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“Lei non sa chi sono io”: giudice condannato per concussione

Lei non sa chi sono io
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“LEI NON SA CHI SONO IO”: GIUDICE CONDANNATO PER CONCUSSIONE


La Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, con sentenza n. 21770 dell’08 febbraio 2022 condannava un Giudice del Tribunale di Milano ritenendolo responsabile del reato di concussione – ai sensi dell’art. 317 cod. pen.- assolvendolo invece dal reato di abuso d’ufficio.


“LEI NON SA CHI SONO IO”: I FATTI

Un Giudice veniva tratto a giudizio dinanzi al Tribunale di Brescia per rispondere – in concorso con la moglie- dei delitti di cui agli artt. 61 n.9, 81 comma 2, 110, 317 336, 368, 628 comma 3 n. 1 e 629 comma 2 del cod. pen. per aver abusato della qualifica e delle funzioni di giudice che espletava presso il Tribunale di Milano al fine di minacciare ed indurre un condomino ad interrompere i lavori di ristrutturazione dell’attività commerciale che lo stesso avrebbe voluto intraprendere.

Ma vi è di più.

Il Giudice si rendeva responsabile di plurime condotte intimidatorie anche avverso i dipendenti degli uffici della PA preposti al controllo delle pratiche intraprese dal nemico condomino.

Non essendo poi riuscito nel suo scopo al primo colpo, perché un impiegato non si era lasciato impressionare né dal tono né dal ruolo, era andato dalla dirigente centrando l’obiettivo, prospettando alla donna la possibilità di ottenere il sequestro dei fascicoli che gli interessavano a seguito di una tanto celebre quanto comica “sfuriata” conclusasi con la frase “lei non sa chi sono io, se voglio il fascicolo lo visiono lo stesso, lo faccio sequestrare e me lo porto in Tribunale”.

Ebbene, proprio grazie a tale asserzione il Giudice è presto finito nelle maglie della giustizia in una del tutto inedita posizione: quella dell’imputato.

In effetti, proprio in virtù della carica ricoperta, si era creato una sorta di “immunità de facto” dalle procedure che, invece, proprio lui avrebbe fatto bene a seguire.


“LEI NON SA CHI SONO IO”: LA CONDANNA DEL GIUDICE

Emerge con lapalissiana evidenza, dalla lettura della sentenza della Suprema Corte, come il giudice-imputato sia riuscito con estrema facilità ad ottenere visure della pratica inerente la Dia presentata dal nemico condomino senza alcuna rituale richiesta di accesso agli atti.

Lo stesso, infatti, si rendeva responsabile di un abuso costrittivo a danno del pubblico agente attraverso minacce – neppure tanto velate- di un danno contra ius da cui sarebbe derivata una limitazione ingente della libertà di determinazione del destinatario che veniva posto, senza alcun vantaggio per sé, di fronte all’alternativa di subire un danno od evitarlo con la dazione o la promessa di una indebita utilità (SS. UU. 12228 del 24.10.2013).

A tal proposito, occorre sottolineare il commento che lo stesso Giudice in una riunione della Camera di Commercio meneghina faceva di un Avvocato che seguiva la pratica del nemico-condomino, asserendo a chiare lettere dubbi sulla possibilità che il predetto legale potesse ancora, per l’anno successivo, espletare quell’attività lavorativa.

Insomma, il caro Giudice che dovrebbe essere arbitro della legalità per eccellenza, era – di fatto- pronto a tutto per ottenere il suo scopo: cacciare il nemico dal proprio condominio!

Millantando, addirittura, sequestri delle pratiche in essere!

Orbene, emerge con allarmante evidenza la responsabilità del Giudice de quo; atteso che l’induzione indebita a dare o promettere utilità può essere alternativamente esercitata dal pubblico agente mediante l’abuso di poteri, consistente nella prospettazione dell’esercizio delle proprie potestà funzionali per scopi diversi da quelli leciti, ovvero con l’abuso della qualità, consistente nella strumentalizzazione della posizione rivestita all’interno della pubblica amministrazione, anche indipendentemente dalla sfera di competenza specifica (Cass., Sez VI, sent. 7971\ 2020) e, nel caso di specie, la descrizione in sentenza delle modalità e del contesto dell’azione del ricorrente rende evidente l’abuso della qualità da parte del pubblico ufficiale, consistente in una strumentalizzazione della sua posizione di preminenza sul destinatario, posta in essere indipendentemente dalle sue specifiche competenze (Cass., Sez. VI, sent. n. 10604/2014).

Ad avvalorare tale posizione, infatti, interviene il comportamento della dirigente di un ufficio che – proprio a seguito dello sproloquio del Giudice – tratta come urgentissima una richiesta dello stesso tanto da fargli ottenere, già il giorno seguente, la possibilità di consultare la pratica; quando – invece- chiunque avrebbe potuto farlo non prima di sessanta giorni dalla richiesta.

Pertanto, l’atteggiamento del Giudice è da considerarsi – prima di tutto- contra ius, con particolare riferimento alla posizione ricoperta, poiché lo stesso violava ictu oculi un dovere di correttezza che avrebbe avuto l’obbligo di osservare ed in secondo luogo, censurabile penalmente, in quanto si rendeva responsabile di un reato contro la PA al di là di ogni ragionevole dubbio.

Ora, però, le incertezze sul lavoro riguardano la toga, sospesa intanto dai pubblici uffici per la durata della pena.

Poi ci sarà un nuovo procedimento disciplinare che dovrà tenere conto della condanna definitiva.