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La legge “anticorruzione” e la riforma dei reati contro la Pubblica Amministrazione

Introduzione

La legge 6 novembre 2012, n. 190, recante "disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione", pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 265 del 13 novembre 2012 ed entrata in vigore il 28 novembre 2012, ha innovato la disciplina dei reati dei pubblici ufficiali nei confronti della pubblica amministrazione, con le disposizioni contenute nell'articolo 1, commi 75-83[1].

In particolare, al fine di segnalare le modifiche apportate alla disciplina dettata dal codice penale, occorre aver riguardo alle disposizioni contenute nell’articolo 1, comma 75 della suddetta legge.

La riforma, presentata come momento imprescindibile per il rilancio del Paese[2], poiché tesa ad implementare l’apparato preventivo e repressivo contro l’illegalità nella pubblica amministrazione[3], corrisponde all’esigenza di innovare un sistema normativo ritenuto da tempo inadeguato a contrastare fenomeni sempre più diffusi e insidiosi[4] ed è volta a ridurre la “forbice” tra la realtà effettiva e quella che emerge dall’esperienza giudiziaria[5].

Dal raffronto tra i dati giudiziari e quelli relativi alla percezione del fenomeno lato sensu corruttivo, forniti da Trasparency International e dalla Banca mondiale, infatti, si evince che sussiste un rapporto inversamente proporzionale tra corruzione “praticata” e corruzione “denunciata e sanzionata”, con la crescita esponenziale della prima e la forte riduzione della seconda[6].

Le motivazioni addotte a sostegno dell’esigenza di intervenire sull’assetto normativo dei reati contro la pubblica amministrazione sono essenzialmente due: da una parte si rileva l’inadeguatezza del sistema normativo vigente e dall’altra si valorizza la necessità di adeguare l’ordinamento interno agli impegni assunti a livello internazionale, con la ratifica di talune Convenzioni[7].

La legge 190 del 2012 costituisce una risposta, per vero secondo alcuni non del tutto soddisfacente[8], a tali esigenze.

Essa infatti, persegue un duplice obiettivo: in uno a quello di lanciare un messaggio chiaro al Paese, ridisegnando la strategia di contrasto alla corruzione in senso maggiormente repressivo, la legge risponde anche allo scopo di adeguare il nostro ordinamento agli obblighi assunti sul piano internazionale.

Tali obblighi invero, sono vincolanti sul piano interno, in virtù del richiamo contenuto nel primo comma dell’articolo 117 della Carta Costituzionale, che sancisce che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dagli “obblighi internazionali”.

In particolare, la legge sulla riforma della corruzione si ispira alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione del 31 ottobre 2003, cosiddetta “Convenzione di Merida”, ratificata con la legge 3 agosto 2009, n. 116 e soprattutto alla Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa del 27 gennaio 1999 (Convenzione di Strasburgo), ratificata dall'Italia con la legge 28 giugno 2012, n. 110, nonché al rapporto redatto dal GRECO, “Group of States against corruption”, istituito in seno al Consiglio di Europa, che ha adottato la raccomandazione con la quale l’organo ha invitato gli Stati membri ad adottare un regime sanzionatorio di misure efficaci, proporzionate e dissuasive contro la corruzione[9], che includano sanzioni privative contro la libertà.

L’Italia tuttavia, aveva già precedentemente dato attuazione, sebbene in parte, alla Convenzione penale sulla corruzione con la legge 300 del 2000.

Tra le Convenzioni internazionali che hanno in passato condizionato l’evoluzione della disciplina italiana sulla corruzione occorre inoltre segnalare la Convenzione dell’OCSE sulla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali e la decisione quadro dell’Unione Europea 2003/568/GAI.

Sulla scorta dell’adesione alla Convenzione di Merida è stata istituita la “CIVIT”, ossia l’Autorità nazionale anticorruzione[10].

Lo ratio sottesa alla nuova disciplina si identifica con la volontà di adottare strumenti volti a prevenire ed a reprimere con mezzi adeguati il fenomeno dilagante della corruzione e dell'illegalità nelle amministrazioni, in tutte le sue forme, comprese anche le condotte che si sostanziano nell’esercizio dell’influenza da parte del pubblico agente che faccia valere il proprio peso istituzionale.

Il comune denominatore che caratterizza la nuova disciplina infatti, in linea di continuità con le convenzioni internazionali richiamate, consiste in un generale inasprimento del trattamento sanzionatorio.

La riforma si muove essenzialmente attraverso tre linee direttrici.

In primo luogo occorre segnalare l’aspetto, minimale, consistente nel generale innalzamento del trattamento sanzionatorio previsto per alcune fattispecie di reato, al fine di potenziare l’efficacia dissuasiva.

Sono stati aumentati infatti, i minimi edittali del reato di peculato, di cui all’articolo 314 del codice penale, il cui minimo, prima previsto in tre anni di reclusione, è stato portato a quattro anni; allo stesso modo è stata aumentata la pena prevista per il reato di abuso di ufficio, di cui all’articolo 323 del codice penale, prima racchiusa da un minimo di sei mesi fino al massimo di tre anni, ora ricompresa tra uno e quattro anni di reclusione.

Ancora, è stato innalzato il minimo edittale previsto per le fattispecie di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio (corruzione propria), di cui all’articolo 319 del codice penale, portato alla pena da quattro ad otto anni di reclusione, a fronte della “vecchia” pena della reclusione da due a cinque anni ed è stata aumentata inoltre la pena prevista per il reato di corruzione in atti giudiziari, di cui all’articolo 319-ter del codice penale, la cui sanzione per il fatto previsto dal primo comma, prima racchiusa tra tre ed otto anni di reclusione, è ora ricompresa tra quattro e dieci anni, mentre, con riguardo all’ipotesi aggravata, di cui al secondo comma, il minimo edittale è stato elevato a cinque anni di reclusione, a fronte dei quattro anni precedentemente previsti.

Occorre segnalare quanto al primo aspetto, inoltre, l’aumento del minimo edittale, da tre a quattro anni di reclusione, previsto per il reato di concussione, di cui all’articolo 317 del codice penale.

Quanto al trattamento sanzionatorio inteso in senso lato, occorre infine rilevare che la legge 190 del 2012 ha posto rimedio alla dimenticanza nella quale era incorso il legislatore precedentemente, con la legge 300 del 2000, che ha introdotto, tra le altre, la norma di cui all’articolo 322-ter del codice penale, sulla confisca. Il legislatore del 2012 infatti, ha esteso la confisca per equivalente al “profitto”, oltre che al prezzo, anche sulla scorta delle sollecitazioni pervenute dalla giurisprudenza di legittimità[11].

Dall’aumento delle pene previste per le fattispecie di reato passate in rassegna consegue, quale principale corollario, il prolungamento del termine di prescrizione[12].

Una seconda linea direttrice si identifica con la “rimodulazione” di talune fattispecie.

Le disposizioni contenute nella legge 190 del 2012, in particolare, hanno modificato le fattispecie di concussione[13], che è stata fatta oggetto di uno “spacchettamento”[14], quanto alle due condotte precedentemente contemplate dall’articolo 317 del codice penale, che ora contiene il riferimento alla sola condotta della costrizione (e non anche a quella dell’induzione, oggetto di un’autonoma norma incriminatrice, l’articolo 319-quater del codice penale[15]) e la corruzione per il compimento di un atto di ufficio, di cui all’articolo 318 del codice penale, di cui sono stati mutati la rubrica (“Corruzione per l’esercizio della funzione”) ed il contenuto della norma[16].

