Viva i soci di capitale, abbasso l’equo compenso

Di Enrico Maria Goitre

 

Le novità: soci di capitale negli studi legali ed equo compenso per gli avvocati

Negli ultimi mesi, l’avvocatura è stata toccata da due iniziative legislative assai discusse.

La prima è il riconoscimento dell’equo compenso, ora introdotto con un emendamento al disegno di legge di conversione del decreto fiscale in commissione al Senato. Secondo tale emendamento, verrebbero considerate vessatorie, e quindi nulle, le clausole che prevedono compensi troppo bassi (o più precisamente: “un significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvocato, anche in ragione della non equità del compenso pattuito”) nell’ambito dei rapporti tra avvocati e banche/ assicurazioni/grandi imprese. A fronte di tale nullità, il giudice avrebbe il potere di intervenire, determinando il compenso giusto sulla base dei tariffari fissati con decreto del Ministero Giustizia. Verrebbero inoltre ritenute vessatorie – e analogamente sanzionate con la nullità – alcune tipologie di clausole ulteriori (ad esempio quelle che impongono all’avvocato di farsi carico dell’anticipazione delle spese di lite o la rinuncia al rimborso delle spese, o che consentono al cliente di modificare unilateralmente i patti con il professionista). Queste disposizioni, che inizialmente dovevano riguardare solo gli avvocati, sono stata estese, proprio con l’ultima modifica, a tutti i professionisti “in quanto compatibili”.

La seconda è la possibilità, inserita nella legge sulla concorrenza, che la professione forense venga esercitata da società, anche di capitali, a condizione, fra l’altro, (i) che la partecipazione dei soci finanziari non superi il terzo del totale, (ii) che l’organo di gestione sia composto in maggioranza da soci avvocati (e non genericamente professionisti) e (iii) che la prestazione sia materialmente svolta da soci professionisti.

 

La reazioni dell’Avvocatura

Le due novità hanno incontrato, da parte della categoria, reazioni opposte. In sintesi, tanto peggiore il provvedimento, tanto maggiore è stato l’apprezzamento ricevuto.

E così, l’equo compenso è stato salutato dall’Avvocatura con grandissimo entusiasmo. Si legge che la proposta sull’equo compenso avrebbe il merito di impedire le forme di “caporalato intellettuale” a danno dei giovani (così il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando) e di superare “la cultura imperante in questi anni, dominata dall’idea di un mercato senza regole governato dalla finanza e dall’economia forte” fondata – nientemeno (!) – che “sulla concorrenza al ribasso e sull’impoverimento anche delle libere professioni e del ceto medio” (Andrea Mascherin, presidente del CNF). Alcuni arrivano addirittura a scomodare la Costituzione, il cui art. 36 (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”) imporrebbe parcelle sufficientemente ricche.

Un equo compenso tutt’altro che equo

Partiamo dall’equo compenso.

Si tratta di un’idea profondamente ingiusta, prima ancora che dannosa per i clienti e per i consumatori, nonché per lo stesso avvocato e, in ultima analisi, per l’intera categoria.

In un’economia di mercato, regna la concorrenza. E cioè il sacrosanto principio per cui Tizio è libero, se crede, di fare per 50 ciò che Caio è disposto a fare per 100.

Naturalmente, in un paese che sceglie il mercato, la regola dovrebbe valere per tutti. Come al solito, invece, la concorrenza in Italia piace moltissimo, a patto che riguardi gli altri. Certe categorie, in particolare, devono esserne sempre protette.

Stabilire che il compenso di un avvocato debba essere equo a pena di nullità equivale di fatto a ripristinare le tariffe minime abrogate alcuni anni fa. Per un’impresa, dimostrare che un compenso esiguo sia comunque “equo” sarà pressoché impossibile. In pratica tutti i compensi inferiori ai minimi tariffari diverranno potenzialmente nulli. Proprio come ai tempi delle tariffe professionali.

Opposte le reazioni alla possibilità che anche i non professionisti divengano soci di società di avvocati. C’è chi avverte che i nuovi studi legali “di capitale” accetteranno solamente cause redditizie, disinteressandosi ai più deboli e al rispetto della legalità. Chi paventa il pericolo che il socio di capitale, in futuro, avendo la possibilità di accedere ai fascicoli riservati dello studio, possa violare il diritto alla riservatezza del cliente. Chi ipotizza che banche ed assicurazioni approfitteranno delle novità legislative per creare propri studi legali di cui servirsi, tagliando fuori i “veri” avvocati. Qualcuno prevede che il socio di capitale aprirà la strada alla “colonizzazione” del mercato italiano da parte degli studi stranieri. Altri ancora denunciano che il socio di capitale potrebbe avere diritto, per tutta la vita della società, ad una quota degli utili della società. Altri, infine, sostengono che i soci di capitale condanneranno a morte l’indipendenza dell’avvocatura.

