x

x

Rapporto di causalità e contagio da HIV

colori su piastrelle
colori su piastrelle

Ogni fattispecie criminosa volta a punire la causazione di un evento naturalistico annovera tra i propri elementi costitutivi il nesso di causalità tra la condotta e l’evento. Se così non fosse si correrebbe il rischio che taluno risponda penalmente per fatti riferibili ad altre cause.

Vi sono dei casi in cui l’accertamento del nesso di causalità non è affatto agevole, tra questi rientrano sicuramente le ipotesi attinenti alle infezioni da HIV.

 

Il rapporto di causalità

Il rapporto di causalità costituisce elemento essenziale del fatto tipico di tutti i reati contrassegnati dalla presenza di un evento naturalistico (“reati di evento”). L’art. 40.1 c.p. dispone infatti che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”. Tale norma comporta che il giudice, nel processo penale, debba accertare l’esistenza del rapporto di causalità tra condotta ed evento.

Il metodo conoscitivo tradizionale con il quale si procede all’accertamento della natura condizionante dei fattori causali consiste nel processo di eliminazione del singolo fattore al fine di verificare il suo carattere di condicio sine qua non. Secondo tale procedimento logico, una condotta è causa di un evento se eliminando mentalmente la condotta viene meno anche l’evento (c.d. giudizio controfattuale: nel senso che l’eliminazione della condizione è solo ipotetica ed è contro la realtà del fatto già accaduto).

Tuttavia, affinché il giudizio controfattuale pervenga a risultati ragionevoli è necessario che vengano utilizzate dal giudice leggi scientifiche di copertura, in grado di fornire una spiegazione causale dei fenomeni naturali.

D’altronde, con l’evoluzione tecnologica si è verificato un mutamento della tipologia dei casi in relazione ai quali il giudice è chiamato ad accertare l’esistenza del rapporto di causalità (si pensi al tema del rischio ambientale o all’attività medico-chirurgica). Prendendo ad esempio il caso in cui Tizio abbia inferto una pugnalata al cuore di Caio poi morto, sembra chiaro come eliminando la coltellata l’evento morte verrebbe meno. Diverso, è il caso in cui un medico abbia omesso di prescrivere un esame clinico ed il paziente muoia per una sindrome non diagnosticata. Nell’ultimo esempio non vi è la certezza che eliminando l’omissione del medico l’evento morte sarebbe venuto meno. Casi come questo hanno reso i giudici consapevoli della necessità che il procedimento logico di eliminazione mentale debba essere sorretto dall’uso di leggi scientifiche.

Le leggi scientifiche di spiegazione causale dei fenomeni naturali possono essere di due tipi: universali o probabilistiche. Le prime ricollegano un certo evento ad un determinato antecedente in termini di certezza, non essendo finora quella successione mai stata smentita (si pensi alle leggi della fisica). Le seconde, hanno un grado di certezza minore e possono servire ad accertare un fatto quando si può escludere ogni ricostruzione alternativa del medesimo. Alle leggi probabilistiche si aggiungono le c.d. “massime di esperienza”, che si limitano a instaurare una relazione causale tra due fatti sulla base della semplice constatazione empirica di una loro tendenziale successione; senza però essere capaci di spiegare scientificamente i fenomeni.

Il punto di svolta nel corretto utilizzo delle leggi scientifiche nell’accertamento del nesso di causalità è rappresentato dalla sentenza Franzese (Cass. sez. un. 30328/2002). Le Sezioni unite della Cassazione hanno infatti chiarito come il livello di probabilità statistica di una legge scientifica deve sempre essere oggetto di specifica valutazione in riferimento alle circostanze del singolo caso concreto e sulla base delle risultanze probatorie. Partendo dall’assunto che il rapporto di causalità è elemento oggettivo del reato, e che non è possibile condannare se l’esistenza del fatto e la responsabilità dell’autore non risultano provate oltre ogni ragionevole dubbio, occorre, secondo il Supremo collegio, che anche in relazione alla sussistenza del nesso di causalità sia eliminato ogni dubbio ragionevole.