Infine, una terza linea di intervento è costituita dall’introduzione del reato di “traffico di influenze illecite”, ai sensi del nuovo articolo 346-bis del codice penale[17].

Tale fattispecie è stata inserita allo scopo di adeguare l’ordinamento interno agli obblighi imposti dalle convenzioni internazionali[18].

Il delitto di traffico di influenze illecite segue topograficamente la fattispecie di millantato credito, dalla quale si distingue tuttavia, per l’effettiva esistenza delle relazioni con il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio.

Nella trattazione che segue si passeranno in rassegna le principali modifiche apportate soprattutto al capo I, del titolo II, del libro II del codice penale, sui reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, con i relativi problemi applicativi che la riformulazione delle fattispecie analizzate genera, ponendo le nuove disposizioni in confronto con la disciplina previgente e le relative applicazioni giurisprudenziali.

§ 1. Concussione (art. 317 c.p.)

Tra le principali novità apportate dalla legge 190/2012, occorre segnalare in apertura la modifica del reato di concussione.

Al fine di evidenziare le modifiche di maggior rilievo operate dal legislatore, giova richiamare la precedente formulazione della fattispecie di concussione, disciplinata dall’articolo 317 del codice penale.

La disposizione in questione statuiva che “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni”.

Il nuovo reato di concussione, disciplinato dall’articolo 317 del codice penale contiene la seguente disposizione: “il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei a dodici anni”.

Dal confronto con la precedente formulazione dell’articolo 317 del codice penale emergono con evidenza tre rilevanti modifiche.

In primo luogo, di assoluta importanza risulta essere la novità, apportata dalla legge 190 del 2012, consistente nella scissione della concussione “per costrizione” e della concussione “per induzione”. La riforma, infatti, ha posto in essere lo “spacchettamento”[19] tra le condotte originariamente previste nella disposizione contemplata dal codice.

La precedente formulazione poneva le due condotte in relazione di alternatività tra loro, sicché la loro esatta individuazione e perimetrazione non poneva grossi problemi interpretativi, integrando entrambe la medesima fattispecie di reato ed essendo le stesse soggette alla medesima pena della reclusione da quattro a dodici anni.

Come evidenziato infatti, il previgente articolo 317 del codice penale puniva alternativamente la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, “costringe o induce” taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità.

L’attuale articolo 317 del codice penale contempla invece, la sola ipotesi di concussione “per costrizione”, ad esclusione di quella “per induzione”, prevista dal nuovo articolo 319-quater del codice penale, introdotto dalla legge 190/2012, rubricato “induzione indebita a dare o promettere utilità”.

La riformulazione operata dal legislatore appare, stando ad una parte della dottrina, un ritorno al passato, piuttosto risalente, in quanto un’analoga differenziazione era contenuta nel codice Zanardelli del 1889, agli articoli 169[20] e 170[21], che prevedeva in due disposizioni distinte le fattispecie di concussione “per costrizione” e di quella “per induzione”.

Tale dicotomia invero, era stata ripresa dal codice toscano del 1853, che conteneva la disciplina delle due distinte fattispecie agli articoli 181[22] e 182[23].

La ragione della previsione di due forme distinte di concussione è rappresentata dalla differente gravità, maggiore per la costrizione e minore per l’induzione, delle condotte contemplate dalle due norme[24], come si evince dalla Relazione al codice Zanardelli[25].

In essa invero si evidenziava che l’induzione evocava l’idea dell’inganno e dunque essa si verifica quando “il pubblico ufficiale, invece di minacciare a viso aperto, adopera, abusando della sua qualità, artifizii od inganni per indurre taluno a somministrare, pagare o promettere indebitamente…”[26].

Sulla definizione di “induzione” sembra convenire anche la Relazione del codice Rocco del 1930, nella quale si legge che “la induzione deve per necessità consistere nel trarre taluno in inganno circa l’obbligo, ch’egli abbia, di dare o promettere, o nel condizionare la prestazione della propria attività a una indebita remunerazione”[27].

La diversa gravità delle due condotte di costrizione e di induzione è stata contestata tuttavia, dagli autori del dell’attuale codice penale; nella Relazione ministeriale al progetto definitivo dell’attuale codice infatti, si legge che “nel fatto criminoso della concussione l’indurre ha una gravità non minore del costringere…In ogni caso, la volontà dell’offeso cede all’uso di mezzi, che intrinsecamente sono non meno efficaci e odiosi d’una costrizione morale”[28].

L’opinione secondo cui lo scorporamento delle due fattispecie costituirebbe un ritorno al codice Zanardelli risulta essere tradita dalla previsione della punibilità per il privato che dà o promette indebitamente denaro o altra utilità, ai sensi del secondo comma dell’articolo 319-quater.

Tale disposizione invero, sarebbe in palese conflitto con l’idea di frode sottesa all’induzione contemplata dal codice Zanardelli, alla stregua del quale l’induzione postulava l’inganno del privato. Altrimenti opinando invero, il soggetto indotto sarebbe senz’altro vittima dell’inganno ed occorrerebbe concludere nel senso dell’impossibilità di assoggettarlo a punizione.

Una diversa lettura, più diffusa in dottrina ed in giurisprudenza prima della riforma del 2012, identificava invece l’induzione in una forma di costrizione attenuata, non brutale, non dichiarata, che si fonda sull’intralcio, sull’ostacolo cavilloso, sull’irretire il privato in un reticolo di ragionamenti non apertamente o dichiaratamente costrittivi, ma orientati a far sì che il privato si decidesse a dare o a promettere l’indebito[29].

Il Legislatore con la previsione della nuova disciplina sembra aver mostrato adesione a tale accezione, posto che una lettura dell’induzione quale inganno porrebbe la norma di cui all’articolo 319-quater in contrasto con i principi fondamentali in materia di personalità della responsabilità penale, espressi dagli articoli 47 e 48 del codice penale e, più in generale, dall’articolo 27, primo comma, della Costituzione[30].

Com’è noto, infatti, la Corte Costituzionale, nella sentenza 364 del 1988 (e nelle successive sentenze 1085/1988 e 322/2007) ha interpretato il primo comma dell’articolo 27 della Costituzione in combinato disposto con il terzo comma dello stesso articolo, come norma che fonda la responsabilità del reo per fatto proprio, colpevole.

Sicché, perché una qualsivoglia condotta di reato possa essere imputata all’agente non è ancora sufficiente che il fatto sia “proprio” del reo, in virtù della sussistenza soltanto del nesso di causalità materiale tra la condotta e l’evento, ma occorre altresì che tale condotta sia anche psicologicamente riferibile al reo e cioè, è necessario che sussista “almeno la colpa”, quale requisito subiettivo minimo di imputabilità, in relazione agli elementi più significativi della fattispecie, posto che solo la condotta colpevole (anche qualora fosse meramente indicativa di un atteggiamento di indifferenza nei confronti dell’ordinamento e non fosse sorretta dalla piena coscienza e volontà, e cioè, “dolosa”) sarebbe riprovevole e, come tale, meritevole di sanzione. Tale colpa sarebbe esclusa dall’interpretazione dell’induzione quale condotta fraudolenta, volta ad ingannare e a far cadere in errore il soggetto indotto.

Delle elaborazioni giurisprudenziali sul tema del discrimen tra “costrizione” e “induzione” ci si occuperà più diffusamente nel prosieguo della trattazione.

