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Studiare per il concorso in magistratura (parte VI)

1. Atti dovuti

La giurisprudenza risalente ha affermato che non sono soggetti a revoca, a norma del 2901 comma 3, gli atti dovuti, ovvero gli atti compiuti in adempimento di un’obbligazione[1]. Salvo che sia provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto.

La stipulazione del negozio non è che l’esecuzione doverosa di un pactum de contrahendo validamente posto in essere (sine fraude), cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi.

Non sono in contrasto con questo indirizzo giurisprudenziale, ma lo confortano, le pronunce più recenti, di cui alle sentenze 20310 del 2004 (Seconda Sezione) e 15625 del 2006 (Terza Sezione). Con la prima di tali decisioni, si è escluso che il contratto preliminare possa costituire oggetto di un’azione revocatoria, perché esso non produce effetti traslativi, e conseguentemente non è configurabile come atto di disposizione del patrimonio assoggettabile all’azione revocatoria ordinaria[2].

Solo al momento della stipula del contratto definitivo, può essere compiutamente valutata l’esistenza dell’eventus damni[3].

Tale affermazione attiene alla natura stessa dell’azione risarcitoria, che oggettivamente è intesa a rimuovere un effetto pregiudizievole per i creditori, derivante dal compimento di un atto dispositivo del patrimonio del debitore.

Il compimento di un atto negoziale come il contratto preliminare di vendita, che ha una portata dispositiva solo potenziale e futura, non è idoneo a porre in essere le condizioni per l’esperimento dell’azione revocatoria e, anche quando sia stato eseguito[4], non costituirà l’oggetto dell’azione revocatoria.

La verifica della sussistenza del requisito dell’eventus damni dovrà essere compiuta con riferimento all’atto, e al momento della stipula definitiva che, riducendo il patrimonio immobiliare del debitore, pone in essere il concreto pericolo di un effetto lesivo per il ceto creditorio.

Un diverso discorso va compiuto per quanto riguarda il presupposto soggettivo del consilium fraudis.

L’azione revocatoria costituisce uno strumento di forte impatto sull’autonomia privata, a tutela delle ragioni creditorie. Tale ratio non arriva, però, sino a basare il presupposto di operatività dell’azione solo su una considerazione oggettiva degli effetti dell’atto. In tanto l’azione revocatoria può operare, in quanto rispetti contemporaneamente l’affidamento dei terzi nella conclusione dell’atto[5].

Si tratta di garantire l’operatività della tutela revocatoria solo in quanto essa sia in grado di rispettare la tutela dell’affidamento del terzo nella possibilità di obbligazioni con la stipulazione di un contratto cui ha interesse.

Il momento rilevante, ai fini della valutazione della sussistenza di tale requisito soggettivo, è necessariamente quello in cui si consuma la libera scelta del terzo[6]. È in questo momento che va operata la valutazione di priorità della tutela da accordare alla conservazione della garanzia patrimoniale per i creditori o alla conservazione della scelta negoziale del terzo[7].

Il terzo è, al momento in cui diventa consapevole della lesività dell’atto, titolare di un diritto acquisito in buona fede al trasferimento del bene, rispetto al quale la tutela dell’integrità del patrimonio del debitore diventa necessariamente sub-valente, perché scopo e funzione dell’azione revocatoria è quello di rendere inefficaci gli atti perpetrati in danno delle ragioni dei creditori[8].

2. Adempimento del terzo

L’adempimento spontaneo di un’obbligazione da parte di un terzo (articolo 1180), ne provoca l’estinzione anche contro la volontà del creditore, se questi non aveva interesse all’adempimento personale. Ma non attribuisce automaticamente al terzo titolo per agire direttamente nei confronti del debitore[9].

Un discorso articolato merita il quesito: se l’adempimento spontaneo del debito di altro soggetto comporti la surrogazione del solvens nei diritti del creditore, a norma del 2036 comma 3, recante la disciplina di uno dei casi di surrogazione di diritto stabilita dalla legge[10].

Esiste un indirizzo, nella giurisprudenza, secondo il quale, ove un soggetto abbia adempiuto un debito altrui, con la consapevolezza di non essere debitore, non si configura indebito soggettivo, e di conseguenza, non essendo ammessa ripetizione, si ha surrogazione a norma del 2036 comma 3. Si tratta, però, di orientamento cui non è possibile dare continuità, siccome inficiato dalla contraddizione logico-giuridica di escludere, da una parte, la sussistenza della fattispecie d’indebito soggettivo, a causa dell’assenza di un errore di pagamento; dall’altra, di dichiarare applicabile proprio una disposizione dettata in tema d’indebito soggettivo per i casi in cui non sussistono le condizioni stabilite dal 2036 comma 1, per ripetere quanto pagato[11].

Perciò, va confermato il diverso principio, secondo il quale colui che paga sapendo di non essere debitore, non ha azione in base alle norme sull’indebito soggettivo; in esse compreso il terzo comma del 2036.

La surroga ipotizzata dal 2036 – ex latere solventis – richiede necessariamente che sussista l’elemento soggettivo della consapevolezza e volontà del solvente di pagare un debito proprio anziché altrui. Se così non fosse[12], la surrogazione legale assumerebbe una portata così ampia e generale da privare di gran parte del proprio contenuto la figura della surrogazione per volontà del creditore e da rendere sostanzialmente superflua l’articolata disciplina dettata dal 1203, per la surrogazione legale.

Indubbiamente: il solvens – stante l’ingiustificato vantaggio economico ricavato dal debitore – può agire, nel concorso delle condizioni di legge, per l’ottenimento dell’indennizzo da arricchimento senza causa.

3. Assegno

Il cosiddetto assegno di traenza è quello che una banca autorizza taluno a sottoscrivere, appunto per traenza, sulla banca stessa, inviandogli, a tal fine, un modello di assegno appositamente predisposto, con previsione di pagamento in favore del traente medesimo o di altro eventuale soggetto indicato come beneficiario.

La predisposizione e l’invio dell’assegno al previsto traente presuppongono l’esistenza, presso la banca, di una provvista[13], di cui il traente potrà disporre in favore proprio o di altro eventuale beneficiario prenditore del titolo.

La peculiarità di tali titoli ed il fatto che essi possono, di fatto, assolvere ad una funzione corrispondente a quella del bonifico a mezzo banca, non toglie che essi siano riconducibili al genus dell’assegno bancario[14].

Il fatto che, a differenza dell’assegno di conto corrente, l’assegno di traenza non presupponga l’esistenza di una pregressa convenzione d’assegno[15], in forza della quale la banca è tenuta ad onorare gli assegni emessi dal correntista entro i limiti della provvista, poco rileva ai fini espositivi che qui interessano.

Anche l’emissione dell’assegno di traenza necessariamente deve avere, quale presupposto, un rapporto contrattuale, ancorché privo delle caratteristiche di durata proprie del conto corrente bancario[16].

Alla circolazione ed al pagamento di un assegno siffatto, munito di clausola di non trasferibilità, è applicabile la disciplina stabilita dal legislatore in materia d’assegno bancario non trasferibile.

L’anzidetta disciplina trova collocazione nel Regio Decreto 21 dicembre 1933, numero 1736 (legge assegni), articolo 46[17], che stabilisce che l’assegno emesso con clausola di non trasferibilità può essere soltanto al prenditore o, a richiesta di colui, accreditato sul suo conto corrente, e che il prenditore non può perciò girarlo, se non ad un banchiere per l’incasso, fermo il divieto, per quest’ultimo, di apporvi ulteriori girate[18].

Il secondo comma prosegue prevedendo espressamente che «colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso risponde del pagamento». L’espressione «colui che paga», adoperata dalla norma, va intesa in senso ampio. Non solo si riferisce alla banca trattaria [19], ma anche alla diversa banca cui l’assegno sia stato girato per l’incasso da un proprio cliente e che lo abbia in favore di costui monetizzato[20] per inviarlo alla stanza di compensazione.

Tale conclusione[21] è giustificata dal rilievo che non già la banca trattaria[22], bensì soltanto la banca negoziatrice, è tenuta ed è concretamente in condizione di controllare l’autenticità della firma di colui che, girando l’assegno per l’incasso, lo immette nel circuito di pagamento.

La responsabilità cui si espone il banchiere col pagamento dell’assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore, non è in alcun modo discriminata dall’apposizione sul titolo, ad opera di chi lo incassa, della clausola «per conoscenza e garanzia»[23].

La giurisprudenza è ferma nel ritenere che il regime d’intrasferibilità degli assegni trasforma il titolo di credito in un titolo a legittimazione invariabile, con preclusione della circolazione sia sul piano cartolare che con riguardo alla cessione ordinaria[24], e che ciò sia incompatibile con l’inserimento nella circolazione dell’assegno di un soggetto ulteriore, il quale lo sottoscriva «per garanzia e conoscenza», perché siffatta clausola verrebbe così utilizzata con funzione di girata piena in favore del sottoscrittore[25].

