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Controversie in materia di liquidazione del compenso forense: disciplina e ambito di applicazione del rito speciale

liquidazione del compenso
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ABSTRACT

Il rito speciale prescritto dall’articolo 14 del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150, in materia di liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti di avvocato, trova applicazione anche in ipotesi che la domanda riguardi l’an della pretesa, senza possibilità per il giudice adito di trasformare il rito sommario in rito ordinario o di dichiarare l’inammissibilità della domanda.

Secondo l’articolo 28, ed i successivi articoli 29 e 30, della previgente Legge 13 giugno 1942 n. 794, l’avvocato che voleva recuperare giudizialmente un credito professionale per prestazioni giudiziali poteva optare per tre strade:

1) il procedimento speciale di cui agli articoli 28 e ss. Legge n. 794/1942 (limitatamente ai crediti relativi a procedimenti civili);

2) il procedimento monitorio per decreto ingiuntivo;

3) il giudizio ordinario di cognizione.

Secondo la tesi prevalente in dottrina e giurisprudenza, il giudizio ordinario di cognizione era ammissibile, visto che il presupposto dell’esperibilità del procedimento speciale era la natura non contestata del credito e l’esigenza soltanto di una sua determinazione quantitativa (ossia di una sua “liquidazione”).

L’articolo 34 del Decreto Legislativo 1° settembre 2011, n. 150, ha abrogato gli articoli 29 e 30 della Legge n. 794/1942 e ha così modificato l’articolo 28: “Per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente l’avvocato, dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura se non intende seguire la procedura di cui all’art. 633 e seguenti del codice di procedura civile, procede ai sensi dell’articolo 14 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150.”.

A seguito dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 150/2011 si è posto il problema se la nuova disciplina debba ritenersi o meno inderogabile. Ai fini di interpretare la nuova normativa è utile ripercorrere gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità formatisi in relazione alla previgente Legge 13 giugno 1942 n. 794 in materia di “Onorari di avvocato e di procuratore per prestazioni giudiziali in materia civile”.

Ora, secondo la tesi prevalente, il giudizio ordinario di cognizione era ammissibile visto che il presupposto dell’esperibilità del procedimento speciale era la natura non contestata del credito e l’esigenza soltanto di una sua determinazione quantitativa.

Infatti, secondo l’orientamento della Suprema Corte (da ultimo, v. Cassazione civile, sezione II, 23 gennaio 2012, n. 876), lo speciale procedimento camerale di liquidazione di onorari e diritti dell’avvocato previsto dagli articoli 28 e seguenti della Legge 13 giugno 1942 n. 794 era limitato alla determinazione del quantum dovuto al professionista e non si estendeva anche all’an della pretesa, ossia ai suoi ai presupposti.

Nella ipotesi in cui l’indagine si estendeva all’an della prestazione secondo la Cassazione (cfr. Cassazione civile, sezione III, 14 ottobre 2010 n. 21261), “trattandosi di indagine incompatibile con la trattazione nelle forme del rito speciale, vengono meno le ragioni che giustificano la deroga al principio generale del doppio grado di giudizio ed il procedimento deve svolgersi secondo il rito ordinario”.

Non vi era univocità sulla natura del provvedimento che doveva essere pronunciato dal Giudice erroneamente adito. Infatti una parte della giurisprudenza di legittimità, in ipotesi di non applicabilità della speciale procedura di liquidazione dei compensi per le prestazioni giudiziali degli avvocati in materia civile, regolata dagli articoli 28 e seguenti Legge 13 giugno 1942 n. 794, riteneva che era necessaria la trasformazione del rito, ossia la prosecuzione del procedimento con l’ordinario rito di cognizione (v. Cassazione civile, sezione II, 24 febbraio 2004 n. 3637).