Tuttavia, perché solamente gli avvocati (o, più in generale, i professionisti) debbano avere diritto ad un compenso minimo, al riparo dalla concorrenza. Perché lo stesso non dovrebbe valere per i panettieri? Un parrucchiere non è danneggiato dal concorrente cinese? Un commerciante non risente dei prezzi bassi della grande distribuzione?

A questo genere di obiezioni, l’Avvocatura tende a replicare che l’avvocato non sia un imprenditore. Altre volte si rifugia dietro al concetto di “dignità della professione”: un compenso troppo basso, dicono, sarebbe “indegno” per un avvocato. Addirittura contrario all’art. 36 della Costituzione, secondo i più audaci.

Al di là del (malcelato) classismo di cui sono impregnati questi argomenti – il cui retro pensiero è che è accettabile che un imbianchino guadagni poco, ma – signora mia! – un avvocato è pur sempre un avvocato – resta davvero poco.

Se è vero che l’avvocato – per un mero privilegio legislativo, che tanti faticano oggi a capire – non è considerato giuridicamente un imprenditore, la realtà economica è un’altra: proprio come qualsiasi imprenditore, un avvocato deve procacciarsi i clienti, deve organizzare collaboratori e segretarie e, soprattutto far quadrare i conti, attuando cioè una gestione economica dello studio. In poche parole, sta sul mercato. Ed è quindi normale che la concorrenza lo riguardi. Inoltre, il fatto che la legge abbia finora evitato di trattare gli avvocati come imprenditori, non significa che una nuova legge non possa cambiare la situazione.

È poi assai discutibile che la dignità della professione attenga alla consistenza del compenso e non alla qualità o alla serietà del lavoro svolto. Proprio questa interpretazione della dignità professionale è già valsa al CNF una sanzione da parte dell’AGCM nel 2014 (poi confermata dal Consiglio di Stato nel 2016). Successivamente all’abrogazione delle tariffe minime, il CNF aveva infatti diramato la circolare 22-C, nella quale si affermava che pattuire compensi esigui, pur essendo divenuto possibile civilisticamente, potesse comunque rilevare in sede disciplinare in quanto lesivo della dignità della professione. L’Autorità aveva quindi sanzionato il CNF per avere ristretto la concorrenza limitando la libertà dei professionisti.

Ancora più discutibile è che l’art. 36 Cost. – scritto dai Costituenti pensando al lavoro subordinato – sia applicabile alla retribuzione di un libero professionista. E non si tratta di una ingiustificata disparità di trattamento, posto che lavoro autonomo e subordinato sono oggettivamente molto diversi. Il lavoratore subordinato ha nel datore di lavoro la propria unica fonte di sostentamento, circostanza che rende indispensabile che la retribuzione percepita (essendo appunto una sola) sia sufficiente a consentirgli di vivere. L’avvocato, al contrario si rivolge ad un numero indistinto di clienti, per i quali svolge un numero imprecisato di prestazioni. Ciò fa sì che possa guadagnare poco o tantissimo e rende impossibile predeterminare un minimo di sussistenza in base al quale parametrare il proprio compenso. L’art. 36 Cost. è quindi stato sempre ritenuto inapplicabile ai liberi professionisti. Questa è del resto l’opinione consolidata della Cassazione dal dopoguerra (sentenza 3176/1956) ad oggi (sentenza 16213/2017): un po’ strano che l’Avvocatura non ne sia al corrente.

Se c’è una categoria di professionisti di fatto dipendenti, e per i quali potrebbe quindi avere senso invocare l’art. 36, è semmai quella dei praticanti e dei giovani avvocati: soggetti che, in tantissimi casi, pur avendo un unico committente (il titolare dello studio), lavorano per compensi irrisori, quando non del tutto gratis. E ciò nonostante il codice deontologico forense (gli artt. 39 e 40) imponga espressamente l’obbligo di compensarli adeguatamente. Rispetto a questi abusi, però, l’Avvocatura tace. A quanto pare, la dignità del compenso è un diritto che vale solo all’esterno degli studi legali (tra il cliente e l’avvocato), ma non al loro interno (tra l’avvocato e suoi collaboratori). Evidentemente i giovani professionisti non hanno necessità di una vita dignitosa.

In ogni caso, anche chi fosse sufficientemente cinico da chiudere un occhio sull’ingiustizia dell’equo compenso, dovrebbe rendersi di conto di come la cosa difficilmente potrà funzionare.