Ai fini della regolarità dell’incasso del titolo e della conseguente responsabilità della banca[26], la clausola di cui trattasi deve aversi per non apposta.

Si rinvengono, nella giurisprudenza, pronunce di segno diverso, talvolta riferite ad assegni bancari, altre volte ad assegni circolari, ma accompagnate dal problema – non uniformemente risolto – dell’individuazione della funzione svolta dalla banca negoziatrice in rapporto alla posizione del prenditore e alla posizione della banca debitrice cartolare.

Secondo alcune pronunce, la banca girataria per l’incasso di un assegno bancario non trasferibile, oltre ad essere mandataria del prenditore girante, è sostituita dalla banca trattaria nell’esplicazione del servizio bancario per quanto attiene all’identificazione del presentatore ed al conseguente pagamento cui la trattaria è obbligata nei confronti del cliente. Lo si desume dall’impossibilità, per la trattaria, di adempiere personalmente – per la parte relativa all’identificazione del presentatore – l’obbligazione assunta verso il cliente con la convenzione d’assegno. Obbligazione che solo la banca girataria è in grado di eseguire compiutamente, anche deve ritenersi che lo faccia in sostituzione della banca trattaria, venendo perciò anch’essa a trovarsi in un rapporto con il traente; il quale, nell’ipotesi di pagamento male effettuato, può esercitare contro la stessa banca negoziatrice l’azione contrattuale basata sulla convenzione d’assegno[27].

Nell’alternativa tra l’azione contrattuale, spettante ai soggetti con i quali intercorre il rapporto bancario, e l’azione extracontrattuale che compete ai terzi comunque danneggiati dall’irregolare pagamento del titolo, non v’è spazio per nessuna forma diversa di obbligazione ex lege.

In altri casi, si è invece ritenuto che la banca girataria per l’incasso d’assegno non trasferibile non possa qualificarsi una sostituta di quella trattaria nell’adempimento della convenzione di assegno – e quindi in rapporto contrattuale col traente – ma sia soltanto rappresentante del girante, in nome e per conto del quale riceve il pagamento, con la conseguenza che, qualora essa violi l’obbligo legale di pagare l’assegno non trasferibile soltanto ad uno dei soggetti indicati nel citato articolo 43, sorge a suo carico una responsabilità extracontrattuale verso tutti coloro che possono essere pregiudicati dal pagamento a soggetto diverso, compreso il traente, ancorché tale responsabilità possa essere destinata eventualmente a concorrere, in rapporto di solidarietà, con quella contrattuale della banca trattaria verso il medesimo traente. Per la natura extracontrattuale della responsabilità in questione, si sono pronunciate anche le Sezioni Unite, con riferimento ad un assegno circolare. Affermando che la responsabilità nella quale incorre, in simili casi, la banca girataria per l’incasso, non ha natura né contrattuale né extracontrattuale.

Alla prima configurazione si oppone la totale estraneità della banca girataria, sia alla convenzione d’assegno, sia al rapporto di emissione del titolo. Oltre che la difficoltà di ricondurre anche l’emissione dell’assegno circolare alla fattispecie del mancato conferimento del cliente alla banca.

Alla seconda è di ostacolo il fatto che la responsabilità non discende dalla violazione di una norma generale di condotta, bensì dall’inosservanza di un ben determinato precetto di legge, concepito in vista delle particolari caratteristiche professionali e funzionali del banchiere. Donde la conclusione che l’obbligo, posto a carico del banchiere dalla legge assegni, di pagare il titolo esclusivamente all’intestatario, costituisce un’obbligazione ex lege[28].

Le Sezioni Unite reputano che, alla responsabilità di cui si discute, debba essere senz’altro riconosciuta natura contrattuale, benché non sia necessario a tal fine postulare che la banca negoziatrice operi in veste di mandataria della banca sulla quale grava l’obbligazione cartolare di pagamento.

È opinione ormai quasi unanimemente condivisa dagli studiosi, quella secondo cui la responsabilità nella quale incorre «il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta»[29], può dirsi contrattuale non soltanto nel caso in cui l’obbligo di prestazione derivi propriamente da un contratto – nell’accezione datane dal 1321 –, ma anche in ogni altra ipotesi in cui essa dipenda dall’inesatto adempimento di un’obbligazione preesistente; quale che ne sia la fonte.

In tale contesto, la qualificazione «contrattuale» è stata definita da autorevole dottrina come una «sineddoche»[30], giustificata dal fatto che questo tipo di responsabilità più frequentemente ricorre in presenza di vincoli contrattuali inadempiuti, ma senza che ciò valga a circoscriverne la portata entro i limiti che il significato letterale di detta espressione potrebbe suggerire.

Pur non senza qualche incertezza[31], anche la giurisprudenza ha, in più occasioni, mostrato di aderire a siffatta concezione della responsabilità contrattuale, ritenendo che essa possa discendere anche dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni non già di contratto, bensì di semplice contatto sociale, ogni qualvolta l’ordinamento imponga di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento[32].

Ne deriva che la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sta essenzialmente nel fatto che quest’ultima consegue dalla violazione di un dovere primario di non ledere ingiustamente la sfera d’interessi altrui; essa nasce con la stessa obbligazione risarcitoria, laddove quella contrattuale presuppone l’inadempimento di uno specifico obbligo giuridico già preesistente e volontariamente assunto nei confronti di un determinato soggetto[33]. In quest’ottica deve esser letta anche la disposizione del 1173, che classifica le obbligazioni in base alla loro fonte ed espressamente distingue le obbligazioni da contratto da quelle da fatto illecito. Si potrebbe anche sostenere – com’è stato fatto – che la nozione di obbligazione contrattuale contenuta in detto articolo ha una valenza più ristretta e che le obbligazioni derivanti dalla violazione di specifiche norme o principi giuridici preesistenti ricadono nell’ulteriore categoria degli atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento[34]. Piuttosto che obbligazioni di natura contrattuale, le si dovrebbe definire obbligazioni ex lege.

La questione sembra avere un valore essenzialmente classificatorio, giacché, in linea generale, il regime cui sono soggetti tali obbligazioni ex lege non si discosta da quello delle obbligazioni contrattuali in senso stretto.

Comunque, tenuto conto del carattere assai vago della definizione adoperata per individuare siffatta categoria di obbligazioni[35], e considerate le difficoltà in cui la dottrina si è sempre trovata nell’interpretare questa espressione normativa[36], appare probabilmente preferibile circoscriverne la portata alle sole obbligazioni che con sicurezza costituiscano la base storica: quelle integranti la responsabilità da fatto lecito[37]; la quale non presuppone l’inesatto adempimento di un obbligo precedente (di fonte legale o contrattuale), e non dipende da comportamenti illeciti in danno altrui.

Da tali premesse si ricava la natura contrattuale della responsabilità della banca negoziatrice di assegni bancari (o circolari), la quale abbia pagato detti assegni in violazione delle specifiche regole poste dalla legge assegno nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate, e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno[38].

Quelle regole di circolazione e di pagamento dell’assegno munito di clausola di non trasferibilità, pur certamente svolgendo anche un’indiretta funzione di rafforzamento dell’interesse generale alla regolare circolazione dei titoli di credito, appaiono essenzialmente volte a tutelare i diritti di coloro che alla circolazione di quello specifico titolo sono interessati[39].

La previsione del citato articolo 43 comma 2, in virtù della quale colui che paga malamente l’assegno non trasferibile ne assume responsabilità, letta in combinazione con le norme dettate dal comma precedente in ordine ai soggetti in favore dei quali l’assegno deve essere pagato, sta a significare che la responsabilità del banchiere dipende dalla violazione di quelle norme.

È vero che l’ordinamento conosce anche casi di responsabilità aquiliana, contemplati da norme specifiche, che costituiscono attuazione del principio generale posto dal 2043, ma deve pur sempre trattarsi di situazioni nelle quali la responsabilità si manifesta primariamente nell’obbligazione risarcitoria.

Invece, in capo al banchiere presso cui l’assegno non trasferibile è posto all’incasso, sorge – prima d’ogni altro – un obbligo professionale[40] di far sì che il titolo sia introdotto nel circuito di pagamento bancario, in conformità alle regole che ne presiedono circolazione e incasso[41]. Il che necessariamente conduce fuori dall’ambito della responsabilità aquiliana, non permette di configurare un caso di responsabilità ex lege[42] e porta a concludere per la natura lato sensu contrattuale della responsabilità ricadente sulla banca.