Se la mancanza del presupposto emergeva in occasione della comparizione delle parti in camera di consiglio, il giudice adito doveva limitarsi a dichiarare l’inammissibilità del ricorso e, nell’ipotesi di regolare instaurazione del contraddittorio, doveva ordinare che il procedimento proseguisse secondo l’ordinario rito di cognizione avanti all’autorità giudiziaria competente (cfr. tra le altre Cassazione civile 5 agosto 2011 n. 17053).

Pertanto, qualora il Giudice adito, a conclusione di un procedimento instaurato ai sensi degli articoli 28 e seguenti della Legge n. 794/1942, non si fosse limitato a decidere sulla controversia tra avvocato e cliente circa la determinazione della misura dei compensi, ma si fosse pronunciato anche sui presupposti del diritto al compenso, relativi all’esistenza e alla persistenza del rapporto obbligatorio, l’intero giudizio doveva concludersi in primo grado con un provvedimento che, quand’anche adottato in forma di ordinanza, aveva valore di sentenza e, dunque, poteva essere impugnato con il solo mezzo dell’appello (in tal senso, Cassazione civile 3 febbraio 2012 n. 1666).

Analogamente, nel caso inverso, l’intero giudizio doveva concludersi in primo grado con un provvedimento che, quand’anche adottato in forma di sentenza, aveva valore di ordinanza, in quanto tale sottratta all’appello ed impugnabile solo con il ricorso per cassazione ex articolo 111 Costituzione.

La Cassazione civile, Sezioni Unite, 11 gennaio 2011 n. 390 (seguita da Cassazione civile, sezione II, 19 maggio 2011 n. 11024) ha temperato il predetto criterio della prevalenza della sostanza sulla forma del provvedimento, facendo applicazione del principio dell’apparenza, affermando che, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo per onorari e altre spettanze dovuti dal cliente al proprio difensore per prestazioni giudiziali civili, al fine di individuare il regime impugnatorio del provvedimento che ha deciso la controversia, assume rilevanza la forma adottata dal giudice, ove la stessa sia frutto di una consapevole scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è in concreto svolto il relativo procedimento.

Secondo la dottrina prevalente e parte della giurisprudenza di merito nulla sarebbe sostanzialmente cambiato rispetto al passato, avendo il procedimento ex articolo 14 Decreto Legislativo n. 150/2011 mantenuto le medesime caratteristiche che aveva quello disciplinato dall’articolo 29 Legge n. 794/1942, tenuto anche conto che l’articolo 14 Decreto Legislativo n. 150/2011 si limita a prevedere che il rito sommario di cognizione regola le “controversie previste dall’art. 28 della legge 13 giugno 1942, n. 794”, senza prevedere alcuna modifica riguardo all’ambito di applicazione di tale ultima disposizione.

Nel caso di contestazioni sull’an del rapporto professionale la gran parte della dottrina, in aderenza alla giurisprudenza di legittimità formatasi nella vigenza della normativa precedente, ha escluso il mutamento del rito sul presupposto che le difese svolte dalle parti richiedano un’istruzione non sommaria ai sensi dell’articolo 702 bis e ter codice procedura civile, tenuto conto che l’articolo 3, comma 1, Decreto Legislativo 150/2011 ne prevede espressamente l’inapplicabilità.

In presenza di contestazioni sull’an, ed anche quando l’inesistenza dei presupposti per il procedimento speciale emerga all’esito della comparizione delle parti, il giudice del procedimento speciale deve limitarsi ad una pronuncia di inammissibilità.

A sostegno di questa tesi, è stata richiamata la previsione di cui all’articolo 14, comma 3, Decreto Legislativo n. 150/2011 (mutuata dall’articolo 29, comma 3, Legge n. 794/1942), relativa alla possibilità per le parti di stare in giudizio personalmente, da cui è possibile evincere che, allorquando le eccezioni del convenuto comportino un ampliamento del thema decidendum alla sussistenza della pretesa del ricorrente, il giudizio non possa proseguire perché, nell’ipotesi in cui il resistente non si sia avvalso dell’assistenza tecnica, egli si troverebbe in posizione di inferiorità rispetto alla controparte proprio nel momento in cui il giudizio diviene più complesso.

