvio del procedimento, disciplinata dall’articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990.

In relazione a tale ultimo caso, l’onere dell’amministrazione di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, e che quindi la mancata comunicazione non produce annullabilità, si accompagna, per la giurisprudenza, a un onere dell’amministrazione convenuta di una specifica richiesta in questo senso. Diversamente, il giudice non potrebbe andare a verificare il contenuto del provvedimento sotto il profilo del suo carattere di necessità, ossia sotto un profilo diverso da quello dedotto nell’impugnazione, pena la violazione della corrispondenza tra chiesto e giudicato.

Per le stesse ragioni, sembra corretto pervenire ad analoghe conclusioni anche per quanto riguarda l’ipotesi di carattere generale contenuta alla prima proposizione del summenzionato articolo e del summenzionato comma, per cui, anche in assenza dell’espressa previsione di un onere di dimostrazione in giudizio (e dovendosi ritenere operante in questo caso il principio inquisitorio per quanto concerne l’accertamento degli elementi rilevanti per il giudizio), si dovrebbe ritenere che l’amministrazione abbia l’onere di chiedere che il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento/sulla formazione degli atti non sia considerato annullabile, se risulta palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello dell’atto in concreto adottato.

Effetti del giudicato amministrativo

Quanto alla consistenza del vincolo che sorge in capo all’amministrazione dalla sentenza di annullamento, a differenza di quanto accade nel giudizio civile, che si forma, di regola, con riferimento a un evento storico/episodio della vita ben identificato e in sé concluso, quello amministrativo opera su una realtà in movimento, visto che l’azione amministrativa, anche in relazione al principio della doverosità dell’esercizio dei poteri correlata alla cura degli interessi pubblici, non può arrestarsi.

Pertanto, il giudicato amministrativo ha, a seconda dei casi, un effetto vincolante pieno, semipieno o secondario (o strumentale):

-l’effetto vincolante è pieno allorché l’atto viene annullato perché mancavano i presupposti soggettivi od oggettivi previsti dalla norma di conferimento del potere (per esempio, il carattere inespropriabile dell’area oggetto invece di un decreto di esproprio), oppure perché all’emanazione di un nuovo provvedimento è comunque decorso il termine perentorio entro il quale il potere doveva essere esercitabile. In questi casi, l’amministrazione non può emanare un nuovo provvedimento sostitutivo di quello annullato.

-L’effetto vincolante è semipieno allorché, per esempio, il vizio accertato riguarda uno solo degli elementi discrezionali dell’atto, di modo che, in sede di riesercizio del potere, l’amministrazione vede limitata, ma non esclusa del tutto, la propria discrezionalità.

-L’effetto vincolante è secondario (o strumentale) allorché l’annullamento dipenda dall'accertamento di un vizio di incompetenza o di un vizio formale o procedurale, così che l’amministrazione, in sede di riesercizio del potere, è tenuta soltanto ad eliminare il vizio e non è vincolata quanto al contenuto del nuovo provvedimento, che può anche essere identico a quello del provvedimento annullato. A quest’ultimo riguardo, va rilevato come, per effetto dell’introduzione del nuovo articolo 21-octies, comma 2, legge 241/1990 ad opera della legge 15/2005, l’annullamento del provvedimento per vizi formali o procedurali può avvenire solo «qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».

Se dunque si escludono i casi di effetto vincolante pieno, il giudicato amministrativo lascia in capo all’amministrazione “spazi liberi” talvolta assai estesi.

La regola circa la futura azione amministrativa, desumibile dagli effetti ripristinatorio e conformativo, è spesso implicita, elastica, condizionata, incompleta:

-implicita, in quanto si desume a contrario dal vizio/dai vizi accertato/i dalla sentenza;

-elastica, almeno in parte, perché l’attività di ripristinazione, che comporta l’eliminazione in concreto, nei limiti del possibile, degli stati di fatto e diritto determinatisi in seguito all'emanazione del provvedimento annullato, richiede all'amministrazione valutazioni talora complesse, e in taluni casi la ripristinazione può risultare in concreto impossibile (per esempio: superamento del limite massimo di età del ricorrente che ha impugnato un diniego di assunzione);

-condizionata all'inesistenza di sopravvenienze di fatto e diritto, delle quali l’amministrazione è tenuta, entro certi limiti, a tener conto;

-incompleta perché essa riguarda esclusivamente i tratti di azione amministrativa sottoposti all'esame del giudice, i quali spesso non esauriscono l’intera vicenda.