L’aspetto comune delle due condotte è rappresentato dall’abuso della qualità e dei poteri, che identifica il nucleo portante[31] delle fattispecie lato sensu concussive, che segna la linea di confine, per vero talvolta piuttosto labile, con la corruzione[32] (alla quale la fattispecie di induzione è in parte contigua).

Quanto al discrimine tra le fattispecie di corruzione e concussione (per costrizione e per induzione), sono state prospettate diverse impostazioni.

Una prima impostazione ritiene che sia necessario indagare sull’origine del rapporto e dunque, sulla “paternità dell’iniziativa”[33]; occorre stabilire cioè, se l’iniziativa venga presa dal funzionario pubblico o dal privato. Solo nel caso in cui l’iniziativa viene presa dal funzionario pubblico è ravvisabile la fattispecie di concussione. Tale impostazione è stata superata, in quanto non idonea a fornire un valido criterio per distinguere le fattispecie di reato in questione, considerato che nella realtà spesso l’iniziativa corruttiva proviene dal funzionario pubblico.

Una seconda tesi, più diffusa, ravvisa nel differente clima psicologico[34] il carattere discretivo. La corruzione sarebbe dunque caratterizzata dalla sostanziale parità tra le parti (par condicio) dell’accordo corruttivo, cosiddetto pactum sceleris. Nella concussione invece, la volontà del privato non sarebbe libera, ma coartata dal funzionario pubblico.

L’elemento che caratterizza la concussione si identifica, stando a tale impostazione, nel metus publicae potestatis e cioè nel timore e nello stato di soggezione che il pubblico funzionario genera nel privato con la sua volontà prevaricatrice, determinando una coazione assoluta.

Un terzo orientamento, emerso soprattutto in giurisprudenza, ha ritenuto di valorizzare la finalità perseguita dal privato con la dazione o la promessa del denaro o dell’utilità.

Sicché, se il privato dia o prometta denaro o altra utilità al fine di conseguire un vantaggio indebito (certat de lucro captando) sarebbe integrata la fattispecie della corruzione; allorché invece, il privato si determini a promettere o a dare denaro o altra utilità al solo fine di evitare un danno ingiusto (certat de damno vitando) vi sarebbe concussione.

Le diverse impostazioni emerse al fine di discernere tra le fattispecie di corruzione e concussione sono state riproposte in funzione del diverso scopo, di individuare il discrimen sussistente tra le condotte di “costrizione” e di “induzione”, di cui si tratterà in modo più specifico nel prosieguo.

Le difficoltà generate dalla distinzione tra concussione e corruzione hanno condotto parte della dottrina ad auspicare una fusione delle due fattispecie, prevista nel “progetto Cernobbio”[35], che stabiliva norme premiali a favore del soggetto che collaborasse, sulla scia delle statuizioni contenute nelle Convenzioni internazionali, in cui non viene contemplata la concussione, che costituisce una fattispecie tutta italiana e dunque, un “unicum” nel panorama europeo.

In materia di concussione infatti, le fonti internazionali pattizie sono completamente “mute”[36].

Le istituzioni internazionali, tra cui l’OCSE e il GRECO da tempo esprimono preoccupazioni in ordine al pericolo che, “attraverso un uso generico del delitto di concussione da parte della magistratura italiana (inquirente e giudicante), il privato che ha effettuato un’indebita dazione di denaro o altra utilità sfugga alla punizione, allegando di essere stato “indotto” al pagamento o alla promessa da condotte abusive del pubblico funzionario”[37].

Il fulcro della concussione e dell’induzione indebita a dare o a promettere utilità è rappresentato dalla clausola di illiceità speciale dell’abuso della qualità o dei poteri.

Vi è abuso di qualità quando l’agente per costringere o indurre il destinatario strumentalizza la propria qualifica soggettiva, utilizzata al fine di determinare una condizione di assoggettamento psicologico assoluto (nella costrizione) o di condizionamento (nell’induzione) correlata alla dazione o alla promessa indebita[38].

In altri termini, nell’abuso della qualità l’agente approfitta, abusando, della sua stessa condizione soggettiva, quale mezzo adoperato al fine di costringere o indurre[39].

In secondo luogo la nuova legge ha introdotto un trattamento sanzionatorio più severo, innalzando sia il limite edittale minimo.

La precedente disposizione infatti, prevedeva la pena della reclusione da quattro a dodici anni.

L’attuale articolo 317 del codice penale invece, prevede la pena, più consistente nel minimo edittale, della reclusione da sei a dodici anni.

L’inasprimento del trattamento sanzionatorio esprime la volontà del legislatore di perseguire in modo più efficace il reato di concussione, che costituisce il reato più grave contro la pubblica amministrazione, in considerazione del tipo di condotta perpetrata dall’agente e della pregnanza del bene giuridico tutelato dalla previsione della fattispecie incriminatrice, che si identifica con il buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa, di cui all’articolo 97 della Costituzione, nonché con la conservazione del prestigio e del decoro dell’amministrazione e dei funzionari pubblici.

L’aumento del quantum del minimo edittale invero, concerne la sola ipotesi di concussione per costrizione e non anche quella di concussione per induzione. Tale previsione legislativa risponde all’esigenza di assicurare “un’equa graduazione delle risposte sanzionatorie in relazione a situazioni oggettivamente diverse”[40].

In terzo luogo, occorre segnalare che nel nuovo articolo 317 del codice penale si rinviene il riferimento, quanto ai soggetti attivi del reato, al solo pubblico ufficiale e non anche all’incaricato di pubblico servizio.

L’esclusione di quest’ultimo dal novero dei soggetti attivi del reato di concussione si fonda sulla necessità di differenziare le posizioni dei due soggetti, considerata l’impossibilità da parte dell’incaricato di pubblico servizio di esercitare il metus publicae potestatis, che costituisce invece effetto dell’abuso di alte prerogative, tipico dell’esercizio delle proprie funzioni, da parte del pubblico ufficiale[41].

Non poche le critiche avanzate dalla dottrina a tal proposito, soprattutto in considerazione del fatto che la condotta dell’incaricato del pubblico servizio che dovesse integrare la fattispecie di concussione dovrebbe d’ora in poi essere sussunta sotto la fattispecie di estorsione aggravata dalla qualità di incaricato di pubblico servizio del soggetto agente, di cui al combinato disposto degli articoli 629 e 61, n. 9 del codice penale, con la conseguenza irragionevole di essere assoggettata ad una pena sensibilmente maggiore rispetto al caso in cui tale condotta sia perpetrata dal pubblico ufficiale[42].

Sotto tale profilo dunque, a parere di chi scrive, la norma si esporrebbe a censure di incostituzionalità per il contrasto con il combinato disposto degli articoli 3, 13, 25, comma secondo e 27, primo e terzo comma, della Costituzione.

La disparità di trattamento sanzionatorio infatti, sarebbe irragionevole e violerebbe in uno al principio di eguaglianza (articolo 3 Cost.), anche il principio di offensività in astratto (desumibile secondo alcuni dall’articolo 13 della Costituzione, secondo altri dall’articolo 25, comma secondo, Cost., inteso come parametro rivolto al legislatore al fine di prevedere la punizione per il “fatto commesso”, che offenda o ponga in pericolo cioè, un bene giuridico tutelato dall’ordinamento), di legalità della pena (non essendo la stessa commisurata al fatto commesso), di personalità della responsabilità penale (articolo 27, primo comma, Cost., quale responsabilità per fatto proprio e colpevole, e cioè, per un fatto che integri una condotta che esprima un atteggiamento di riprovevolezza nei confronti dell’ordinamento) ed il principio, di cui al terzo comma, dell’articolo 27 della Costituzione, della funzione rieducativa della pena.