In senso contrario, alla tesi in esame, si è peraltro osservato che il rito sommario di cognizione ex art. 702-bis e seguenti del Codice di procedura civile, garantisce, comunque, una cognizione piena della posizione soggettiva dedotta in giudizio, seppur con una trattazione ed un’istruzione semplificate e mette in crisi la premessa da cui muoveva il predetto orientamento giurisprudenziale.

È stato richiamato l’articolo 3, comma 1, Decreto Legislativo n. 150/2011, nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’articolo 702 ter, comma 2, del Codice di procedura civile, ai sensi del quale il Giudice, se “rileva che la domanda non rientra tra quelle indicate nell’articolo 702 bis, la dichiara inammissibile. Nello stesso modo provvede sulla domanda riconvenzionale”.

La predetta norma precluderebbe, infatti, al Giudice, adito ex articolo 14, Decreto Legislativo n. 150/2011, di dichiarare inammissibile la domanda anche qualora l’oggetto del procedimento si estenda all’accertamento dei presupposti del diritto dell’avvocato al compenso professionale, così superando il precedente orientamento giurisprudenziale della Cassazione di cui si è sopra dato conto.

Inoltre, l’articolo 4 Decreto Legislativo n. 150/2011 consente il mutamento del rito in ipotesi di controversia promossa con forme diverse da quelle previste, così sembrando riferirsi all’ipotesi dell’errore sul rito compiuto ab origine, e non alla opportunità/necessità, non derivante da errore iniziale, che la controversia, per effetto delle argomentazioni difensive del convenuto, proceda con rito diverso.

I sostenitori di questa tesi rilevano che la norma potrebbe essere letta estensivamente ed applicata anche nelle ipotesi in cui la scelta del rito “incongruo” non sia dipesa da un errore del ricorrente (ossia dell’avvocato) ma dalle difese del convenuto, che hanno determinato l’inapplicabilità del rito sommario, con le contestazioni relative all’an e non solo al quantum debeatur.

In sintesi, secondo la tesi in esame, il ricorso sommario proposto dall’avvocato sarebbe suscettibile di evolvere, previa conversione del rito ex articolo 4 Decreto Legislativo n. 150/2011 in rito ordinario, allorché il convenuto contesti anche l’an o proponga domanda riconvenzionale.

Infine, secondo una terza tesi, l’intero giudizio di liquidazione dei compensi, comprensivo dei temi sull’an debeatur, dovrebbe essere trattato con il “nuovo” rito sommario. Conseguentemente, nel caso in cui il giudizio in tale materia venga introdotto con rito ordinario e, dunque, con atto di citazione (o con atto di citazione in opposizione avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dall’avvocato), il Presidente del Tribunale o della Sezione tabellarmente competente dovrebbe: disporre il mutamento del rito da ordinario in sommario ai sensi dell’articolo 4 Decreto Legislativo n. 150/2011; nominare il Giudice relatore; fissare l’udienza di comparizione parti avanti al Collegio per la trattazione.

Recentemente, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza del 16 gennaio 2019 n. 1023, ha aderito a questa ultima tesi tenendo conto della pienezza della cognizione che, secondo la maggioranza della dottrina e la stessa relazione di accompagnamento, sarebbe assicurata da questo procedimento e nel rispetto dell’impianto generale del Decreto Legislativo n. 150/2011, in cui la tipologia del rito è il frutto di una decisione legislativa senza possibilità di scelte discrezionali della parte o del giudice.

