«Agonismo» processuale ed etica difensiva: l’avvocato e l’uso delle espressioni sconvenienti o offensive
Abstract
L’avvocato ha il dovere di comportarsi, in ogni situazione, con la dignità e con il decoro imposti dalla funzione che l’avvocatura svolge nella giurisdizione e deve in ogni caso astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti od offensive, la cui rilevanza deontologica non è peraltro esclusa dalla provocazione altrui, né dallo stato d’ira o d’agitazione che da questa dovesse derivare.
Molto spesso le “dispute” giudiziarie si caratterizzano per una dialettica dai toni fermi e accesi posta in essere dagli avvocati al fine di sostenere la difesa della parte assistita o di criticare e contrastare le tesi avversarie o le decisioni dei magistrati, che, però, travalica i limiti segnati dai doveri di probità, lealtà, correttezza e decoro, ledendone la dignità della professione. Ciò accade quando “stupidamente” l’avvocato utilizza frasi gratuitamente offensive, che mirano soprattutto ad attaccare il collega avversario e/o la controparte e/o il terzo e/o il magistrato sul piano personale e che non hanno alcuna rilevanza ai fini della difesa.
È principio fondamentale e soprattutto morale che nell’esercizio della professione l'avvocato deve porre ogni rigoroso impegno nella difesa del proprio cliente, senza però mai travalicare i limiti della rigorosa osservanza delle norme disciplinari e del rispetto che deve essere sempre osservato nei confronti della controparte, del suo legale, dei terzi e del magistrato, in ossequio ai doveri di lealtà, correttezza e ai principi di colleganza.
Il diritto di difesa, quindi, incontra un limite insuperabile nella civile convivenza e nel diritto della controparte, del suo legale o del giudice a non vedersi offeso o ingiuriato nel corso di un procedimento giudiziario.
Sul piano deontologico, il divieto di usare espressioni offensive o sconvenienti è espressamente sancito dall’articolo 52 del Codice deontologico forense (ex articolo 20 del vecchio Codice deontologico forense). Il comma 1 recita che “l’avvocato deve evitare espressioni offensive o sconvenienti negli scritti in giudizio e nell’esercizio dell’attività professionale nei confronti di colleghi, magistrati, controparti o terzi”, il 2 comma aggiunge, invece, che “la ritorsione o la provocazione o la reciprocità delle offese non escludono la rilevanza disciplinare della condotta”.
L’avvocato ha, dunque, il dovere di comportarsi, in ogni situazione, con la dignità e con il decoro imposti dalla funzione che l’avvocatura svolge nella giurisdizione e deve in ogni caso astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti od offensive non solo nei confronti del collega avversario ma anche dei magistrati, delle parti e più in generale dei terzi, la cui rilevanza deontologica non è peraltro esclusa dalla provocazione altrui, né dallo stato d’ira o d’agitazione che da questa dovesse derivare.
La norma, che riguarda anche l’avvocato che agisca in proprio ex art. 86 c.p.c. (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 2 marzo 2018 n. 4994, in www.italgiure.giustizia.it), non individua, però, in modo dettagliato e tassativo quali espressioni siano da considerare “offensive” o “sconvenienti” né indica i casi in cui la “ritorsione” o la “provocazione” o la “reciprocità delle offese” costituiscano illecito disciplinare.
Negli ultimi anni il Consiglio Nazionale Forense è intervenuto in più di un’occasione per fare chiarezza sull’articolo in questione, evidenziando i limiti entro i quali è possibile esercitare il diritto di difesa e, quindi, le ipotesi di violazione dell’articolo 52 del Codice deontologico forense in cui incorre l’avvocato, basandosi soprattutto sulla norma di chiusura, secondo cui “la professione forense deve essere esercitata con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale e della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza”. Del resto, “l'avvocato che faccia uso di espressioni sconvenienti ed offensive, anche mediante accuse rivolte direttamente ad un collega, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante perché lesivo del dovere di colleganza e correttezza a cui ciascun professionista è tenuto” (in questi termini, Consiglio Nazionale Forense 20 marzo 2014 n. 31).