Il soggetto, pubblico ufficiale, che ponga in essere la condotta integrante la fattispecie di concussione sarebbe punito per lo stesso fatto in modo più lieve rispetto all’incaricato di pubblico servizio.

Dal combinato disposto di tali principi si evince che la differente punizione prevista per il soggetto agente, incaricato di pubblico servizio, che con il medesimo coefficiente di riferibilità psicologica della condotta ponga in essere lo stesso fatto materiale ed offenda il medesimo bene giuridico tutelato dall’ordinamento (seppure perpetrando una condotta riconducibile a previsioni normative differenti) sarebbe irragionevole, e priverebbe la pena della funzione di rieducare il reo, attraverso un trattamento sanzionatorio che sia adeguato e commisurato alla condotta posta in essere dall’agente, posto che, a parità di condotte, il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio sarebbero sanzionati in modo differente e, quindi, la pena per il pubblico ufficiale non esplicherebbe quella funzione, propria della pena, al contempo sanzionatoria e repressiva, volta cioè, sia al passato, sia al futuro.

Quanto ai criteri che permettono di distinguere la costrizione dall’induzione, sono state prospettate due posizioni in dottrina ed in giurisprudenza.

All’impostazione ermeneutica che perviene alla distinzione delle condotte di costrizione e di induzione sulla base della diversa intensità dell’azione costrittiva, si contrappone l’orientamento secondo cui occorre riconsiderare la nozione di “costrizione”, la quale può assumere anche forme implicite e indirette. Stando alla seconda impostazione, costituirebbe costrizione la violenza morale che si sostanzi nella minaccia di un male ingiusto. Il criterio discretivo tra costrizione e induzione sarebbe, dunque, rappresentato dal carattere “giusto” o “ingiusto” della minaccia.

Il problema dell’identificazione dei criteri idonei a distinguere tra le condotte di induzione e di costrizione sarà oggetto di apposita trattazione.

In chiusura, occorre definire il problema successorio tra vecchia e nuova fattispecie di concussione per costrizione, al fine di determinare la disciplina applicabile.

Ai fatti costrittivi commessi dal pubblico ufficiale anteriormente alla riforma si applica il trattamento sanzionatorio previsto dalla vecchia disciplina, più tenue, della reclusione da quattro a dodici anni, essendo vietata la retroazione della legge in senso sfavorevole al reo, ai sensi dell’articolo 25, comma secondo, della Costituzione e dell’articolo 2, comma primo del codice penale.

Per quanto riguarda i fatti di concussione per costrizione commessi dall’incaricato di pubblico servizio, parte della dottrina[43] ritiene che con la riforma si è operata una vera e propria abolitio criminis, dal che deriva quale corollario l’applicazione del secondo comma, dell’articolo 2, del codice penale, con la retroazione della disciplina favorevole anche nel caso in cui sia sopravvenuto il giudicato.

§ 2. Induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater c.p.)

Un’altra novità, rilevante sotto diversi profili, è costituita dalla scissione delle due condotte di “costrizione” ed “induzione”, prima considerate alternative e disciplinate unicamente dalla disposizione dell’articolo 317 del codice penale.

Come precedentemente osservato infatti, la legge 190 del 2012 ha introdotto l’articolo 319-quater del codice penale, che contempla la fattispecie di induzione indebita a dare o promettere utilità.

La norma in questione sancisce che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni” (primo comma) e che “nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni”.

L’articolo 319-quater si apre con la clausola di salvaguardia (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”), il che è indice del carattere residuale[44] che riveste tale fattispecie rispetto alla concussione di cui all’articolo 317 del codice penale e rispetto alla contigua condotta di corruzione.

Dalla corruzione l’induzione indebita si distingue per l’abuso della qualità o dei poteri e dunque, per l’assenza del rapporto paritario tra pubblico funzionario e privato.

Nel reato di induzione indebita confluiscono invece, tutte le condotte poste in essere dal funzionario pubblico, abusando della qualità o dei poteri, che si connotano per l’assenza del carattere coercitivo.

La fattispecie di induzione indebita a dare o promettere utilità costituisce un reato a forma libera, non vincolato a forme tassative, in considerazione dell’atipicità delle condotte induttive, non tipizzate dal legislatore[45]; in essa rientra “ogni comportamento che sia comunque caratterizzato da un abuso dei poteri che valga ad esercitare una pressione psicologica sulla vittima”[46].

Il reato di induzione indebita dunque, pone molteplici profili di problematicità.

La questione centrale, la cui soluzione influenza gli altri profili disciplinatori si identifica con la delimitazione dei contorni della condotta di “induzione” rispetto a quella di “costrizione”.

Tale operazione, che in passato non richiedeva un particolare impegno esplicativo, oggi risulta determinante per una pluralità di ragioni, che saranno affrontate.

Dei criteri discretivi tra “costrizione” e “induzione”, così come individuati dall’opera interpretativa della giurisprudenza ci si occuperà più diffusamente in seguito.

In questa sede giova dare atto dei due orientamenti emersi a tal proposito, in precedenza enunciati.

Secondo una prima opzione interpretativa il criterio che consente di operare la distinzione tra i due tipi di condotta è costituito dalla diversa intensità della coartazione psicologica[47], e cioè dalla differente portata del metus esercitato sul privato.

In particolare, stando all’opinione riferita, si avrebbe concussione nel caso in cui per effetto della condotta del pubblico agente il privato non sia nelle condizioni di autodeterminarsi liberamente; si avrebbe induzione indebita invece, nel caso in cui la condotta del funzionario sia idonea a suggestionare, condizionare, persuadere, convincere il privato o esercitare su di esso una pressione psicologica e costituisca perciò una “blanda costrizione”[48]. Sicché nel secondo caso il privato conserverebbe una, seppur residua, libertà di autodeterminarsi[49].

A fronte di tale ricostruzione ermeneutica, un altro orientamento ritiene che al fine di individuare il discrimen tra “induzione” e “costrizione” occorra prendere le mosse dal differente criterio che si sostanzia nell’indagine sulla natura, giusta o ingiusta del male minacciato.

Il tratto comune delle condotte di costrizione ed induzione perseguite dalle due diverse disposizioni è costituito dall’abuso della qualità e dei poteri, la cui sussistenza segna il confine con la fattispecie di corruzione, nella quale i due soggetti paciscenti, pubblico e privato, si trovano in posizione di parità.

In secondo luogo si osserva che, in continuità con il testo previgente dell’articolo 317 del codice penale, i soggetti passivi del delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità sono il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio, contrariamente a quanto è invece previsto nella nuova formulazione del medesimo articolo sulla concussione.

In terzo luogo, è necessario assegnare il doveroso rilievo ad una delle innovazioni più significative della riforma, che è costituita dalla previsione della punibilità del privato indotto (per il quale è prevista la pena fino a tre anni di reclusione), sancita nel secondo comma dell’articolo 319-quater del codice penale.