4. Possesso e detenzione

Il possesso non è escluso dalla conoscenza del diritto altrui, né è subordinato all’esistenza della correlativa situazione giuridica. Esso è ricollegato, sia sotto il profilo materiale (corpus) sia sotto quello psicologico (animus), ad una situazione di fatto, che si concretizza nell’esercizio di un potere oggettivo sulla cosa, manifestantesi in un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o d’altro diritto reale, e distinguentesi dalla detenzione solo per l’atteggiamento psicologico del soggetto che lo esercita: caratterizzato, nel possesso, dall’animus rem sibi dabendi[43] e, nella detenzione, dall’animus detinendi[44].

Tale principio di carattere generale non soffre deroga, nei casi in cui il soggetto che assume d’essere possessore abbia ricevuto il godimento dell’immobile per effetto di una convenzione negoziale. Con la precisazione che, se la convenzione ha effetti obbligatori, perché diretta ad assicurare il mero godimento della cosa, senza alcun trasferimento immediato o differito del bene, colui che, avendo ricevuto la consegna per questo solo scopo, si è immesso nomine alieno nel godimento del bene, necessariamente stabilisce con la cosa un rapporto di mera detenzione, che gli consente di mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa solo attraverso un atto d’interversione del possesso[45]. Ciò spiega la ragione del principio, ripetutamente affermato, secondo il quale «per stabilire se, in conseguenza di una convenzione con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile, si abbia un possesso idoneo all’usucapione o una mera detenzione, occorre fare riferimento all’elemento psicologico del soggetto stesso, ed a tal fine stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali o un contratto ad effetti obbligatori». Dato che solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare nel predetto soggetto l’animus possidendi. E proprio la ragione del principio di diritto ora enunciato, ne fissa anche il limite, escludendone l’applicazione alle convenzioni con le quali, per quanto con effetti solo obbligatori, le parti tendono a realizzare il trasferimento della proprietà del bene, o di un diritto reale su di esso, quando ad esse si aggiunga un fatto accessorio, d’immediato effetto traslativo del possesso, sostanzialmente anticipatore degli effetti traslativi del diritto che, con la convenzione, le parti stesse si sono ripromesse di realizzare.

Nelle ipotesi predette[46], la convenzione non tende solo ad attribuire il godimento del bene[47], ma è in funzione di un comune proposito di trasferimento della proprietà o di un diritto reale, alla quale è coerente il passaggio immediato del possesso, che costituisce solo un’anticipazione dell’oggetto giuridico finale perseguito; onde il fatto di immediato trasferimento del possesso, che eventualmente acceda a queste convenzioni, con le quali è perfettamente compatibile[48].

Sono usuali[49] le ipotesi in cui il promittente venditore debba portare a termine procedimenti amministrativi di regolarizzazione dell’edificio od opere di completamento dell’edificio stesso o delle infrastrutture accessorie, o estinguere ipoteche o mutui, in difetto di che non sussiste l’interesse, e conseguentemente la volontà, di perfezionare l’acquisto da parte del promissario acquirente; o quelle in cui quest’ultimo debba, a sua volta, procurarsi, anche a più riprese, le disponibilità necessarie alla corresponsione integrale del prezzo; il conseguimento del quale condiziona parimenti interesse e volontà del promittente venditore alla realizzazione della vendita. Dottrina e giurisprudenza[50] affermano che, al preliminare di compravendita, è determinante l’identificazione del comune intento delle parti; diretto al trasferimento della proprietà della res verso la corresponsione di un certo prezzo. Conformemente alla causa negoziale del 1470, ed all’insorgenza di un particolare rapporto obbligatorio, che impegni ad ulteriore manifestazione di volontà, alla quale sono rimessi il trasferimento del diritto dominicale sulla res e l’adempimento dell’obbligazione del pagamento del prezzo.

Il giudice del merito deve esaminare la stipulazione nel suo complesso, al fine di un primo approccio alla questione, che più non si porrebbe ove l’accertamento demandato al giudice si risolvesse nel senso del contratto ad effetti reali. In tal caso, non vi sarebbe luogo a parlare di preliminare, dacché le prestazioni rese avrebbero già realizzato gli effetti del definitivo.

Se l’accertamento compiuto dal giudice dovesse approdare al preliminare, è da escludere in re ipsa che le parti intendessero realizzare qualsiasi effetto del definitivo.

Si rende necessaria, nell’indagine ulteriore e diversa in ordine alla volontà delle parti, onde identificare quali effetti, differenti da quelli propri del definitivo, ma aggiuntivi rispetto a quelli ordinari del preliminare, le parti stesse avessero inteso far derivare dalla convenzione, in attuazione della quale – ed in particolare delle pattuizioni aggiuntive – hanno, di seguito, operato alcune prestazioni corrispondenti a quelle proprie del definitivo[51].

Escluso che, con la stipulazione del preliminare[52], le parti debbano avere necessariamente inteso che si verificassero gli effetti della compravendita[53], si deve anche escludere che possa essersi trasmesso dal promittente venditore al promissario acquirente, il possesso della res.

Ciò che si è trasferito è solo l’oggetto del possesso, il quale non si compra e non si vende, non si cede e non si riceve per l’effetto di un negozio[54].

Il possesso non può essere trasferito per contratto separatamente dal diritto del quale esso costituisce l’esercizio, considerato che un’attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa.

L’intrasmissibilità è maggiormente evidente in ordine al possesso, in quanto l’attività che lo contraddistingue deve essere accompagnata dall’animus possidendi[55]: un elemento che, per la sua soggettività, può essere proprio soltanto di colui che attualmente possiede, e non di chi ha posseduto in precedenza.

In dottrina si è affermato che, essendo il possesso uno stato di fatto, l’acquisto ne è in ogni caso originario, sì che anche chi propende per la tesi contraria riconosce che di acquisto derivato possa parlarsi «soltanto per sottolineare che l’acquisto del possesso ha luogo con l’assenza o la partecipazione del precedente possessore e non con il solo contegno di colui che acquista il possesso, come accade nell’apprensione»[56].

Né, a sostegno della tesi della possibilità di una trasmissione contrattuale del possesso, può richiamarsi il 1146 comma 2, perché, per tale norma, l’accessio possessionis ha per presupposto indispensabile l’esistenza di un titolo – anche viziato – idoneo, in astratto, alla cessione del diritto di proprietà.

Inoltre, la norma non prevede la trasmissione del possesso da un soggetto all’altro, ma soltanto la possibilità, per il successore a titolo particolare[57], di unire al proprio possesso quello, distinto e diverso, del dante causa per goderne gli effetti[58].

Per altro verso, si deve considerare che il preliminare di compravendita, con il quale siano contestualmente pattuite anche la consegna anticipata della res e la corresponsione, del pari anticipata, del prezzo in una o più soluzioni, non è un contratto atipico[59].

La materiale disponibilità della res, nella quale il promissario acquirente viene immesso, in esecuzione del contratto di comodato, ha natura di detenzione qualificata, esercitata nel proprio interesse, ma alieno nomine, e non di possesso. Possesso che il promissario acquirente può opporre al promissario venditore solo nei modi previsti dal 1141; in particolare assumendo e dimostrando un’intervenuta interversio possessionis. Questa non può avere luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi (manifestarsi esteriormente). Dalla manifestazione esterna deve potersi desumere che il detentore ha cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno e ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente nomine proprio. Inoltre, manifestazione siffatta dev’essere non solo tale da palesare inequivocabilmente l’intenzione del soggetto di sostituire al precedente animus detinendi un nuovo animus rem sibi habendi, ma anche essere specificamente volta contro il possessore, in guisa che questi sia posto in condizione di rendersi conto dell’avvenuto mutamento, quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere della concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte dello stesso possessore[60].

5. Preliminare e definitivo

Secondo prevalente dottrina e giurisprudenza, ove alla stipula di un contratto preliminare segua, ad opera delle stesse parti, la stipula di un contratto definitivo, questo costituisce unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al negozio voluto.

Adempiuto l’obbligo reciproco delle parti, assunto con il contratto preliminare, di addivenire alla stipula del contratto definitivo, questo, anche se contenga una disciplina diversa da quella pattuita con il preliminare, in quanto configurante un nuovo accordo intervenuto tra le parti, si presume quale unica regolamentazione voluta dalle stesse[61].

Non può condividersi la tesi secondo cui il contratto preliminare sarebbe l’unico e vero regolamento del rapporto tra le parti, costituendo il contratto definitivo nient’altro che «puro e semplice adempimento delle obbligazioni assunte con il contratto preliminare»; ciò in quanto, così argomentando, da un lato viene a negarsi il valore di «nuovo» accordo alla manifestazione di volontà delle parti, consacrata nel definitivo – che assurgerebbe a mera ripetizione del preliminare –; il che verrebbe a porsi come limite ingiustificato all’autonomia privata; e, dall’altro, attribuirebbe natura negoziale all’adempimento, in contrasto con la concezione, ormai dominante, che veda in esso il «fatto» dell’attuazione del contenuto dell’obbligazione, e non un atto di volontà.