Limiti cronologici del giudicato

In particolare, la questione delle sopravvenienze, in relazione alle quali si pone il problema dei cosiddetti limiti cronologici del giudicato, richiede una difficile composizione tra due opposti interessi: quello del ricorrente nei confronti del quale la sentenza che ha riconosciuto fondate le sue ragioni, che rischia di perdere ogni utilità; quello dell’amministrazione che, in sede di nuovo esercizio del potere, deve tener conto, al fine della miglior cura dell’interesse pubblico, del quadro fattuale e normativo esistente in quel momento.

La giurisprudenza stenta a trovare un giusto equilibrio, e ricorre talora a soluzioni ispirate a ragioni equitative ed alla necessità di evitare che le amministrazioni eludano con troppa facilità il giudicato.

Laddove lo jus superveniens è determinato da atti amministrativi emanati dall’amministrazione (come nel caso dell’entrata in vigore di un piano regolatore che introduca un vincolo d’inedificabilità dell’area dopo l’emanazione di provvedimento di diniego di concessione edilizia, impugnato dinanzi al giudice amministrativo), si è ritenuto che possano essere considerate rilevanti, ai fini del riesercizio del potere, soltanto le sopravvenienze intervenute dopo il passaggio in giudicato o la notifica della sentenza di annullamento.

Effettività della tutela giurisdizionale

Il principio costituzionale dell’effettività della tutela giurisdizionale enunciato dall’articolo 24 Costituzione e richiamato dall’articolo 1 codice processo amministrativo, richiede che la sentenza emanata nei confronti della parte soccombente nel giudizio possa essere portata a esecuzione anche in assenza della cooperazione da parte di quest’ultima.

L’ordinamento può prevedere, a questo fine, forme di tutela giurisdizionale esecutiva indiretta, consistenti in misure coercitive (sanzioni di natura civile o penale), oppure diretta, consistenti nella sostituzione dell’inattività dell’obbligato con l’attività dell’ufficio esecutivo, che appunto pone in essere ciò che la parte soccombente in giudizio avrebbe dovuto fare e non ha fatto.

Il codice di procedura civile contiene nel Libro Terzo un’articolata disciplina del processo di esecuzione, incentrata essenzialmente su tre tecniche di tutela esecutiva diretta:

-l’espropriazione forzata, in relazione ai crediti in denaro;

-l’esecuzione per consegna o rilascio, relativa al trasferimento del possesso su beni mobili e immobili;

-l’esecuzione forzata di obblighi di fare fungibili, e di non fare.

La tutela giurisdizionale esecutiva nei confronti della Pubblica Amministrazione (d’ora innanzi acronimata in PA) solleva tuttavia un problema specifico che l’ha resa storicamente (e la rende in parte ancor oggi) particolarmente delicata.

Infatti, nelle controversie tra soggetti privati, il giudice, in veste di autorità pubblica – espressione di uno dei poteri dello Stato –, attribuisce il torto e la ragione a due soggetti privati. Le controversie nelle quali una parte è la PA, involgono invece, pur sempre, due poteri dello Stato, il potere giudiziario e il potere esecutivo che, in base al principio della separazione dei poteri, godono tendenzialmente di ambiti e prerogative proprie.

Si spiega così, da un lato, perché nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale esecutiva nei confronti della PA si è affermata lentamente e con numerose incertezze; dall’altro lato, perché alcuni ordinamenti privilegiano rimedi di tipo indiretto (sanzioni di tipo pecuniario, come nel sistema francese o in quello tedesco, o di tipo penale, come nel sistema inglese), meno invasive delle prerogative proprie del potere esecutivo anche se potenzialmente meno efficaci.

Il nostro ordinamento si è mosso sin dall’inizio sulla direttrice di privilegiare una forma particolare di tutela esecutiva diretta costituita dal cosiddetto giudizio di ottemperanza, che garantisce un’esecuzione in forma specifica attraverso l’adozione, da parte del giudice (o di un suo delegato), di misure di tipo sostitutivo.