Infatti, secondo la Suprema Corte,

in tal modo è rispettata la ratio che ha guidato il legislatore delegato secondo cui il controllo di concreta compatibilità della singola lite con le forme semplificate del rito, che nel procedimento sommario di cognizione facoltativo di cui agli artt. 702 bis ss. è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice, è sostituito, nel procedimento sommario obbligatorio disciplinato dall’art. 3, D.Lgs. n. 150/2011, da una verifica, astratta ed irrevocabile, compiuta a monte dal legislatore sulla base delle caratteristiche riscontrate in alcune specie di controversie che hanno ad oggetto determinate specifiche materie. Una tale soluzione ha evidenti vantaggi di economia processuale e sarebbe conforme al principio di conservazione degli atti processuali, evitando la declaratoria di inammissibilità che è espressamente esclusa dall’art. 3, 10 comma, D. Lgs. 150/2011, nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’art. 702 ter, 2° comma, c.p.c. Sarebbe rispettato l’art. 4 D.Lgs. n. 150/2011 che disciplina in via diretta soltanto l’ipotesi dell’instaurazione, mediante forme errate, di una controversia che dovrebbe essere trattata secondo uno dei riti semplificati dal D. Lgs. n. 150/2011; in altri termini, la disposizione non regola espressamente il caso in cui venga instaurata, mediante uno dei riti semplificati, una controversia che non rientra nell’ambito di applicazione dello stesso decreto”.

Secondo gli ermellini,

tale soluzione: a) è confermata dal recente intervento delle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 4485 del 2018, la quale esplicitamente afferma che la controversia di cui all’art. 28 della I. n. 794 del 1942, introdotta sia ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c., sia in via monitoria, avente ad oggetto la domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell’avvocato, resta soggetta al rito di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 anche quando il cliente sollevi contestazioni relative all’esistenza del rapporto o, in genere, all’an debeatur.

b) è in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 65 del 26 aprile 2014 che, con riferimento alla dedotta violazione dei principi della legge delega, riferita all’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2011, ed, in particolare, all’esclusione della convertibilità del rito sommario, ha rilevato che la norma in esame costituisce immediata applicazione del criterio direttivo di cui all’art. 54, comma 4, lettera b), numero 2), della legge n. 69 del 2009, il quale - nel ricondurre al modello del procedimento sommario quei procedimenti nei quali sono prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa - afferma che resta «esclusa per tali procedimenti la possibilità di conversione nel rito ordinario”.

La non convertibilità del rito sommario discende quindi dalla espressa prescrizione impartita dalla legge delega (articolo 54, comma 4, lettera b, numero 2, della legge n. 69 del 2009) e corrisponde, altresì, alla inammissibilità - ripetutamente affermata anche prima della riforma del 2009 - del procedimento speciale previsto dalla legge n. 794 del 1942 nel caso in cui il thema decidendum si estenda a questioni che esulano dalla mera determinazione del compenso.

Secondo la Corte di legittimità,

il divieto di conversione del rito è stabilito dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2011 per le controversie regolate dal rito sommario di cognizione, conseguentemente la richiesta caducazione di tale divieto, riferita ai soli procedimenti di liquidazione degli onorari forensi, costituirebbe un’eccezione rispetto al modello procedimentale prescelto dal medesimo d.lgs. n. 150 del 2011. Siffatta eccezione risulterebbe incompatibile con le finalità, perseguite dalla riforma del 2011, di riduzione e semplificazione dei riti civili, introducendo un’ulteriore particolarità ad un sistema processuale, che - pur essendo ispirato alla finalità di riportare una molteplicità di procedimenti speciali ad una (almeno tendenziale) uniformità - conserva tuttora elementi di innegabile eccentricità”.

Pertanto, le controversie previste dall’articolo 28 della Legge 13 giugno 1942, n. 794, come modificato dall’articolo 34 del Decreto Legislativo n. 150/2011, ed a seguito dell’abrogazione degli articoli 29 e 30 Legge n. 794/1942, per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente da parte dell’avvocato devono essere trattate con la procedura prevista dall’articolo 14 del Decreto Legislativo 1° settembre 2011, n. 150 anche in ipotesi che la domanda riguardi l’an della pretesa, senza possibilità per il giudice adito di trasformare il rito sommario in rito ordinario o di dichiarare l’inammissibilità della domanda.