Se, in forza del principio, cardine nel nostro ordinamento, dell’autonomia negoziale, le parti sono libere di modificare accordi presi con il preliminare, la presunzione di conformità del nuovo accordo alla volontà delle parti può, nel silenzio del contratto definitivo, essere vinta dalla prova risultante da atto scritto, posto in essere dalle stesse parti contemporaneamente alla stipula del definitivo[62]; dal quale risulti che altri obblighi o prestazioni, già previste nel preliminare, sopravvivono al contratto definitivo[63].

In conclusione: se, prima del contratto definitivo, gli obblighi e i diritti pattuiti con il preliminare possono trovare tutela nell’esecuzione specifica dell’obbligo a contrarre o nella risoluzione per inadempimento del preliminare, o perfino nell’azione di esatto adempimento dello stesso; una volta stipulato il contratto definitivo, il titolo per far valere gli obblighi ed i diritti del preliminare, non riportati nel definitivo, non è il contratto preliminare, ma il nuovo accordo scritto, stipulato dalle parti contestualmente alla stipula del definitivo[64].

6. Preliminare e comunione

Limitare l’operatività del 184 agli atti dispositivi di cose della comunione aventi efficacia reale o anche soltanto obbligatoria, ed escludere l’applicabilità della disposizione al contratto preliminare di acquisto di bene immobile, sulla base del rilievo che da essi nascono soltanto diritti di obbligazione, per loro natura estranei alla comunione tra i coniugi, sono due possibili profili interpretativi.

Sotto un primo profilo, riguardante la questione relativa all’estensibilità agli acquisti compiuti dai coniugi delle regole concernenti l’amministrazione dei beni oggetto della comunione legale[65], la soluzione negativa è confortata da elementi di carattere letterale della disciplina, quali quelli comunemente desunti dal rilievo che il 180, riferendosi alla «amministrazione dei beni della comunione», sembra presupporre attività riguardanti beni già oggetto di comunione, non contemplando la fase dinamica pregressa dell’acquisto dei beni alla comunione stessa.

Nello stesso senso si sono tratti argomenti dal richiamo del 184 secondo comma, che – con riferimento al termine annuale per l’azione di annullamento degli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro – prescrive la sua decorrenza «in ogni caso dalla data di trascrizione».

Ancora: si è valorizzata la disposizione del 184 comma 3, la quale obbliga il coniuge, che ha compiuto atti riguardanti beni mobili diversi da quelli indicati dal primo comma, a ricostruire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto.

Una valutazione sistematica della disciplina della comunione legale, non può prescindere dal 177 comma 1 lettera a), che prevede l’estensione dell’acquisto di un coniuge all’altro coniuge rimasto estraneo all’atto[66], come effetto legale non condizionato da alcun concorso del coniuge che non ha partecipato all’atto medesimo.

Cosicché: è illogico ritenere che una regola, affermata in termini assoluti, possa poi essere vanificata da una regola contraria, costituita da un regime di amministrazione congiunta, con i possibili effetti di cui al 184, qualora si affermasse l’estensione di essa agli atti di acquisto della comunione.

Considerazioni analoghe possono trarsi dal 179, che stabilisce l’esclusione di alcuni beni dall’oggetto della comunione[67], come l’effetto di determinate caratteristiche dell’acquisto, attinenti al titolo o alla natura del bene, che si pongono come rigorosa eccezione alla fondamentale regola del 177.

Ritenendo, invece, di dover coordinare in altro senso gli articoli 177 e 179 con gli articoli 180 e 184, si finirebbe con il rimettere alla volontà del coniuge, che non ha partecipato all’acquisto, l’operatività del principio[68] dell’automatica estensione ope legis degli acquisti del coniuge in comunione con l’acquirente.

L’acquisto compiuto da uno dei coniugi può rimanere estraneo alla comunione solo se sussistano oggettivamente le condizioni poste dalle lettere c, d, f del 179 comma 1, oltre ai requisiti richiesti dall’ultimo comma dell’articolo stesso.

Ulteriore elemento significativo, a fronte della tesi della natura generalizzata della regola dell’effetto automatico dell’estensione dell’acquisto dei beni anche da parte di uno solo dei coniugi alla comunione legale, può trarsi dall’affermazione della Cassazione, per la quale rientrano nell’ambito della comunione legale i beni acquistati da un coniuge a titolo di usucapione.

Sotto tale ultimo profilo, deve ritenersi che la previsione normativa dell’effetto acquisitivo del diritto a favore della comunione, può essere conseguente anche ad una vicenda non negoziale, comportante un acquisto a titolo originario da parte di un solo coniuge, rispetto al quale un’azione d’impugnazione, promossa dal coniuge rimasto estraneo all’acquisto del bene usucapito, appare ancor più difficilmente concepibile. Per le considerazioni esposte, è opportuno distinguere una fase[69], ispirata dal fine di favorire la contitolarità di un coniuge sul bene acquistato dall’altro coniuge e conseguente direttamente dalla legge[70] e non necessariamente ad una compartecipazione, da parte di entrambi i coniugi, all’amministrazione del patrimonio comune, regolamentata dalle disposizioni di cui agli articoli dal 180 al 184[71].

Il contratto preliminare di vendita si pone quale momento originario di una sequenza obbligatoria e successiva, il cui esito necessario è il trasferimento della proprietà del bene.

Si colloca nell’ambito di un iter argomentativo, tendente a dimostrare l’idoneità di tale negozio a produrre il trasferimento della proprietà del bene, e dunque la sua uscita dalla comunione legale, con i conseguenti effetti patrimoniali sul coniuge che non ha partecipato alla stipula del preliminare.

Tale statuizione non può avere rilevanza in una fattispecie, specularmente diversa, nella quale occorre verificare gli effetti di un preliminare di acquisto di un bene immobile da parte di un coniuge in regime di comunione legale, senza la partecipazione dell’altro coniuge. In proposito, ci si è soffermati su una questione diversa, rilevando che la comunione legale tra i coniugi, di cui al 177, riguarda gli acquisti, cioè gli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà della res, o la costituzione di diritti di credito, sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali – per la loro stessa natura relativa e personale – pur se strumentali all’acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione. Di qui, la conclusione del difetto di legittimazione del coniuge, che non ha partecipato alla stipula del preliminare di vendita[72].

L’articolo 180 comma 2 equipara gli atti di straordinaria amministrazione ai contratti di concessione o di acquisto dei diritti personali di godimento, sotto il profilo della previsione del consenso congiunto dei coniugi per la loro valida stipulazione.

L’opzione della dottrina prevalente ritiene impropria l’inclusione di tali contratti tra quelli di straordinaria amministrazione. Ritenendo pure l’estraneità dell’acquisto dei diritti personali di godimento alla nozione di atti di amministrazione della comunione.

Si è comunque sostenuto che la disposizione in esame dev’essere intesa restrittivamente, subordinando la necessità del consenso congiunto dei coniugi alla verifica della natura straordinaria dell’atto, da svolgersi in riferimento alle circostanze del caso concreto e al peso che assume nell’indirizzo economico della famiglia[73].

7. Trascrizione del preliminare

La trascrivibilità del preliminare[74] è stata introdotta dall’articolo 3 del decreto legge 31 dicembre 1996, numero 669[75], che ha modificato il titolo primo del libro sesto del codice, inserendola nel capo primo del 2645 bis. Questo ammette la possibilità di procedere alla trascrizione dei contratti preliminari, ancorché sottoposti a condizioni o relativi ad edifici da costruire o in corso di costruzione, purché:

a)     abbiano ad oggetto la conclusione di taluno dei contratti di cui ai numeri 1, 2, 3 e 4 dell’articolo;

b)    risultino da atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autentica o accertata giudizialmente.

La ratio della disciplina consiste nel tutelare il promissario, che[76] abbia corrisposto in tutto o in parte il corrispettivo dovuto, contro l’eventualità che il promittente si sottragga all’adempimento dell’obbligazione assunta, ponendo in essere atti di disposizione del bene promesso[77].

Nella pratica commerciale, la stipulazione di un contratto preliminare costituisce ormai una fase imprescindibile del procedimento negoziale, che conduce al trasferimento dei diritti reali immobiliari. La quale trova giustificazione nell’esigenza delle parti di consacrare provvisoriamente l’accordo raggiunto, al fine di consentire, in vista della stipulazione del contatto definitivo, la verifica dell’esatta consistenza dell’immobile, della conformità alle norme urbanistiche e degli oneri tributari connessi al trasferimento. A tale prassi fa riscontro, talvolta, la consegna anticipata dell’immobile e, più spesso, il versamento di uno o più acconti sul prezzo pattuito[78].

