x

x

Ciò che c’è

Bologna, palazzo d'Accursio
Ph. Giacomo Martini / Bologna, palazzo d'Accursio

Ciò che c’è

 

Ultimamente abbiamo parlato di quanto sia importante cercare di star bene e di far bene proprio là dove (il più delle volte non per volontà) ci troviamo.

Lo abbiamo fatto mettendoci a bottega dai ragazzi della Scuola di Barbiana, da cui abbiamo capito qualcosa in più su cosa sia la vocazione. 

Abbiamo poi letto Seneca che, con la  cruda ma garbata franchezza di cui solo i maestri sono capaci, suggerisce al potente allievo e amico Lucilio che se è scontento ovunque è perché ovunque porta a spasso sé stesso. 

E ancora Benigni ci ha raccontato che anche nel vituperato ordinario può nascondersi la poesia, pronta a disvelarsi a chi accetti di scorgerla. 

Infine, Vecchioni ci ha insegnato a lasciar andare le cose, anche quelle per cui ci siamo compromessi di più, facendo un pezzo di strada con la nuova generazione per poi affidarle il proprio capolavoro, godendosi, vegliando in posizione defilata, lo spettacolo di vederlo camminare su gambe diverse.

Tutto questo per suggerirci che alla fine il tema fondamentale non è sempre e solo relativo alle cose in sé, ma allo sguardo che abbiamo su di esse.

Concludiamo quindi questo ciclo di riflessioni con un’immagine tratta dalla vita quotidiana.

Vogliamo cucinare un torta grandiosa, di quelle la cui preparazione richiede decine di ingredienti. Apriamo la dispensa e cosa troviamo? Solo uova, sale, canditi e formaggio.

Che fare? Abbiamo diverse possibilità.

La prima è maledire la realtà perché il mondo è così crudele da non averci fatto trovare quello che volevamo, dove e quando lo volevamo. Possiamo rimanere con la voglia della torta, invidiare e addirittura provare ostilità verso chiunque sia riuscito a prepararne una. Potremmo addirittura arrivare a convincerci che, alla fine, a noi le torte manco piacciono.

Stare troppo tempo a fissare una dispensa che non ci dà quello che vorremmo alla lunga influenzerà la nostra postura nei confronti di molte altre cose. Vivremo uno stallo e per di più nella pretesa che accada qualcosa di esterno che inneschi nuovamente il movimento: nel nostro caso qualcuno che ci porti la spesa. Aspettare che accada qualcosa, esigere che qualcuno diverso da noi realizzi le precondizioni utili al nostro progetto, avvitarsi in un vortice che si alimenta di senso di impotenza, frustrazione e indivia, tutto ciò è subire passivamente la realtà. L’incapacità di – o meglio, l’indisponibilità a – vedere alternative diverse dall’unica opzione che avevamo in mente ci radicalizza su un confine invalicabile.

Ma si può fare anche altro. Ad esempio possiamo domandarci cosa sia possibile fare con ciò che c'è. 

Ecco che potremmo scoprire che dai pochi ingredienti nella dispensa (li ricordiamo: uova, sale, canditi e formaggio) potremmo cominciare col preparare un frittata. Certo, siamo ben lontani dai sogni di gloria iniziali, ma, se non l'appetito (commistione di gusto, desiderio, aspettativa, ricordi, simbolismi), possiamo iniziare almeno a placare i morsi della meno poetica fame per poi, a stomaco pieno, avere le energie e la lucidità per metterci in movimento e far accadere altre cose. La differenza tra questa postura e quella della prima opzione è evidente. Là si trattava di subire la realtà, qui di accettarla attivamente, accoglierla. Considerare i vincoli dell’ambiente, partire da questi e utilizzarli per creare movimento ci colloca non più su un confine statico, ma su una frontiera che, come tale, si apre all’esplorazione ed è dunque mobile.

Questo per esplicitare una banalità che è sempre meglio ricordare: si può costruire qualcosa solo a partire dalle cose che ci vengono incontro e che abbiamo attorno, semplicemente perché sono le cose che ci sono.

Ma attenzione. Anche tra il poco che c'è ci potrebbero essere ingredienti che non servono al progetto del fattibile. Nel nostro caso si tratta dei canditi.

Anche nell'accogliere il poco che offre la realtà probabilmente dovremo essere pronti a rinunciare a qualcuno degli ingredienti, senza farci prendere dal fuoco efficientista di mettere tutto a sistema. Rischieremmo infatti di rimanere a stomaco vuoto, preferendo il digiuno a qualcosa rovinato da un ingrediente fuori luogo (anche se magari con una frittata ai canditi si potrebbero aprire nuove frontiere… è un’opzione anche questa!).

Probabilmente saremo costretti a tenere i canditi in dispensa. Ci ricorderanno per cosa stiamo lavorando. Saranno la rappresentazione plastica della nostra motivazione. E visto che non c’è cosa meglio nascosta di quella che è quotidianamente sotto gli occhi, dovremmo avere la cura di custodirli e tenerli sempre presenti.

Certo, abbiamo preso il giro largo (da una frittata ad una torta ce ne passa!), ma abbiamo iniziato a muoverci e a creare occasioni: chissà quante cose riusciremo a scoprire ogni volta che nella nostra dispensa porteremo un ingrediente nuovo, che, combinato con gli altri, ci regalerà un viaggio all'interno del viaggio più grande. Alla fine scopriremo che la meta della torta ci ha aperto molti altri itinerari che mai avremo pensato di intraprendere. 

Dobbiamo però dare qualche coordinata pratica. In cosa consiste l’accogliere di cui stiamo parlando? Probabilmente è una composizione – rimanendo in tema gastronomico – di più ingredienti quali consapevolezza, risolutezza, creatività, discernimento e speranza.

Serve consapevolezza perché si deve sapere cosa c'è in dispensa. Sembra banale ma la dispensa va aperta e ci si deve ficcare la testa dentro. Se ho grandi progetti ma poche risorse devo fare pace con ciò che c’è.

Serve risolutezza perché della realtà che arriva spedita verso di noi possiamo scegliere se subirne l'urto, dissipando l'energia scambiata, o cercare di conservare almeno un po' di quell'energia per creare nuovo movimento.

Serve creatività, ovvero uno sguardo diverso sulle cose, perché bisogna trovare un modo per amalgamare ciò che c'è.

Serve discernimento perché talvolta bisogna discriminare tra i diversi usi possibili degli ingredienti: le uova,  una volta sbattute, non si ricompongono. E serve discernimento perché dobbiamo capire cosa lasciare in dispensa, pur se non abbiamo molto altro.

E infine serve una cosa che i tempi che viviamo etichettano come inutile o pericoloso infantilismo, ma che è l’antidoto al nichilismo: un pizzico di speranza. Ma la speranza che intendo non è solo la fiduciosa aspettativa che in futuro si realizzerà ciò che desideriamo: questa sì che è infantile, perché il desiderio, pur essendo il motore del nostro agire, se non maneggiato con cura, rischia di indurre una deformazione ombelico-centrica alla vita. La speranza che intendo è la fiducia nel fatto che, nel viaggio che si intraprende dopo aver messo la testa nella dispensa, a prescindere dal raggiungimento della meta, ci sarà sempre la possibilità di trarre qualcosa di buono e inaspettato anche dalle cose su cui non abbiamo potere.