Il modello prospettato dalle Sezioni Unite è stato definito come un “modello bifasico di accertamento della causalità”. Nella prima fase si ricerca in astratto la legge scientifica applicabile al caso, valutando tutte le possibili leggi applicabili ed i decorsi causali ipotizzabili. Occorre poi effettuare un tentativo di smentita sulla validità della legge in astratto. A questo punto il giudice non deve decidere in base alla percentuale di validità statistica della legge considerata in astratto; ma deve (nella seconda fase) controllare innanzitutto se quel fenomeno verificatosi in concreto può essere spiegato alla luce di quella legge. Occorre, inoltre, poter escludere qualsiasi fattore causale diverso o alternativo rispetto a quello ipotizzato, nonché effettuare un tentativo di smentita sulla validità della legge in concreto, e cioè, mediante prove, escludere che abbiano operato fattori causali alternativi.

In conclusione, il giudice deve ritenere provato oltre ogni ragionevole dubbio che nel singolo caso concreto, sottoposto alla sua attenzione, esiste un rapporto di causalità tra condotta ed evento, effettuando un giudizio di alta probabilità logica, formulata cioè in relazione alle caratteristiche del caso concreto. Vi potranno perciò essere casi in cui nonostante siano applicabili in astratto leggi scientifiche con probabilità altissima, per via delle caratteristiche del caso concreto, vi sia un ragionevole dubbio che le stesse non abbiano operato e siano intervenuti fattori causali alternativi. Al contrario, vi potranno essere dei casi in cui il giudice ritenga esistente il nesso di causalità sulla base di una forte probabilità logica anche quando sia stata applicata una legge scientifica a bassa probabilità, se nel caso concreto, oltre ogni ragionevole dubbio, appare provato il nesso di causalità.

 

Rapporto di causalità e infezione da HIV

Quanto alla prova della responsabilità della persona che abbia nascosto al proprio partner di essere infetto da HIV, ove quest’ultimo risulti aver contratto tale infezione, occorre calare nel processo, nel dibattimento, l’accertamento del nesso causale.

Invero, in base alle leggi scientifiche vi è una bassa probabilità che l’infezione da HIV si trasmetta a seguito di un singolo rapporto sessuale (si parla dello 0,1 – 0,2 % di probabilità).

Tuttavia, ciò non vuol dire che non sarà mai possibile provare oltre ogni ragionevole dubbio il nesso di causalità tra una condotta ed il contagio. Infatti, la scienza permette di individuare con precisione l’arco temporale nel quale il contagio si è verificato; mentre, attraverso il processo penale sarà possibile verificare se nel periodo di riferimento vi sono stati altri possibili fattori di trasmissione del virus (es. tossicodipendenza, emotrasfusioni, altri partner a rischio).

Ove in concreto si riesca ad effettuare la prova per esclusione, è possibile pervenire all’affermazione della sussistenza del rapporto di causalità tra la condotta e l’evento e quindi della responsabilità penale. Il rapporto di causalità deve, cioè, essere provato non in termini di certezza assoluta, ma di certezza processuale, da ricercarsi in un alto grado di provabilità logica.

In particolare, nella Sentenza 26 marzo 2009, n. 13388, la Suprema Corte ha confermato la condanna per lesioni personali gravissime nei confronti di un soggetto sieropositivo che aveva trasmesso l’infezione da virus HIV ad un partner occasionale attraverso un solo rapporto protetto. La circostanza che statisticamente la possibilità di essere contagiati a seguito di un unico incontro non protetto è decisamente bassa non consente, infatti, di affermare aprioristicamente l’inesistenza del nesso di causalità tra condotta ed evento nei casi in cui il contagio si verifica. Nella valutazione del giudice deve prevalere il giudizio controfattuale. 