La questione della punibilità del privato indotto tuttavia, non è nuova e fu discussa anche dai compilatori del codice Zanardelli. Nel progetto 17 maggio 1868 si legge che “la

Introduzione

La legge 6 novembre 2012, n. 190, recante "disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione", pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 265 del 13 novembre 2012 ed entrata in vigore il 28 novembre 2012, ha innovato la disciplina dei reati dei pubblici ufficiali nei confronti della pubblica amministrazione, con le disposizioni contenute nell'articolo 1, commi 75-83[1].

In particolare, al fine di segnalare le modifiche apportate alla disciplina dettata dal codice penale, occorre aver riguardo alle disposizioni contenute nell’articolo 1, comma 75 della suddetta legge.

La riforma, presentata come momento imprescindibile per il rilancio del Paese[2], poiché tesa ad implementare l’apparato preventivo e repressivo contro l’illegalità nella pubblica amministrazione[3], corrisponde all’esigenza di innovare un sistema normativo ritenuto da tempo inadeguato a contrastare fenomeni sempre più diffusi e insidiosi[4] ed è volta a ridurre la “forbice” tra la realtà effettiva e quella che emerge dall’esperienza giudiziaria[5].

Dal raffronto tra i dati giudiziari e quelli relativi alla percezione del fenomeno lato sensu corruttivo, forniti da Trasparency International e dalla Banca mondiale, infatti, si evince che sussiste un rapporto inversamente proporzionale tra corruzione “praticata” e corruzione “denunciata e sanzionata”, con la crescita esponenziale della prima e la forte riduzione della seconda[6].

Le motivazioni addotte a sostegno dell’esigenza di intervenire sull’assetto normativo dei reati contro la pubblica amministrazione sono essenzialmente due: da una parte si rileva l’inadeguatezza del sistema normativo vigente e dall’altra si valorizza la necessità di adeguare l’ordinamento interno agli impegni assunti a livello internazionale, con la ratifica di talune Convenzioni[7].

La legge 190 del 2012 costituisce una risposta, per vero secondo alcuni non del tutto soddisfacente[8], a tali esigenze.

Essa infatti, persegue un duplice obiettivo: in uno a quello di lanciare un messaggio chiaro al Paese, ridisegnando la strategia di contrasto alla corruzione in senso maggiormente repressivo, la legge risponde anche allo scopo di adeguare il nostro ordinamento agli obblighi assunti sul piano internazionale.

Tali obblighi invero, sono vincolanti sul piano interno, in virtù del richiamo contenuto nel primo comma dell’articolo 117 della Carta Costituzionale, che sancisce che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dagli “obblighi internazionali”.

In particolare, la legge sulla riforma della corruzione si ispira alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione del 31 ottobre 2003, cosiddetta “Convenzione di Merida”, ratificata con la legge 3 agosto 2009, n. 116 e soprattutto alla Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa del 27 gennaio 1999 (Convenzione di Strasburgo), ratificata dall'Italia con la legge 28 giugno 2012, n. 110, nonché al rapporto redatto dal GRECO, “Group of States against corruption”, istituito in seno al Consiglio di Europa, che ha adottato la raccomandazione con la quale l’organo ha invitato gli Stati membri ad adottare un regime sanzionatorio di misure efficaci, proporzionate e dissuasive contro la corruzione[9], che includano sanzioni privative contro la libertà.

L’Italia tuttavia, aveva già precedentemente dato attuazione, sebbene in parte, alla Convenzione penale sulla corruzione con la legge 300 del 2000.

Tra le Convenzioni internazionali che hanno in passato condizionato l’evoluzione della disciplina italiana sulla corruzione occorre inoltre segnalare la Convenzione dell’OCSE sulla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali e la decisione quadro dell’Unione Europea 2003/568/GAI.

Sulla scorta dell’adesione alla Convenzione di Merida è stata istituita la “CIVIT”, ossia l’Autorità nazionale anticorruzione[10].

Lo ratio sottesa alla nuova disciplina si identifica con la volontà di adottare strumenti volti a prevenire ed a reprimere con mezzi adeguati il fenomeno dilagante della corruzione e dell'illegalità nelle amministrazioni, in tutte le sue forme, comprese anche le condotte che si sostanziano nell’esercizio dell’influenza da parte del pubblico agente che faccia valere il proprio peso istituzionale.

Il comune denominatore che caratterizza la nuova disciplina infatti, in linea di continuità con le convenzioni internazionali richiamate, consiste in un generale inasprimento del trattamento sanzionatorio.

La riforma si muove essenzialmente attraverso tre linee direttrici.

In primo luogo occorre segnalare l’aspetto, minimale, consistente nel generale innalzamento del trattamento sanzionatorio previsto per alcune fattispecie di reato, al fine di potenziare l’efficacia dissuasiva.

Sono stati aumentati infatti, i minimi edittali del reato di peculato, di cui all’articolo 314 del codice penale, il cui minimo, prima previsto in tre anni di reclusione, è stato portato a quattro anni; allo stesso modo è stata aumentata la pena prevista per il reato di abuso di ufficio, di cui all’articolo 323 del codice penale, prima racchiusa da un minimo di sei mesi fino al massimo di tre anni, ora ricompresa tra uno e quattro anni di reclusione.

Ancora, è stato innalzato il minimo edittale previsto per le fattispecie di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio (corruzione propria), di cui all’articolo 319 del codice penale, portato alla pena da quattro ad otto anni di reclusione, a fronte della “vecchia” pena della reclusione da due a cinque anni ed è stata aumentata inoltre la pena prevista per il reato di corruzione in atti giudiziari, di cui all’articolo 319-ter del codice penale, la cui sanzione per il fatto previsto dal primo comma, prima racchiusa tra tre ed otto anni di reclusione, è ora ricompresa tra quattro e dieci anni, mentre, con riguardo all’ipotesi aggravata, di cui al secondo comma, il minimo edittale è stato elevato a cinque anni di reclusione, a fronte dei quattro anni precedentemente previsti.

Occorre segnalare quanto al primo aspetto, inoltre, l’aumento del minimo edittale, da tre a quattro anni di reclusione, previsto per il reato di concussione, di cui all’articolo 317 del codice penale.

Quanto al trattamento sanzionatorio inteso in senso lato, occorre infine rilevare che la legge 190 del 2012 ha posto rimedio alla dimenticanza nella quale era incorso il legislatore precedentemente, con la legge 300 del 2000, che ha introdotto, tra le altre, la norma di cui all’articolo 322-ter del codice penale, sulla confisca. Il legislatore del 2012 infatti, ha esteso la confisca per equivalente al “profitto”, oltre che al prezzo, anche sulla scorta delle sollecitazioni pervenute dalla giurisprudenza di legittimità[11].

Dall’aumento delle pene previste per le fattispecie di reato passate in rassegna consegue, quale principale corollario, il prolungamento del termine di prescrizione[12].

Una seconda linea direttrice si identifica con la “rimodulazione” di talune fattispecie.

Le disposizioni contenute nella legge 190 del 2012, in particolare, hanno modificato le fattispecie di concussione[13], che è stata fatta oggetto di uno “spacchettamento”[14], quanto alle due condotte precedentemente contemplate dall’articolo 317 del codice penale, che ora contiene il riferimento alla sola condotta della costrizione (e non anche a quella dell’induzione, oggetto di un’autonoma norma incriminatrice, l’articolo 319-quater del codice penale[15]) e la corruzione per il compimento di un atto di ufficio, di cui all’articolo 318 del codice penale, di cui sono stati mutati la rubrica (“Corruzione per l’esercizio della funzione”) ed il contenuto della norma[16].