Secondo il Consiglio Nazionale Forense (d’ora in poi: CNF), il limite di compatibilità delle esternazioni verbali o verbalizzate e/o dedotte nell’atto difensivo dal difensore con le esigenze della dialettica processuale e dell’adempimento del mandato professionale, oltre il quale si prefigura la violazione dell’articolo 52 del Codice deontologico, va individuato nella intangibilità della persona del contraddittore.
Pertanto, si rientra nella sfera del lecito quando la disputa abbia un contenuto oggettivo e riguardi le questioni processuali dedotte e le opposte tesi dibattute, potendosi ammettere anche crudezza di linguaggio e asperità dei toni. Tuttavia, quando la diatriba trascende sul piano personale e soggettivo, l’esigenza di tutela del decoro e della dignità professionale forense impone di sanzionare i relativi comportamenti (così, CNF 25 settembre 2017 n. 136; CNF 29 novembre 2012 n. 159, in www.codicedeontologico-cnf.it, interpretando l’ex art. 20 del Codice deontologico, il cui disposto è identico a quello attualmente vigente).
Al riguardo, si è stabilito che “la valutazione della natura offensiva o sconveniente delle frasi utilizzate non deve fermarsi alla superficie del passaggio difensivo incriminato, ma deve penetrarne la sostanza al di là della sua resa letterale” (in questi termini, CNF 2 ottobre 2014 n. 129 in www.codicedeontologico-cnf.it) ed “è ininfluente il fatto che il giudice civile abbia omesso di provvedere in ordine alla richiesta di cancellazione delle espressioni offensive, giacché il giudice della disciplina ha completa libertà di effettuare pieno riesame delle espressioni utilizzate sotto il profilo deontologico, indipendentemente dalla valutazione che possa fare il giudice del merito in ambito di responsabilità civile o penale circa il carattere offensivo o meno delle frasi stesse” (così, CNF 25 settembre 2017 n. 136; in senso conforme, in precedenza, CNF 30 dicembre 2013 n. 219; CNF 22 settembre 2012 n. 122 in www.codicedeontologico-cnf.it).
Di conseguenza, violano l’articolo 52 le espressioni usate dal professionista che rivestono un carattere obiettivamente sconveniente ed offensivo e che si situano ben al di là del normale esercizio del diritto di critica e di confutazione delle tesi difensive dell’avversario, per entrare nel campo, non consentito dalle regole di comportamento professionale, del biasimo e della deplorazione dell’operato dell’avvocato della controparte, dovendo peraltro ritenersi implicito l’«animus iniuriandi» nella libera determinazione di introdurre quelle frasi all’indirizzo di un altro difensore in una lettera ed in un atto difensivo (cfr. CNF 18 dicembre 2017 n. 207; CNF 21 dicembre 2009 n. 185, in www.codicedeontologico-cnf.it).
In particolare, e a mero titolo esemplificativo, costituiscono violazione del divieto in questione i seguenti comportamenti:
a) l’attribuzione ad un collega dell’intento «di aver perseguito (nel corso della difesa espletata per conto dell’incolpato) personalissimi, miseri, se non vili interessi di bottega», in quanto trattasi di condotta che, trascendendo i limiti di continenza e pertinenza della critica consentita, e trasmodando quindi in un attacco alla sfera privata della altrui persona, si pone ben al di là di un corretto e leale contraddittorio, infrangendo i limiti di decoro e di dignità imposti dall’etica professionale (in tal senso, CNF 9 giugno 2008 n. 44);
b) l’utilizzo dell’espressione «arcane motivazioni» in un atto processuale dal difensore per spiegare i ripetuti rinvii della discussione richiesti dal collega che lo abbia preceduto nella difesa in giudizio della medesima parte, in quanto supera i limiti della continenza alla quale l’avvocato è tenuto specie nei rapporti con i colleghi (cfr. CNF 18 luglio 2011 n. 109);
c) la descrizione della strategia difensiva avversaria con le espressioni: “scorretta, dolosa, indegna, sistematica mistificazione della realtà, arroganza, protervia, senza vergogna” (cfr. CNF 22 settembre 2012 n. 122);
d) le accuse al collega o al magistrato di ignorare la scienza giuridica, di svolgere con superficialità la professione e di scrivere per anacoluti giuridici, ovverosia ricorrendo a ragionamenti privi di giuridico costrutto, in quanto volte a negare, direttamente, le capacità intellettuali, culturali e professionali della persona e, come tali, gratuitamente offensive (cfr. CNF 15 ottobre 2012 n. 140);
e) nell'atto di impugnazione di una sentenza, l’accusa all'avversario di avere influito sulle deposizioni dei testimoni, istruendoli e sottoponendoli a condizionamenti e ricatti, ed al giudicante di avere preconfezionato la propria decisione, perché si tratta di comportamento non conforme alla dignità e al decoro professionale (così, CNF 10 giugno 2014 n. 85);
f) la citazione da parte del professionista, nel corso del giudizio per il pagamento del suo compenso, di una circostanza estranea all’oggetto del contendere ed ininfluente ai fini del decidere, ma esclusivamente finalizzata a portare un ingiustificato ed ingiusto, discredito personale alla controparte (cfr. CNF 25 settembre 2017 n. 136);
g) definire il collega di controparte come professionista superficiale, credulone e poco accorto al fine di denigrarlo e renderlo ridicolo agli occhi del giudice (cfr. CNF 18 dicembre 2017 n. 207 cit.).