Una prima ragione è che quasi nessun avvocato farà causa al proprio cliente (banca/assi­curazione/grande impresa) per farsi rideterminare il compenso. Questo per la semplice ragione che un compenso basso è comunque meglio che perdere un cliente (un’eventualità assai probabile, quando gli si fa causa).

Inoltre, oggi assicurazioni, banche, compagnie telefoniche affidano i mandati, specie quelli “seriali” (es. recuperi crediti, gestione dei sinistri, piccole cause, ecc.) a migliaia di studi legali diversi, spesso a fronte di compensi effettivamente ridottissimi. A fronte del rischio di vedersi rideterminare centinaia di parcelle, è difficile pensare che le imprese, domani, potranno permettersi di raddoppiare i propri budget per le spese legali per garantire finalmente compensi “equi”. È invece molto probabile che tenderanno a concentrare i mandati presso pochi studi di fiducia che, a fronte di un enorme di flusso di lavoro (del valore di centinaia di migliaia, quando non di milioni, di euro), garantiscano di “non fare scherzi”, accontentandosi di quanto pattuito. Insomma: con l’equo compenso, i piccoli studi non solo non vedranno i propri ricavi aumentare, ma rischieranno seriamente di perdere i clienti più grossi.

Ma supponiamo, per assurdo, che la legge funzioni e che le grandi imprese comincino a pagare equamente gli avvocati dei quali si avvalgono. La scelta di obbligare le imprese a sostenere costi maggiori di quelli che devono affrontare oggi grazie ad un mercato libero, si tradurrà, molto semplicemente, in prezzi più alti per i consumatori (e cioè per tutti noi).

 

Un socio finanziario per rinforzare gli studi legali

Passiamo ai soci di capitale.

Le critiche alla possibilità per i non-professionisti di entrare negli studi legali hanno tutte una cosa in comune: si tratta di affermazioni apodittiche, senza nessuna argomentazione che le sostenga.

Innanzitutto, nessuno spiega perché solamente uno studio legale partecipato da un socio di capitale dovrebbe accettare solamente le cause più remunerative. In ogni studio le cause vengono accettate quando sono redditizie, posto che quello dell’avvocato è un lavoro e non beneficienza. Per chi non può pagare, esiste il patrocinio a spese dello Stato: cosa che non cambierà con l’arrivo dei soci di capitale.

Quanto alla tutela della riservatezza, è piuttosto discutibile che i soci di capitale in quanto tali abbiano qualche interesse a farsi gli affari dei clienti (nelle cliniche private, spesso partecipate interamente da soci di capitale, questi ultimi curiosano forse nelle cartelle cliniche dei pazienti? E lo stesso vale per le società di consulenza, o di revisione, o di servizi, ecc.). In realtà, la situazione non sarà diversa da quella di tutti gli studi legali in cui lavori più di una persona, dove – pur avendo ogni professionista la possibilità di sbirciare i fascicoli degli altri professionisti – non risulta che le fughe di notizie siano poi così frequenti. In effetti, ciò che tutela la riservatezza del cliente non è certamente la solitudine del professionista, ma la sua serietà ed il suo senso etico. O, se non altro, il timore delle responsabilità – civili, penali e deontologiche – che potrebbero derivargli da una violazione del dovere di segretezza.

È poi assai improbabile che banche ed assicurazioni intendano aprire propri studi legali in-house: che interesse avrebbero ad entrare in un business – quello della consulenza legale – che non conoscono? Nulla impedirebbe, già oggi, ad una grossa società di internalizzare, per esempio, il servizio di pulizia, o di mensa, o di assistenza informatica, o di manutenzione. La tendenza generale è semmai quella opposta, e cioè ad esternalizzare i servizi ritenuti non-core.

Quanto alla “colonizzazione” da parte degli studi stranieri, all’Avvocatura è forse sfuggito che questa è cominciata trent’anni fa, senza bisogno dei soci di capitali, quando le grandi law-firm inglesi e americane hanno iniziato ad aprire sedi nelle grandi città. E se colonizzazione c’è stata, questa è unicamente dovuta al grande successo che queste strutture hanno incontrato sul mercato italiano. Un successo meritato grazie a dei metodi di lavoro (organizzazione dello studio in dipartimenti specializzati, marketingnetwork internazionale, utilizzo corrente delle lingue straniere, garanzia di risultato) assolutamente innovativi in Italia, per l’epoca. La prova della bontà di quel modello è data dal fatto che tanti eccellenti studi italiani lo hanno in seguito imitato. Chissà che i soci finanziari non portino una ulteriore ventata di innovazione.