Infine, una terza linea di intervento è costituita dall’introduzione del reato di “traffico di influenze illecite”, ai sensi del nuovo articolo 346-bis del codice penale[17].

Tale fattispecie è stata inserita allo scopo di adeguare l’ordinamento interno agli obblighi imposti dalle convenzioni internazionali[18].

Il delitto di traffico di influenze illecite segue topograficamente la fattispecie di millantato credito, dalla quale si distingue tuttavia, per l’effettiva esistenza delle relazioni con il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio.

Nella trattazione che segue si passeranno in rassegna le principali modifiche apportate soprattutto al capo I, del titolo II, del libro II del codice penale, sui reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, con i relativi problemi applicativi che la riformulazione delle fattispecie analizzate genera, ponendo le nuove disposizioni in confronto con la disciplina previgente e le relative applicazioni giurisprudenziali.

§ 1. Concussione (art. 317 c.p.)

Tra le principali novità apportate dalla legge 190/2012, occorre segnalare in apertura la modifica del reato di concussione.

Al fine di evidenziare le modifiche di maggior rilievo operate dal legislatore, giova richiamare la precedente formulazione della fattispecie di concussione, disciplinata dall’articolo 317 del codice penale.

La disposizione in questione statuiva che “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni”.

Il nuovo reato di concussione, disciplinato dall’articolo 317 del codice penale contiene la seguente disposizione: “il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei a dodici anni”.

Dal confronto con la precedente formulazione dell’articolo 317 del codice penale emergono con evidenza tre rilevanti modifiche.

In primo luogo, di assoluta importanza risulta essere la novità, apportata dalla legge 190 del 2012, consistente nella scissione della concussione “per costrizione” e della concussione “per induzione”. La riforma, infatti, ha posto in essere lo “spacchettamento”[19] tra le condotte originariamente previste nella disposizione contemplata dal codice.

La precedente formulazione poneva le due condotte in relazione di alternatività tra loro, sicché la loro esatta individuazione e perimetrazione non poneva grossi problemi interpretativi, integrando entrambe la medesima fattispecie di reato ed essendo le stesse soggette alla medesima pena della reclusione da quattro a dodici anni.

Come evidenziato infatti, il previgente articolo 317 del codice penale puniva alternativamente la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, “costringe o induce” taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità.

L’attuale articolo 317 del codice penale contempla invece, la sola ipotesi di concussione “per costrizione”, ad esclusione di quella “per induzione”, prevista dal nuovo articolo 319-quater del codice penale, introdotto dalla legge 190/2012, rubricato “induzione indebita a dare o promettere utilità”.

La riformulazione operata dal legislatore appare, stando ad una parte della dottrina, un ritorno al passato, piuttosto risalente, in quanto un’analoga differenziazione era contenuta nel codice Zanardelli del 1889, agli articoli 169[20] e 170[21], che prevedeva in due disposizioni distinte le fattispecie di concussione “per costrizione” e di quella “per induzione”.

Tale dicotomia invero, era stata ripresa dal codice toscano del 1853, che conteneva la disciplina delle due distinte fattispecie agli articoli 181[22] e 182[23].

La ragione della previsione di due forme distinte di concussione è rappresentata dalla differente gravità, maggiore per la costrizione e minore per l’induzione, delle condotte contemplate dalle due norme[24], come si evince dalla Relazione al codice Zanardelli[25].

In essa invero si evidenziava che l’induzione evocava l’idea dell’inganno e dunque essa si verifica quando “il pubblico ufficiale, invece di minacciare a viso aperto, adopera, abusando della sua qualità, artifizii od inganni per indurre taluno a somministrare, pagare o promettere indebitamente…”[26].

Sulla definizione di “induzione” sembra convenire anche la Relazione del codice Rocco del 1930, nella quale si legge che “la induzione deve per necessità consistere nel trarre taluno in inganno circa l’obbligo, ch’egli abbia, di dare o promettere, o nel condizionare la prestazione della propria attività a una indebita remunerazione”[27].

La diversa gravità delle due condotte di costrizione e di induzione è stata contestata tuttavia, dagli autori del dell’attuale codice penale; nella Relazione ministeriale al progetto definitivo dell’attuale codice infatti, si legge che “nel fatto criminoso della concussione l’indurre ha una gravità non minore del costringere…In ogni caso, la volontà dell’offeso cede all’uso di mezzi, che intrinsecamente sono non meno efficaci e odiosi d’una costrizione morale”[28].

L’opinione secondo cui lo scorporamento delle due fattispecie costituirebbe un ritorno al codice Zanardelli risulta essere tradita dalla previsione della punibilità per il privato che dà o promette indebitamente denaro o altra utilità, ai sensi del secondo comma dell’articolo 319-quater.

Tale disposizione invero, sarebbe in palese conflitto con l’idea di frode sottesa all’induzione contemplata dal codice Zanardelli, alla stregua del quale l’induzione postulava l’inganno del privato. Altrimenti opinando invero, il soggetto indotto sarebbe senz’altro vittima dell’inganno ed occorrerebbe concludere nel senso dell’impossibilità di assoggettarlo a punizione.

Una diversa lettura, più diffusa in dottrina ed in giurisprudenza prima della riforma del 2012, identificava invece l’induzione in una forma di costrizione attenuata, non brutale, non dichiarata, che si fonda sull’intralcio, sull’ostacolo cavilloso, sull’irretire il privato in un reticolo di ragionamenti non apertamente o dichiaratamente costrittivi, ma orientati a far sì che il privato si decidesse a dare o a promettere l’indebito[29].

Il Legislatore con la previsione della nuova disciplina sembra aver mostrato adesione a tale accezione, posto che una lettura dell’induzione quale inganno porrebbe la norma di cui all’articolo 319-quater in contrasto con i principi fondamentali in materia di personalità della responsabilità penale, espressi dagli articoli 47 e 48 del codice penale e, più in generale, dall’articolo 27, primo comma, della Costituzione[30].

Com’è noto, infatti, la Corte Costituzionale, nella sentenza 364 del 1988 (e nelle successive sentenze 1085/1988 e 322/2007) ha interpretato il primo comma dell’articolo 27 della Costituzione in combinato disposto con il terzo comma dello stesso articolo, come norma che fonda la responsabilità del reo per fatto proprio, colpevole.

Sicché, perché una qualsivoglia condotta di reato possa essere imputata all’agente non è ancora sufficiente che il fatto sia “proprio” del reo, in virtù della sussistenza soltanto del nesso di causalità materiale tra la condotta e l’evento, ma occorre altresì che tale condotta sia anche psicologicamente riferibile al reo e cioè, è necessario che sussista “almeno la colpa”, quale requisito subiettivo minimo di imputabilità, in relazione agli elementi più significativi della fattispecie, posto che solo la condotta colpevole (anche qualora fosse meramente indicativa di un atteggiamento di indifferenza nei confronti dell’ordinamento e non fosse sorretta dalla piena coscienza e volontà, e cioè, “dolosa”) sarebbe riprovevole e, come tale, meritevole di sanzione. Tale colpa sarebbe esclusa dall’interpretazione dell’induzione quale condotta fraudolenta, volta ad ingannare e a far cadere in errore il soggetto indotto.

Delle elaborazioni giurisprudenziali sul tema del discrimen tra “costrizione” e “induzione” ci si occuperà più diffusamente nel prosieguo della trattazione.