Nella vigenza del testo originario del codice, l’impossibilità di procedere alla trascrizione del preliminare, dovuta all’inidoneità di tale contratto a determinare il trasferimento del diritto reale, esponeva il promissario, che avesse in tutto o

1. Atti dovuti

La giurisprudenza risalente ha affermato che non sono soggetti a revoca, a norma del 2901 comma 3, gli atti dovuti, ovvero gli atti compiuti in adempimento di un’obbligazione[1]. Salvo che sia provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto.

La stipulazione del negozio non è che l’esecuzione doverosa di un pactum de contrahendo validamente posto in essere (sine fraude), cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi.

Non sono in contrasto con questo indirizzo giurisprudenziale, ma lo confortano, le pronunce più recenti, di cui alle sentenze 20310 del 2004 (Seconda Sezione) e 15625 del 2006 (Terza Sezione). Con la prima di tali decisioni, si è escluso che il contratto preliminare possa costituire oggetto di un’azione revocatoria, perché esso non produce effetti traslativi, e conseguentemente non è configurabile come atto di disposizione del patrimonio assoggettabile all’azione revocatoria ordinaria[2].

Solo al momento della stipula del contratto definitivo, può essere compiutamente valutata l’esistenza dell’eventus damni[3].

Tale affermazione attiene alla natura stessa dell’azione risarcitoria, che oggettivamente è intesa a rimuovere un effetto pregiudizievole per i creditori, derivante dal compimento di un atto dispositivo del patrimonio del debitore.

Il compimento di un atto negoziale come il contratto preliminare di vendita, che ha una portata dispositiva solo potenziale e futura, non è idoneo a porre in essere le condizioni per l’esperimento dell’azione revocatoria e, anche quando sia stato eseguito[4], non costituirà l’oggetto dell’azione revocatoria.

La verifica della sussistenza del requisito dell’eventus damni dovrà essere compiuta con riferimento all’atto, e al momento della stipula definitiva che, riducendo il patrimonio immobiliare del debitore, pone in essere il concreto pericolo di un effetto lesivo per il ceto creditorio.

Un diverso discorso va compiuto per quanto riguarda il presupposto soggettivo del consilium fraudis.

L’azione revocatoria costituisce uno strumento di forte impatto sull’autonomia privata, a tutela delle ragioni creditorie. Tale ratio non arriva, però, sino a basare il presupposto di operatività dell’azione solo su una considerazione oggettiva degli effetti dell’atto. In tanto l’azione revocatoria può operare, in quanto rispetti contemporaneamente l’affidamento dei terzi nella conclusione dell’atto[5].

Si tratta di garantire l’operatività della tutela revocatoria solo in quanto essa sia in grado di rispettare la tutela dell’affidamento del terzo nella possibilità di obbligazioni con la stipulazione di un contratto cui ha interesse.

Il momento rilevante, ai fini della valutazione della sussistenza di tale requisito soggettivo, è necessariamente quello in cui si consuma la libera scelta del terzo[6]. È in questo momento che va operata la valutazione di priorità della tutela da accordare alla conservazione della garanzia patrimoniale per i creditori o alla conservazione della scelta negoziale del terzo[7].

Il terzo è, al momento in cui diventa consapevole della lesività dell’atto, titolare di un diritto acquisito in buona fede al trasferimento del bene, rispetto al quale la tutela dell’integrità del patrimonio del debitore diventa necessariamente sub-valente, perché scopo e funzione dell’azione revocatoria è quello di rendere inefficaci gli atti perpetrati in danno delle ragioni dei creditori[8].

2. Adempimento del terzo

L’adempimento spontaneo di un’obbligazione da parte di un terzo (articolo 1180), ne provoca l’estinzione anche contro la volontà del creditore, se questi non aveva interesse all’adempimento personale. Ma non attribuisce automaticamente al terzo titolo per agire direttamente nei confronti del debitore[9].

Un discorso articolato merita il quesito: se l’adempimento spontaneo del debito di altro soggetto comporti la surrogazione del solvens nei diritti del creditore, a norma del 2036 comma 3, recante la disciplina di uno dei casi di surrogazione di diritto stabilita dalla legge[10].

Esiste un indirizzo, nella giurisprudenza, secondo il quale, ove un soggetto abbia adempiuto un debito altrui, con la consapevolezza di non essere debitore, non si configura indebito soggettivo, e di conseguenza, non essendo ammessa ripetizione, si ha surrogazione a norma del 2036 comma 3. Si tratta, però, di orientamento cui non è possibile dare continuità, siccome inficiato dalla contraddizione logico-giuridica di escludere, da una parte, la sussistenza della fattispecie d’indebito soggettivo, a causa dell’assenza di un errore di pagamento; dall’altra, di dichiarare applicabile proprio una disposizione dettata in tema d’indebito soggettivo per i casi in cui non sussistono le condizioni stabilite dal 2036 comma 1, per ripetere quanto pagato[11].

Perciò, va confermato il diverso principio, secondo il quale colui che paga sapendo di non essere debitore, non ha azione in base alle norme sull’indebito soggettivo; in esse compreso il terzo comma del 2036.

La surroga ipotizzata dal 2036 – ex latere solventis – richiede necessariamente che sussista l’elemento soggettivo della consapevolezza e volontà del solvente di pagare un debito proprio anziché altrui. Se così non fosse[12], la surrogazione legale assumerebbe una portata così ampia e generale da privare di gran parte del proprio contenuto la figura della surrogazione per volontà del creditore e da rendere sostanzialmente superflua l’articolata disciplina dettata dal 1203, per la surrogazione legale.

Indubbiamente: il solvens – stante l’ingiustificato vantaggio economico ricavato dal debitore – può agire, nel concorso delle condizioni di legge, per l’ottenimento dell’indennizzo da arricchimento senza causa.

3. Assegno

Il cosiddetto assegno di traenza è quello che una banca autorizza taluno a sottoscrivere, appunto per traenza, sulla banca stessa, inviandogli, a tal fine, un modello di assegno appositamente predisposto, con previsione di pagamento in favore del traente medesimo o di altro eventuale soggetto indicato come beneficiario.

La predisposizione e l’invio dell’assegno al previsto traente presuppongono l’esistenza, presso la banca, di una provvista[13], di cui il traente potrà disporre in favore proprio o di altro eventuale beneficiario prenditore del titolo.

La peculiarità di tali titoli ed il fatto che essi possono, di fatto, assolvere ad una funzione corrispondente a quella del bonifico a mezzo banca, non toglie che essi siano riconducibili al genus dell’assegno bancario[14].

Il fatto che, a differenza dell’assegno di conto corrente, l’assegno di traenza non presupponga l’esistenza di una pregressa convenzione d’assegno[15], in forza della quale la banca è tenuta ad onorare gli assegni emessi dal correntista entro i limiti della provvista, poco rileva ai fini espositivi che qui interessano.

Anche l’emissione dell’assegno di traenza necessariamente deve avere, quale presupposto, un rapporto contrattuale, ancorché privo delle caratteristiche di durata proprie del conto corrente bancario[16].

Alla circolazione ed al pagamento di un assegno siffatto, munito di clausola di non trasferibilità, è applicabile la disciplina stabilita dal legislatore in materia d’assegno bancario non trasferibile.

L’anzidetta disciplina trova collocazione nel Regio Decreto 21 dicembre 1933, numero 1736 (legge assegni), articolo 46[17], che stabilisce che l’assegno emesso con clausola di non trasferibilità può essere soltanto al prenditore o, a richiesta di colui, accreditato sul suo conto corrente, e che il prenditore non può perciò girarlo, se non ad un banchiere per l’incasso, fermo il divieto, per quest’ultimo, di apporvi ulteriori girate[18].

Il secondo comma prosegue prevedendo espressamente che «colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso risponde del pagamento». L’espressione «colui che paga», adoperata dalla norma, va intesa in senso ampio. Non solo si riferisce alla banca trattaria [19], ma anche alla diversa banca cui l’assegno sia stato girato per l’incasso da un proprio cliente e che lo abbia in favore di costui monetizzato[20] per inviarlo alla stanza di compensazione.

Tale conclusione[21] è giustificata dal rilievo che non già la banca trattaria[22], bensì soltanto la banca negoziatrice, è tenuta ed è concretamente in condizione di controllare l’autenticità della firma di colui che, girando l’assegno per l’incasso, lo immette nel circuito di pagamento.

La responsabilità cui si espone il banchiere col pagamento dell’assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore, non è in alcun modo discriminata dall’apposizione sul titolo, ad opera di chi lo incassa, della clausola «per conoscenza e garanzia»[23].

La giurisprudenza è ferma nel ritenere che il regime d’intrasferibilità degli assegni trasforma il titolo di credito in un titolo a legittimazione invariabile, con preclusione della circolazione sia sul piano cartolare che con riguardo alla cessione ordinaria[24], e che ciò sia incompatibile con l’inserimento nella circolazione dell’assegno di un soggetto ulteriore, il quale lo sottoscriva «per garanzia e conoscenza», perché siffatta clausola verrebbe così utilizzata con funzione di girata piena in favore del sottoscrittore[25].