Quanto al reato prospettabile, come chiarito a più riprese dalla giurisprudenza (si veda, ad esempio, Cassazione penale sez. V, 25/10/2012, n. 8351), integra la malattia di cui all’art. 582 e 583 c.p. l’instaurazione nell’organismo di un meccanismo degenerativo, che, se non fronteggiato tempestivamente e costantemente con l’assunzione di terapia farmacologica, conduce ad ulteriori alterazioni e alla fase conclamata di AIDS. Pertanto, il reato addebitabile nel caso di contagio è quello di “lesioni personali gravissime”, derivando dal fatto una malattia certamente o probabilmente insanabile.

Circa l’elemento soggettivo, le ipotesi in cui si configura il dolo intenzionale – ad esempio, Tizio decide di contagiare il partner per sadismo, per odio verso l’umanità, per desiderio di vendetta – sono piuttosto rare. Si tratta, nella grande maggioranza delle ipotesi, di comprendere il confine tra colpa cosciente e dolo eventuale. Sintetizzando, sussisterà il dolo eventuale e non la colpa cosciente qualora l’agente non solo si sia rappresentato il concreto rischio del verificarsi dell’evento ma lo abbia anche accettato, nel senso che si sia determinato ad agire anche a costo di cagionarlo; omettendo di comunicare la propria condizione di salute ed omettendo di utilizzare le dovute precauzioni nonostante una certa frequenza dei contatti.

Recente è la decisione (Cass. sez. I, 30 ottobre 2019, n. 48014) relativa al caso di un giovane uomo accusato di aver infettato con HIV alcune decide di persone con le quali aveva avuto rapporti sessuali non protetti, pur essendo consapevole della propria sieropositività. La Corte ha ribadito come l’accertamento dell’efficacia causale della condotta dell’imputato rispetto ai singoli episodi di infezione si debba articolare in tre componenti: l’esistenza di rapporti sessuali; l’identità del virus contratto dalle parti del rapporto; la direzionalità del contagio. Chiaramente, in presenza delle prime due componenti, più facilmente accertabili, non è automatica la conclusione che a trasmettere il virus al partner sia stato l’imputato. L’assenza di certezza scientifica dovrà perciò essere sopperita da altri indici che legittimano una conclusione di alta probabilità logica.

Nel caso di specie, la circostanza che molte delle persone offese avevano una giovane età ai tempi in cui ebbero i rapporti con l’imputato, può portare ad escludere che costui abbia incontrato persone che, a loro volta, erano state infettate da altri e proprio dal medesimo virus.

È decisivo, quindi, ai fini della responsabilità penale, escludere che la vittima abbia contratto altrimenti la patologia, eliminare ogni ragionevole dubbio circa la sussistenza del nesso di causalità e allontanando il rischio di un ritorno all’intuizionismo, mediante un rigore scientifico e probatorio che dovrà emergere dalla motivazione razionale della decisione.

In conclusione, il giudice deve valutare la miglior ricostruzione scientifica emergente dalle risultanze processuali passate al vaglio del contraddittorio, anche con riferimento alla prova del nesso di causalità tra condotta ed evento. Nel caso di un soggetto che volontariamente, e quindi consapevolmente, abbia nascosto al proprio partner di essere infetto da HIV, e quest’ultimo risulti aver contratto tale infezione, ai fini della responsabilità penale, risulta decisivo l’accertamento in concreto che la malattia contratta sia riconducibile proprio a quel singolo, o a quei plurimi rapporti sessuali, e non ad altri. Si tratterà di una prova ardua nei casi in cui, la vittima conducendo una vita sessuale promiscua abbia avuto frequenti contatti, con parters diversi, o sia tossicodipendente; anche in considerazione dei lunghi tempi di incubazione (in uno stato oltretutto asintomatico) tra contrazione del contagio e malattia. Sarà quindi difficile, per l’accusa, escludere fattori causali alternativi ed eliminare ogni ragionevole dubbio.