L’aspetto comune delle due condotte è rappresentato dall’abuso della qualità e dei poteri, che identifica il nucleo portante[31] delle fattispecie lato sensu concussive, che segna la linea di confine, per vero talvolta piuttosto labile, con la corruzione[32] (alla quale la fattispecie di induzione è in parte contigua).

Quanto al discrimine tra le fattispecie di corruzione e concussione (per costrizione e per induzione), sono state prospettate diverse impostazioni.

Una prima impostazione ritiene che sia necessario indagare sull’origine del rapporto e dunque, sulla “paternità dell’iniziativa”[33]; occorre stabilire cioè, se l’iniziativa venga presa dal funzionario pubblico o dal privato. Solo nel caso in cui l’iniziativa viene presa dal funzionario pubblico è ravvisabile la fattispecie di concussione. Tale impostazione è stata superata, in quanto non idonea a fornire un valido criterio per distinguere le fattispecie di reato in questione, considerato che nella realtà spesso l’iniziativa corruttiva proviene dal funzionario pubblico.

Una seconda tesi, più diffusa, ravvisa nel differente clima psicologico[34] il carattere discretivo. La corruzione sarebbe dunque caratterizzata dalla sostanziale parità tra le parti (par condicio) dell’accordo corruttivo, cosiddetto pactum sceleris. Nella concussione invece, la volontà del privato non sarebbe libera, ma coartata dal funzionario pubblico.

L’elemento che caratterizza la concussione si identifica, stando a tale impostazione, nel metus publicae potestatis e cioè nel timore e nello stato di soggezione che il pubblico funzionario genera nel privato con la sua volontà prevaricatrice, determinando una coazione assoluta.

Un terzo orientamento, emerso soprattutto in giurisprudenza, ha ritenuto di valorizzare la finalità perseguita dal privato con la dazione o la promessa del denaro o dell’utilità.

Sicché, se il privato dia o prometta denaro o altra utilità al fine di conseguire un vantaggio indebito (certat de lucro captando) sarebbe integrata la fattispecie della corruzione; allorché invece, il privato si determini a promettere o a dare denaro o altra utilità al solo fine di evitare un danno ingiusto (certat de damno vitando) vi sarebbe concussione.

Le diverse impostazioni emerse al fine di discernere tra le fattispecie di corruzione e concussione sono state riproposte in funzione del diverso scopo, di individuare il discrimen sussistente tra le condotte di “costrizione” e di “induzione”, di cui si tratterà in modo più specifico nel prosieguo.

Le difficoltà generate dalla distinzione tra concussione e corruzione hanno condotto parte della dottrina ad auspicare una fusione delle due fattispecie, prevista nel “progetto Cernobbio”[35], che stabiliva norme premiali a favore del soggetto che collaborasse, sulla scia delle statuizioni contenute nelle Convenzioni internazionali, in cui non viene contemplata la concussione, che costituisce una fattispecie tutta italiana e dunque, un “unicum” nel panorama europeo.

In materia di concussione infatti, le fonti internazionali pattizie sono completamente “mute”[36].

Le istituzioni internazionali, tra cui l’OCSE e il GRECO da tempo esprimono preoccupazioni in ordine al pericolo che, “attraverso un uso generico del delitto di concussione da parte della magistratura italiana (inquirente e giudicante), il privato che ha effettuato un’indebita dazione di denaro o altra utilità sfugga alla punizione, allegando di essere stato “indotto” al pagamento o alla promessa da condotte abusive del pubblico funzionario”[37].

Il fulcro della concussione e dell’induzione indebita a dare o a promettere utilità è rappresentato dalla clausola di illiceità speciale dell’abuso della qualità o dei poteri.

Vi è abuso di qualità quando l’agente per costringere o indurre il destinatario strumentalizza la propria qualifica soggettiva, utilizzata al fine di determinare una condizione di assoggettamento psicologico assoluto (nella costrizione) o di condizionamento (nell’induzione) correlata alla dazione o alla promessa indebita[38].

In altri termini, nell’abuso della qualità l’agente approfitta, abusando, della sua stessa condizione soggettiva, quale mezzo adoperato al fine di costringere o indurre[39].

In secondo luogo la nuova legge ha introdotto un trattamento sanzionatorio più severo, innalzando sia il limite edittale minimo.

La precedente disposizione infatti, prevedeva la pena della reclusione da quattro a dodici anni.

L’attuale articolo 317 del codice penale invece, prevede la pena, più consistente nel minimo edittale, della reclusione da sei a dodici anni.

L’inasprimento del trattamento sanzionatorio esprime la volontà del legislatore di perseguire in modo più efficace il reato di concussione, che costituisce il reato più grave contro la pubblica amministrazione, in considerazione del tipo di condotta perpetrata dall’agente e della pregnanza del bene giuridico tutelato dalla previsione della fattispecie incriminatrice, che si identifica con il buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa, di cui all’articolo 97 della Costituzione, nonché con la conservazione del prestigio e del decoro dell’amministrazione e dei funzionari pubblici.

L’aumento del quantum del minimo edittale invero, concerne la sola ipotesi di concussione per costrizione e non anche quella di concussione per induzione. Tale previsione legislativa risponde all’esigenza di assicurare “un’equa graduazione delle risposte sanzionatorie in relazione a situazioni oggettivamente diverse”[40].

In terzo luogo, occorre segnalare che nel nuovo articolo 317 del codice penale si rinviene il riferimento, quanto ai soggetti attivi del reato, al solo pubblico ufficiale e non anche all’incaricato di pubblico servizio.

L’esclusione di quest’ultimo dal novero dei soggetti attivi del reato di concussione si fonda sulla necessità di differenziare le posizioni dei due soggetti, considerata l’impossibilità da parte dell’incaricato di pubblico servizio di esercitare il metus publicae potestatis, che costituisce invece effetto dell’abuso di alte prerogative, tipico dell’esercizio delle proprie funzioni, da parte del pubblico ufficiale[41].

Non poche le critiche avanzate dalla dottrina a tal proposito, soprattutto in considerazione del fatto che la condotta dell’incaricato del pubblico servizio che dovesse integrare la fattispecie di concussione dovrebbe d’ora in poi essere sussunta sotto la fattispecie di estorsione aggravata dalla qualità di incaricato di pubblico servizio del soggetto agente, di cui al combinato disposto degli articoli 629 e 61, n. 9 del codice penale, con la conseguenza irragionevole di essere assoggettata ad una pena sensibilmente maggiore rispetto al caso in cui tale condotta sia perpetrata dal pubblico ufficiale[42].

Sotto tale profilo dunque, a parere di chi scrive, la norma si esporrebbe a censure di incostituzionalità per il contrasto con il combinato disposto degli articoli 3, 13, 25, comma secondo e 27, primo e terzo comma, della Costituzione.

La disparità di trattamento sanzionatorio infatti, sarebbe irragionevole e violerebbe in uno al principio di eguaglianza (articolo 3 Cost.), anche il principio di offensività in astratto (desumibile secondo alcuni dall’articolo 13 della Costituzione, secondo altri dall’articolo 25, comma secondo, Cost., inteso come parametro rivolto al legislatore al fine di prevedere la punizione per il “fatto commesso”, che offenda o ponga in pericolo cioè, un bene giuridico tutelato dall’ordinamento), di legalità della pena (non essendo la stessa commisurata al fatto commesso), di personalità della responsabilità penale (articolo 27, primo comma, Cost., quale responsabilità per fatto proprio e colpevole, e cioè, per un fatto che integri una condotta che esprima un atteggiamento di riprovevolezza nei confronti dell’ordinamento) ed il principio, di cui al terzo comma, dell’articolo 27 della Costituzione, della funzione rieducativa della pena.