E ancora: dove sta il problema nel fatto che un socio di capitale, dopo aver investito in un studio legale, abbia diritto ad una quota degli utili? Il socio di uno studio legale tradizionale non ha forse già oggi lo stesso diritto a dividere gli utili dello studio, anche quando il lavoro viene svolto materialmente da altri (collaboratori, praticanti, ecc.)?

E veniamo alla paventata fine dell’indipendenza della professione, un evergreen dell’Avvocatura ogni volta in cui ci sia da fare muro a qualche riforma. Anche qui, non si capisce perché nei nuovi studi legale “di capitale” l’avvocato dovrebbe perdere la propria indipendenza. Nel codice deontologico e nella legge professionale, l’indipendenza non è un concetto a sé stante: nessun avvocato ha l’obbligo di essere “indipendente” in sé (il che non vorrebbe dire nulla), ma ha l’obbligo di esserlo nello svolgimento di ogni singolo incarico. Per esempio, un avvocato non può accettare di assumere una causa contro un proprio familiare o contro un proprio ex cliente, quando ciò non gli consenta di fare al meglio gli interessi del cliente; un avvocato non deve farsi condizionare da pressioni di terzi nello svolgimento del suo mandato; e così via. E allora: in che modo, un domani, un socio di capitale potrebbe compromettere l’indipendenza del professionista? Ma, anche immaginando che ciò sia possibile, perché la situazione dovrebbe essere peggiore di quanto avviene negli studi tradizionali, dove – lì sì! – un socio di maggioranza (cosa che il socio di capitale, come detto, non potrà mai essere) può condizionare l’assunzione di incarichi da parte dei soci più deboli (magari per non infastidire un cliente importante)?

Poveri giovani!

Infine, tanto con riferimento all’equo compenso, quanto al socio di capitale sono stati tirati in ballo i giovani: l’equo compenso li difenderebbe da compensi irrisori; l’esistenza di soci di capitale li condannerebbe invece a essere tagliati fuori dal mercato.

L’esperienza insegna che ogni volta che in Italia qualcuno si propone di difendere i giovani è quasi certo che mira a fare l’esatto contrario. In effetti, i giovani italiani sono decisamente lo scudo umano preferito di una serie di categorie – di solito tutt’altro che giovani: sindacati, politica, pensionati, ordini professionali, ecc. – abbastanza ciniche da nascondere i propri interessi dietro alle speranze e alle paure delle nuove generazioni. È successo in passato – “se gli anziani non vanno in pensione, come faranno i giovani a trovare lavoro?”, si diceva della riforma Fornero – e sta di nuovo accadendo ora.

La realtà è che l’equo compenso renderà la vita dei giovani avvocati decisamente più dura. Quali altre possibilità ha, infatti, un giovane di farsi conoscere sul mercato e crearsi così una clientela, se non riducendo il proprio compenso? Se la riforma funzionerà, una banca – sapendo che, per evitare guai, dovrà pagare un compenso equo (vale a dire sufficientemente alto) – ai giovani preferirà senz’altro avvocati più conosciuti ed esperti. E quindi, ragionevolmente, più anziani. Ancora una volta insomma una novità pubblicizzata come nell’interesse dei giovani, finirà per consolidare il potere dei più anziani. Ai tanti giovani professionisti non resterà che continuare a sgobbare per altri. E per compensi che in troppi casi di dignitoso hanno assai poco.

Specularmente, l’esistenza dei soci di capitale potrebbe essere una grande opportunità per i giovani avvocati. Non è affatto detto che un giovane professionista brillante e che voglia mettersi in proprio disponga delle risorse necessarie per farlo. Ecco che un socio di capitale, disposto a dividere il rischio in cambio di una quota degli utili, può essere la sua unica chance di farcela.

In conclusione

Insomma, sembra che le posizioni espresse dall’Avvocatura non siano in linea con gli interessi della collettività (che ha tutto l’interesse a vedere maggiore concorrenza anche tra i professionisti) né con quelli dei professionisti più giovani e di gran parte della categoria.

Invece di reclamare compensi minimi e di cercare di contrastare ogni apertura del mercato, il mondo forense dovrebbe sostenere ogni iniziativa – come le liberalizzazioni – mirata a rendere più forte la nostra economica: se non per amor di patria, quantomeno perché non manchino le imprese a cui offrire i propri servizi (imprese che invece, tra tasse, burocrazia e costo del lavoro – a cui si aggiungeranno i maggiori costi dei servizi professionali – in Italia fanno sempre più fatica a sopravvivere).

Di certo, aggrapparsi a vecchi privilegi e rendite di posizione – che potranno continuare ad esistere solo sulla carta, non avendo più spazio nell’attuale mercato – non porterà agli avvocati nulla di buono.

 

Redatto il 16 novembre 2017