Ai fini della regolarità dell’incasso del titolo e della conseguente responsabilità della banca[26], la clausola di cui trattasi deve aversi per non apposta.

Si rinvengono, nella giurisprudenza, pronunce di segno diverso, talvolta riferite ad assegni bancari, altre volte ad assegni circolari, ma accompagnate dal problema – non uniformemente risolto – dell’individuazione della funzione svolta dalla banca negoziatrice in rapporto alla posizione del prenditore e alla posizione della banca debitrice cartolare.

Secondo alcune pronunce, la banca girataria per l’incasso di un assegno bancario non trasferibile, oltre ad essere mandataria del prenditore girante, è sostituita dalla banca trattaria nell’esplicazione del servizio bancario per quanto attiene all’identificazione del presentatore ed al conseguente pagamento cui la trattaria è obbligata nei confronti del cliente. Lo si desume dall’impossibilità, per la trattaria, di adempiere personalmente – per la parte relativa all’identificazione del presentatore – l’obbligazione assunta verso il cliente con la convenzione d’assegno. Obbligazione che solo la banca girataria è in grado di eseguire compiutamente, anche deve ritenersi che lo faccia in sostituzione della banca trattaria, venendo perciò anch’essa a trovarsi in un rapporto con il traente; il quale, nell’ipotesi di pagamento male effettuato, può esercitare contro la stessa banca negoziatrice l’azione contrattuale basata sulla convenzione d’assegno[27].

Nell’alternativa tra l’azione contrattuale, spettante ai soggetti con i quali intercorre il rapporto bancario, e l’azione extracontrattuale che compete ai terzi comunque danneggiati dall’irregolare pagamento del titolo, non v’è spazio per nessuna forma diversa di obbligazione ex lege.

In altri casi, si è invece ritenuto che la banca girataria per l’incasso d’assegno non trasferibile non possa qualificarsi una sostituta di quella trattaria nell’adempimento della convenzione di assegno – e quindi in rapporto contrattuale col traente – ma sia soltanto rappresentante del girante, in nome e per conto del quale riceve il pagamento, con la conseguenza che, qualora essa violi l’obbligo legale di pagare l’assegno non trasferibile soltanto ad uno dei soggetti indicati nel citato articolo 43, sorge a suo carico una responsabilità extracontrattuale verso tutti coloro che possono essere pregiudicati dal pagamento a soggetto diverso, compreso il traente, ancorché tale responsabilità possa essere destinata eventualmente a concorrere, in rapporto di solidarietà, con quella contrattuale della banca trattaria verso il medesimo traente. Per la natura extracontrattuale della responsabilità in questione, si sono pronunciate anche le Sezioni Unite, con riferimento ad un assegno circolare. Affermando che la responsabilità nella quale incorre, in simili casi, la banca girataria per l’incasso, non ha natura né contrattuale né extracontrattuale.

Alla prima configurazione si oppone la totale estraneità della banca girataria, sia alla convenzione d’assegno, sia al rapporto di emissione del titolo. Oltre che la difficoltà di ricondurre anche l’emissione dell’assegno circolare alla fattispecie del mancato conferimento del cliente alla banca.

Alla seconda è di ostacolo il fatto che la responsabilità non discende dalla violazione di una norma generale di condotta, bensì dall’inosservanza di un ben determinato precetto di legge, concepito in vista delle particolari caratteristiche professionali e funzionali del banchiere. Donde la conclusione che l’obbligo, posto a carico del banchiere dalla legge assegni, di pagare il titolo esclusivamente all’intestatario, costituisce un’obbligazione ex lege[28].

Le Sezioni Unite reputano che, alla responsabilità di cui si discute, debba essere senz’altro riconosciuta natura contrattuale, benché non sia necessario a tal fine postulare che la banca negoziatrice operi in veste di mandataria della banca sulla quale grava l’obbligazione cartolare di pagamento.

È opinione ormai quasi unanimemente condivisa dagli studiosi, quella secondo cui la responsabilità nella quale incorre «il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta»[29], può dirsi contrattuale non soltanto nel caso in cui l’obbligo di prestazione derivi propriamente da un contratto – nell’accezione datane dal 1321 –, ma anche in ogni altra ipotesi in cui essa dipenda dall’inesatto adempimento di un’obbligazione preesistente; quale che ne sia la fonte.

In tale contesto, la qualificazione «contrattuale» è stata definita da autorevole dottrina come una «sineddoche»[30], giustificata dal fatto che questo tipo di responsabilità più frequentemente ricorre in presenza di vincoli contrattuali inadempiuti, ma senza che ciò valga a circoscriverne la portata entro i limiti che il significato letterale di detta espressione potrebbe suggerire.

Pur non senza qualche incertezza[31], anche la giurisprudenza ha, in più occasioni, mostrato di aderire a siffatta concezione della responsabilità contrattuale, ritenendo che essa possa discendere anche dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni non già di contratto, bensì di semplice contatto sociale, ogni qualvolta l’ordinamento imponga di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento[32].

Ne deriva che la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sta essenzialmente nel fatto che quest’ultima consegue dalla violazione di un dovere primario di non ledere ingiustamente la sfera d’interessi altrui; essa nasce con la stessa obbligazione risarcitoria, laddove quella contrattuale presuppone l’inadempimento di uno specifico obbligo giuridico già preesistente e volontariamente assunto nei confronti di un determinato soggetto[33]. In quest’ottica deve esser letta anche la disposizione del 1173, che classifica le obbligazioni in base alla loro fonte ed espressamente distingue le obbligazioni da contratto da quelle da fatto illecito. Si potrebbe anche sostenere – com’è stato fatto – che la nozione di obbligazione contrattuale contenuta in detto articolo ha una valenza più ristretta e che le obbligazioni derivanti dalla violazione di specifiche norme o principi giuridici preesistenti ricadono nell’ulteriore categoria degli atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento[34]. Piuttosto che obbligazioni di natura contrattuale, le si dovrebbe definire obbligazioni ex lege.

La questione sembra avere un valore essenzialmente classificatorio, giacché, in linea generale, il regime cui sono soggetti tali obbligazioni ex lege non si discosta da quello delle obbligazioni contrattuali in senso stretto.

Comunque, tenuto conto del carattere assai vago della definizione adoperata per individuare siffatta categoria di obbligazioni[35], e considerate le difficoltà in cui la dottrina si è sempre trovata nell’interpretare questa espressione normativa[36], appare probabilmente preferibile circoscriverne la portata alle sole obbligazioni che con sicurezza costituiscano la base storica: quelle integranti la responsabilità da fatto lecito[37]; la quale non presuppone l’inesatto adempimento di un obbligo precedente (di fonte legale o contrattuale), e non dipende da comportamenti illeciti in danno altrui.

Da tali premesse si ricava la natura contrattuale della responsabilità della banca negoziatrice di assegni bancari (o circolari), la quale abbia pagato detti assegni in violazione delle specifiche regole poste dalla legge assegno nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate, e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno[38].

Quelle regole di circolazione e di pagamento dell’assegno munito di clausola di non trasferibilità, pur certamente svolgendo anche un’indiretta funzione di rafforzamento dell’interesse generale alla regolare circolazione dei titoli di credito, appaiono essenzialmente volte a tutelare i diritti di coloro che alla circolazione di quello specifico titolo sono interessati[39].

La previsione del citato articolo 43 comma 2, in virtù della quale colui che paga malamente l’assegno non trasferibile ne assume responsabilità, letta in combinazione con le norme dettate dal comma precedente in ordine ai soggetti in favore dei quali l’assegno deve essere pagato, sta a significare che la responsabilità del banchiere dipende dalla violazione di quelle norme.

È vero che l’ordinamento conosce anche casi di responsabilità aquiliana, contemplati da norme specifiche, che costituiscono attuazione del principio generale posto dal 2043, ma deve pur sempre trattarsi di situazioni nelle quali la responsabilità si manifesta primariamente nell’obbligazione risarcitoria.

Invece, in capo al banchiere presso cui l’assegno non trasferibile è posto all’incasso, sorge – prima d’ogni altro – un obbligo professionale[40] di far sì che il titolo sia introdotto nel circuito di pagamento bancario, in conformità alle regole che ne presiedono circolazione e incasso[41]. Il che necessariamente conduce fuori dall’ambito della responsabilità aquiliana, non permette di configurare un caso di responsabilità ex lege[42] e porta a concludere per la natura lato sensu contrattuale della responsabilità ricadente sulla banca.