Il soggetto, pubblico ufficiale, che ponga in essere la condotta integrante la fattispecie di concussione sarebbe punito per lo stesso fatto in modo più lieve rispetto all’incaricato di pubblico servizio.

Dal combinato disposto di tali principi si evince che la differente punizione prevista per il soggetto agente, incaricato di pubblico servizio, che con il medesimo coefficiente di riferibilità psicologica della condotta ponga in essere lo stesso fatto materiale ed offenda il medesimo bene giuridico tutelato dall’ordinamento (seppure perpetrando una condotta riconducibile a previsioni normative differenti) sarebbe irragionevole, e priverebbe la pena della funzione di rieducare il reo, attraverso un trattamento sanzionatorio che sia adeguato e commisurato alla condotta posta in essere dall’agente, posto che, a parità di condotte, il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio sarebbero sanzionati in modo differente e, quindi, la pena per il pubblico ufficiale non esplicherebbe quella funzione, propria della pena, al contempo sanzionatoria e repressiva, volta cioè, sia al passato, sia al futuro.

Quanto ai criteri che permettono di distinguere la costrizione dall’induzione, sono state prospettate due posizioni in dottrina ed in giurisprudenza.

All’impostazione ermeneutica che perviene alla distinzione delle condotte di costrizione e di induzione sulla base della diversa intensità dell’azione costrittiva, si contrappone l’orientamento secondo cui occorre riconsiderare la nozione di “costrizione”, la quale può assumere anche forme implicite e indirette. Stando alla seconda impostazione, costituirebbe costrizione la violenza morale che si sostanzi nella minaccia di un male ingiusto. Il criterio discretivo tra costrizione e induzione sarebbe, dunque, rappresentato dal carattere “giusto” o “ingiusto” della minaccia.

Il problema dell’identificazione dei criteri idonei a distinguere tra le condotte di induzione e di costrizione sarà oggetto di apposita trattazione.

In chiusura, occorre definire il problema successorio tra vecchia e nuova fattispecie di concussione per costrizione, al fine di determinare la disciplina applicabile.

Ai fatti costrittivi commessi dal pubblico ufficiale anteriormente alla riforma si applica il trattamento sanzionatorio previsto dalla vecchia disciplina, più tenue, della reclusione da quattro a dodici anni, essendo vietata la retroazione della legge in senso sfavorevole al reo, ai sensi dell’articolo 25, comma secondo, della Costituzione e dell’articolo 2, comma primo del codice penale.

Per quanto riguarda i fatti di concussione per costrizione commessi dall’incaricato di pubblico servizio, parte della dottrina[43] ritiene che con la riforma si è operata una vera e propria abolitio criminis, dal che deriva quale corollario l’applicazione del secondo comma, dell’articolo 2, del codice penale, con la retroazione della disciplina favorevole anche nel caso in cui sia sopravvenuto il giudicato.

§ 2. Induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater c.p.)

Un’altra novità, rilevante sotto diversi profili, è costituita dalla scissione delle due condotte di “costrizione” ed “induzione”, prima considerate alternative e disciplinate unicamente dalla disposizione dell’articolo 317 del codice penale.

Come precedentemente osservato infatti, la legge 190 del 2012 ha introdotto l’articolo 319-quater del codice penale, che contempla la fattispecie di induzione indebita a dare o promettere utilità.

La norma in questione sancisce che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni” (primo comma) e che “nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni”.

L’articolo 319-quater si apre con la clausola di salvaguardia (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”), il che è indice del carattere residuale[44] che riveste tale fattispecie rispetto alla concussione di cui all’articolo 317 del codice penale e rispetto alla contigua condotta di corruzione.

Dalla corruzione l’induzione indebita si distingue per l’abuso della qualità o dei poteri e dunque, per l’assenza del rapporto paritario tra pubblico funzionario e privato.

Nel reato di induzione indebita confluiscono invece, tutte le condotte poste in essere dal funzionario pubblico, abusando della qualità o dei poteri, che si connotano per l’assenza del carattere coercitivo.

La fattispecie di induzione indebita a dare o promettere utilità costituisce un reato a forma libera, non vincolato a forme tassative, in considerazione dell’atipicità delle condotte induttive, non tipizzate dal legislatore[45]; in essa rientra “ogni comportamento che sia comunque caratterizzato da un abuso dei poteri che valga ad esercitare una pressione psicologica sulla vittima”[46].

Il reato di induzione indebita dunque, pone molteplici profili di problematicità.

La questione centrale, la cui soluzione influenza gli altri profili disciplinatori si identifica con la delimitazione dei contorni della condotta di “induzione” rispetto a quella di “costrizione”.

Tale operazione, che in passato non richiedeva un particolare impegno esplicativo, oggi risulta determinante per una pluralità di ragioni, che saranno affrontate.

Dei criteri discretivi tra “costrizione” e “induzione”, così come individuati dall’opera interpretativa della giurisprudenza ci si occuperà più diffusamente in seguito.

In questa sede giova dare atto dei due orientamenti emersi a tal proposito, in precedenza enunciati.

Secondo una prima opzione interpretativa il criterio che consente di operare la distinzione tra i due tipi di condotta è costituito dalla diversa intensità della coartazione psicologica[47], e cioè dalla differente portata del metus esercitato sul privato.

In particolare, stando all’opinione riferita, si avrebbe concussione nel caso in cui per effetto della condotta del pubblico agente il privato non sia nelle condizioni di autodeterminarsi liberamente; si avrebbe induzione indebita invece, nel caso in cui la condotta del funzionario sia idonea a suggestionare, condizionare, persuadere, convincere il privato o esercitare su di esso una pressione psicologica e costituisca perciò una “blanda costrizione”[48]. Sicché nel secondo caso il privato conserverebbe una, seppur residua, libertà di autodeterminarsi[49].

A fronte di tale ricostruzione ermeneutica, un altro orientamento ritiene che al fine di individuare il discrimen tra “induzione” e “costrizione” occorra prendere le mosse dal differente criterio che si sostanzia nell’indagine sulla natura, giusta o ingiusta del male minacciato.

Il tratto comune delle condotte di costrizione ed induzione perseguite dalle due diverse disposizioni è costituito dall’abuso della qualità e dei poteri, la cui sussistenza segna il confine con la fattispecie di corruzione, nella quale i due soggetti paciscenti, pubblico e privato, si trovano in posizione di parità.

In secondo luogo si osserva che, in continuità con il testo previgente dell’articolo 317 del codice penale, i soggetti passivi del delitto di induzione indebita a dare o promettere utilità sono il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio, contrariamente a quanto è invece previsto nella nuova formulazione del medesimo articolo sulla concussione.

In terzo luogo, è necessario assegnare il doveroso rilievo ad una delle innovazioni più significative della riforma, che è costituita dalla previsione della punibilità del privato indotto (per il quale è prevista la pena fino a tre anni di reclusione), sancita nel secondo comma dell’articolo 319-quater del codice penale.

La questione della punibilità del privato indotto tuttavia, non è nuova e fu discussa anche dai compilatori del codice Zanardelli. Nel progetto 17 maggio 1868 si legge che “la