Mentre, è stata esclusa portata offensiva o sconveniente all’utilizzo da parte dell’avvocato dei termini sia «menzogna» che «vaniloquio»: il primo, perché ha un significato semantico omologo a quello di alterazione dei fatti e viene dalla scienza del linguaggio considerato meno popolare e meno grave di quello di «bugia»; invece, il secondo perché trattasi di un discorso privo di costrutto o fondamento logico-giuridico.
Pertanto, è stata esclusa la violazione della norma deontologica in questione per carenza del necessario elemento soggettivo dell’«animus iniuriandi» quando non emerga alcun elemento indicativo della volontà dell’incolpato di esprimere apprezzamenti negativi in ordine alla personalità ed al patrimonio morale dell’esponente, essendosi il professionista limitato alla constatazione oggettiva di un fatto non vero e di un giudizio privo di fondamento (così, CNF 13 dicembre 2010 n. 215).
Come pure, è stata escluso che costituisca illecito disciplinare l’utilizzo, in un atto del giudizio, di espressioni forti per effettuare valutazioni generali attinenti alla materia del contendere e a scopo difensivo (cfr. CNF 6 giugno 2015 n. 74).
In sintesi, quindi, si può affermare che la violazione dell’art. 52 si ha quando le espressioni utilizzate negli scritti difensivi e nell’esercizio della professione non abbiano alcuna relazione con l’esercizio del diritto di difesa, siano obiettivamente ingiuriose e superano i limiti dettati dal rispetto dei doveri di probità, lealtà e correttezza. Mentre, sotto il profilo soggettivo, per integrare l’illecito disciplinare è sufficiente l’elemento della «suitas» della condotta, inteso come volontà consapevole dell’atto che si compie (così, CNF 15 marzo 2013 n. 39).
Il comportamento dell’avvocato colpevole per aver pronunciato un’offesa nei confronti di colleghi, magistrati, controparti o terzi è sanzionato con la censura, come stabilito dal comma III dell’articolo 52.
Nei casi più gravi, la sanzione prevista può essere aumentata fino alla sospensione dall'esercizio dell'attività professionale non superiore a un anno (articolo 22, comma 2, lettera b), del Codice deontologico forense), mentre in quelli meno gravi la sanzione disciplinare prevista può essere diminuita all’avvertimento (articolo 22, comma 3, lettera c), del Codice deontologico forense).
Nei casi, invece, di infrazioni lievi e scusabili, all'incolpato è fatto richiamo verbale, non avente carattere di sanzione disciplinare, come sancito dall’articolo 22, comma 4, del Codice deontologico forense.
Ai fini del trattamento sanzionatorio della condotta contestata, tuttavia, il Consiglio territoriale è tenuto ad operare un bilanciamento tra la considerazione di gravità dei fatti addebitati ed i concorrenti criteri di valutazione, pure rilevanti, connessi all'età dell'incolpato ed all'assenza di precedenti disciplinari (così, CNF 22 dicembre 2014 n. 204; CNF 27 febbraio 2013 n. 22).