4. Possesso e detenzione

Il possesso non è escluso dalla conoscenza del diritto altrui, né è subordinato all’esistenza della correlativa situazione giuridica. Esso è ricollegato, sia sotto il profilo materiale (corpus) sia sotto quello psicologico (animus), ad una situazione di fatto, che si concretizza nell’esercizio di un potere oggettivo sulla cosa, manifestantesi in un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o d’altro diritto reale, e distinguentesi dalla detenzione solo per l’atteggiamento psicologico del soggetto che lo esercita: caratterizzato, nel possesso, dall’animus rem sibi dabendi[43] e, nella detenzione, dall’animus detinendi[44].

Tale principio di carattere generale non soffre deroga, nei casi in cui il soggetto che assume d’essere possessore abbia ricevuto il godimento dell’immobile per effetto di una convenzione negoziale. Con la precisazione che, se la convenzione ha effetti obbligatori, perché diretta ad assicurare il mero godimento della cosa, senza alcun trasferimento immediato o differito del bene, colui che, avendo ricevuto la consegna per questo solo scopo, si è immesso nomine alieno nel godimento del bene, necessariamente stabilisce con la cosa un rapporto di mera detenzione, che gli consente di mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa solo attraverso un atto d’interversione del possesso[45]. Ciò spiega la ragione del principio, ripetutamente affermato, secondo il quale «per stabilire se, in conseguenza di una convenzione con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile, si abbia un possesso idoneo all’usucapione o una mera detenzione, occorre fare riferimento all’elemento psicologico del soggetto stesso, ed a tal fine stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali o un contratto ad effetti obbligatori». Dato che solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare nel predetto soggetto l’animus possidendi. E proprio la ragione del principio di diritto ora enunciato, ne fissa anche il limite, escludendone l’applicazione alle convenzioni con le quali, per quanto con effetti solo obbligatori, le parti tendono a realizzare il trasferimento della proprietà del bene, o di un diritto reale su di esso, quando ad esse si aggiunga un fatto accessorio, d’immediato effetto traslativo del possesso, sostanzialmente anticipatore degli effetti traslativi del diritto che, con la convenzione, le parti stesse si sono ripromesse di realizzare.

Nelle ipotesi predette[46], la convenzione non tende solo ad attribuire il godimento del bene[47], ma è in funzione di un comune proposito di trasferimento della proprietà o di un diritto reale, alla quale è coerente il passaggio immediato del possesso, che costituisce solo un’anticipazione dell’oggetto giuridico finale perseguito; onde il fatto di immediato trasferimento del possesso, che eventualmente acceda a queste convenzioni, con le quali è perfettamente compatibile[48].

Sono usuali[49] le ipotesi in cui il promittente venditore debba portare a termine procedimenti amministrativi di regolarizzazione dell’edificio od opere di completamento dell’edificio stesso o delle infrastrutture accessorie, o estinguere ipoteche o mutui, in difetto di che non sussiste l’interesse, e conseguentemente la volontà, di perfezionare l’acquisto da parte del promissario acquirente; o quelle in cui quest’ultimo debba, a sua volta, procurarsi, anche a più riprese, le disponibilità necessarie alla corresponsione integrale del prezzo; il conseguimento del quale condiziona parimenti interesse e volontà del promittente venditore alla realizzazione della vendita. Dottrina e giurisprudenza[50] affermano che, al preliminare di compravendita, è determinante l’identificazione del comune intento delle parti; diretto al trasferimento della proprietà della res verso la corresponsione di un certo prezzo. Conformemente alla causa negoziale del 1470, ed all’insorgenza di un particolare rapporto obbligatorio, che impegni ad ulteriore manifestazione di volontà, alla quale sono rimessi il trasferimento del diritto dominicale sulla res e l’adempimento dell’obbligazione del pagamento del prezzo.

Il giudice del merito deve esaminare la stipulazione nel suo complesso, al fine di un primo approccio alla questione, che più non si porrebbe ove l’accertamento demandato al giudice si risolvesse nel senso del contratto ad effetti reali. In tal caso, non vi sarebbe luogo a parlare di preliminare, dacché le prestazioni rese avrebbero già realizzato gli effetti del definitivo.

Se l’accertamento compiuto dal giudice dovesse approdare al preliminare, è da escludere in re ipsa che le parti intendessero realizzare qualsiasi effetto del definitivo.

Si rende necessaria, nell’indagine ulteriore e diversa in ordine alla volontà delle parti, onde identificare quali effetti, differenti da quelli propri del definitivo, ma aggiuntivi rispetto a quelli ordinari del preliminare, le parti stesse avessero inteso far derivare dalla convenzione, in attuazione della quale – ed in particolare delle pattuizioni aggiuntive – hanno, di seguito, operato alcune prestazioni corrispondenti a quelle proprie del definitivo[51].

Escluso che, con la stipulazione del preliminare[52], le parti debbano avere necessariamente inteso che si verificassero gli effetti della compravendita[53], si deve anche escludere che possa essersi trasmesso dal promittente venditore al promissario acquirente, il possesso della res.

Ciò che si è trasferito è solo l’oggetto del possesso, il quale non si compra e non si vende, non si cede e non si riceve per l’effetto di un negozio[54].

Il possesso non può essere trasferito per contratto separatamente dal diritto del quale esso costituisce l’esercizio, considerato che un’attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa.

L’intrasmissibilità è maggiormente evidente in ordine al possesso, in quanto l’attività che lo contraddistingue deve essere accompagnata dall’animus possidendi[55]: un elemento che, per la sua soggettività, può essere proprio soltanto di colui che attualmente possiede, e non di chi ha posseduto in precedenza.

In dottrina si è affermato che, essendo il possesso uno stato di fatto, l’acquisto ne è in ogni caso originario, sì che anche chi propende per la tesi contraria riconosce che di acquisto derivato possa parlarsi «soltanto per sottolineare che l’acquisto del possesso ha luogo con l’assenza o la partecipazione del precedente possessore e non con il solo contegno di colui che acquista il possesso, come accade nell’apprensione»[56].

Né, a sostegno della tesi della possibilità di una trasmissione contrattuale del possesso, può richiamarsi il 1146 comma 2, perché, per tale norma, l’accessio possessionis ha per presupposto indispensabile l’esistenza di un titolo – anche viziato – idoneo, in astratto, alla cessione del diritto di proprietà.

Inoltre, la norma non prevede la trasmissione del possesso da un soggetto all’altro, ma soltanto la possibilità, per il successore a titolo particolare[57], di unire al proprio possesso quello, distinto e diverso, del dante causa per goderne gli effetti[58].

Per altro verso, si deve considerare che il preliminare di compravendita, con il quale siano contestualmente pattuite anche la consegna anticipata della res e la corresponsione, del pari anticipata, del prezzo in una o più soluzioni, non è un contratto atipico[59].

La materiale disponibilità della res, nella quale il promissario acquirente viene immesso, in esecuzione del contratto di comodato, ha natura di detenzione qualificata, esercitata nel proprio interesse, ma alieno nomine, e non di possesso. Possesso che il promissario acquirente può opporre al promissario venditore solo nei modi previsti dal 1141; in particolare assumendo e dimostrando un’intervenuta interversio possessionis. Questa non può avere luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi (manifestarsi esteriormente). Dalla manifestazione esterna deve potersi desumere che il detentore ha cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno e ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente nomine proprio. Inoltre, manifestazione siffatta dev’essere non solo tale da palesare inequivocabilmente l’intenzione del soggetto di sostituire al precedente animus detinendi un nuovo animus rem sibi habendi, ma anche essere specificamente volta contro il possessore, in guisa che questi sia posto in condizione di rendersi conto dell’avvenuto mutamento, quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere della concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte dello stesso possessore[60].

5. Preliminare e definitivo

Secondo prevalente dottrina e giurisprudenza, ove alla stipula di un contratto preliminare segua, ad opera delle stesse parti, la stipula di un contratto definitivo, questo costituisce unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al negozio voluto.

Adempiuto l’obbligo reciproco delle parti, assunto con il contratto preliminare, di addivenire alla stipula del contratto definitivo, questo, anche se contenga una disciplina diversa da quella pattuita con il preliminare, in quanto configurante un nuovo accordo intervenuto tra le parti, si presume quale unica regolamentazione voluta dalle stesse[61].

Non può condividersi la tesi secondo cui il contratto preliminare sarebbe l’unico e vero regolamento del rapporto tra le parti, costituendo il contratto definitivo nient’altro che «puro e semplice adempimento delle obbligazioni assunte con il contratto preliminare»; ciò in quanto, così argomentando, da un lato viene a negarsi il valore di «nuovo» accordo alla manifestazione di volontà delle parti, consacrata nel definitivo – che assurgerebbe a mera ripetizione del preliminare –; il che verrebbe a porsi come limite ingiustificato all’autonomia privata; e, dall’altro, attribuirebbe natura negoziale all’adempimento, in contrasto con la concezione, ormai dominante, che veda in esso il «fatto» dell’attuazione del contenuto dell’obbligazione, e non un atto di volontà.

Se, in forza del principio, cardine nel nostro ordinamento, dell’autonomia negoziale, le parti sono libere di modificare accordi presi con il preliminare, la presunzione di conformità del nuovo accordo alla volontà delle parti può, nel silenzio del contratto definitivo, essere vinta dalla prova risultante da atto scritto, posto in essere dalle stesse parti contemporaneamente alla stipula del definitivo[62]; dal quale risulti che altri obblighi o prestazioni, già previste nel preliminare, sopravvivono al contratto definitivo[63].

In conclusione: se, prima del contratto definitivo, gli obblighi e i diritti pattuiti con il preliminare possono trovare tutela nell’esecuzione specifica dell’obbligo a contrarre o nella risoluzione per inadempimento del preliminare, o perfino nell’azione di esatto adempimento dello stesso; una volta stipulato il contratto definitivo, il titolo per far valere gli obblighi ed i diritti del preliminare, non riportati nel definitivo, non è il contratto preliminare, ma il nuovo accordo scritto, stipulato dalle parti contestualmente alla stipula del definitivo[64].

6. Preliminare e comunione

Limitare l’operatività del 184 agli atti dispositivi di cose della comunione aventi efficacia reale o anche soltanto obbligatoria, ed escludere l’applicabilità della disposizione al contratto preliminare di acquisto di bene immobile, sulla base del rilievo che da essi nascono soltanto diritti di obbligazione, per loro natura estranei alla comunione tra i coniugi, sono due possibili profili interpretativi.

Sotto un primo profilo, riguardante la questione relativa all’estensibilità agli acquisti compiuti dai coniugi delle regole concernenti l’amministrazione dei beni oggetto della comunione legale[65], la soluzione negativa è confortata da elementi di carattere letterale della disciplina, quali quelli comunemente desunti dal rilievo che il 180, riferendosi alla «amministrazione dei beni della comunione», sembra presupporre attività riguardanti beni già oggetto di comunione, non contemplando la fase dinamica pregressa dell’acquisto dei beni alla comunione stessa.

Nello stesso senso si sono tratti argomenti dal richiamo del 184 secondo comma, che – con riferimento al termine annuale per l’azione di annullamento degli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro – prescrive la sua decorrenza «in ogni caso dalla data di trascrizione».

Ancora: si è valorizzata la disposizione del 184 comma 3, la quale obbliga il coniuge, che ha compiuto atti riguardanti beni mobili diversi da quelli indicati dal primo comma, a ricostruire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto.

Una valutazione sistematica della disciplina della comunione legale, non può prescindere dal 177 comma 1 lettera a), che prevede l’estensione dell’acquisto di un coniuge all’altro coniuge rimasto estraneo all’atto[66], come effetto legale non condizionato da alcun concorso del coniuge che non ha partecipato all’atto medesimo.

Cosicché: è illogico ritenere che una regola, affermata in termini assoluti, possa poi essere vanificata da una regola contraria, costituita da un regime di amministrazione congiunta, con i possibili effetti di cui al 184, qualora si affermasse l’estensione di essa agli atti di acquisto della comunione.

Considerazioni analoghe possono trarsi dal 179, che stabilisce l’esclusione di alcuni beni dall’oggetto della comunione[67], come l’effetto di determinate caratteristiche dell’acquisto, attinenti al titolo o alla natura del bene, che si pongono come rigorosa eccezione alla fondamentale regola del 177.

Ritenendo, invece, di dover coordinare in altro senso gli articoli 177 e 179 con gli articoli 180 e 184, si finirebbe con il rimettere alla volontà del coniuge, che non ha partecipato all’acquisto, l’operatività del principio[68] dell’automatica estensione ope legis degli acquisti del coniuge in comunione con l’acquirente.

L’acquisto compiuto da uno dei coniugi può rimanere estraneo alla comunione solo se sussistano oggettivamente le condizioni poste dalle lettere c, d, f del 179 comma 1, oltre ai requisiti richiesti dall’ultimo comma dell’articolo stesso.

Ulteriore elemento significativo, a fronte della tesi della natura generalizzata della regola dell’effetto automatico dell’estensione dell’acquisto dei beni anche da parte di uno solo dei coniugi alla comunione legale, può trarsi dall’affermazione della Cassazione, per la quale rientrano nell’ambito della comunione legale i beni acquistati da un coniuge a titolo di usucapione.

Sotto tale ultimo profilo, deve ritenersi che la previsione normativa dell’effetto acquisitivo del diritto a favore della comunione, può essere conseguente anche ad una vicenda non negoziale, comportante un acquisto a titolo originario da parte di un solo coniuge, rispetto al quale un’azione d’impugnazione, promossa dal coniuge rimasto estraneo all’acquisto del bene usucapito, appare ancor più difficilmente concepibile. Per le considerazioni esposte, è opportuno distinguere una fase[69], ispirata dal fine di favorire la contitolarità di un coniuge sul bene acquistato dall’altro coniuge e conseguente direttamente dalla legge[70] e non necessariamente ad una compartecipazione, da parte di entrambi i coniugi, all’amministrazione del patrimonio comune, regolamentata dalle disposizioni di cui agli articoli dal 180 al 184[71].

Il contratto preliminare di vendita si pone quale momento originario di una sequenza obbligatoria e successiva, il cui esito necessario è il trasferimento della proprietà del bene.

Si colloca nell’ambito di un iter argomentativo, tendente a dimostrare l’idoneità di tale negozio a produrre il trasferimento della proprietà del bene, e dunque la sua uscita dalla comunione legale, con i conseguenti effetti patrimoniali sul coniuge che non ha partecipato alla stipula del preliminare.

Tale statuizione non può avere rilevanza in una fattispecie, specularmente diversa, nella quale occorre verificare gli effetti di un preliminare di acquisto di un bene immobile da parte di un coniuge in regime di comunione legale, senza la partecipazione dell’altro coniuge. In proposito, ci si è soffermati su una questione diversa, rilevando che la comunione legale tra i coniugi, di cui al 177, riguarda gli acquisti, cioè gli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà della res, o la costituzione di diritti di credito, sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali – per la loro stessa natura relativa e personale – pur se strumentali all’acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione. Di qui, la conclusione del difetto di legittimazione del coniuge, che non ha partecipato alla stipula del preliminare di vendita[72].

L’articolo 180 comma 2 equipara gli atti di straordinaria amministrazione ai contratti di concessione o di acquisto dei diritti personali di godimento, sotto il profilo della previsione del consenso congiunto dei coniugi per la loro valida stipulazione.

L’opzione della dottrina prevalente ritiene impropria l’inclusione di tali contratti tra quelli di straordinaria amministrazione. Ritenendo pure l’estraneità dell’acquisto dei diritti personali di godimento alla nozione di atti di amministrazione della comunione.

Si è comunque sostenuto che la disposizione in esame dev’essere intesa restrittivamente, subordinando la necessità del consenso congiunto dei coniugi alla verifica della natura straordinaria dell’atto, da svolgersi in riferimento alle circostanze del caso concreto e al peso che assume nell’indirizzo economico della famiglia[73].

7. Trascrizione del preliminare

La trascrivibilità del preliminare[74] è stata introdotta dall’articolo 3 del decreto legge 31 dicembre 1996, numero 669[75], che ha modificato il titolo primo del libro sesto del codice, inserendola nel capo primo del 2645 bis. Questo ammette la possibilità di procedere alla trascrizione dei contratti preliminari, ancorché sottoposti a condizioni o relativi ad edifici da costruire o in corso di costruzione, purché:

a)     abbiano ad oggetto la conclusione di taluno dei contratti di cui ai numeri 1, 2, 3 e 4 dell’articolo;

b)    risultino da atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autentica o accertata giudizialmente.

La ratio della disciplina consiste nel tutelare il promissario, che[76] abbia corrisposto in tutto o in parte il corrispettivo dovuto, contro l’eventualità che il promittente si sottragga all’adempimento dell’obbligazione assunta, ponendo in essere atti di disposizione del bene promesso[77].

Nella pratica commerciale, la stipulazione di un contratto preliminare costituisce ormai una fase imprescindibile del procedimento negoziale, che conduce al trasferimento dei diritti reali immobiliari. La quale trova giustificazione nell’esigenza delle parti di consacrare provvisoriamente l’accordo raggiunto, al fine di consentire, in vista della stipulazione del contatto definitivo, la verifica dell’esatta consistenza dell’immobile, della conformità alle norme urbanistiche e degli oneri tributari connessi al trasferimento. A tale prassi fa riscontro, talvolta, la consegna anticipata dell’immobile e, più spesso, il versamento di uno o più acconti sul prezzo pattuito[78].

Nella vigenza del testo originario del codice, l’impossibilità di procedere alla trascrizione del preliminare, dovuta all’inidoneità di tale contratto a determinare il trasferimento del diritto reale, esponeva il promissario, che avesse in tutto o